I’ll get you
Capitolo 4: “What you’re doing”
Era strano.
Era strano ed eccitante.
Era la cosa più pericolosa che John avesse mai fatto e
quando ne aveva parlato con George, anche lui gli aveva dato del folle, dello
svitato, del completamente ammattito. Ma non uno dei suoi tentativi di
convincimento riuscirono a fargli cambiare idea, né il “E’ un fottuto
poliziotto”, né il “E’ il fottuto
poliziotto che sta cercando te”, né il “Se compi un passo falso, sei fregato.”
Semplicemente a John piaceva il rischio. Il rischio era
come prendere una piccola scossa, era come il ketchup sulle patatine, rendeva
tutto migliore.
E doveva anche considerare che questa nuova “amicizia”
gli sarebbe stata molto utile. Per suonare bene la chitarra? Sì, anche, ma
soprattutto perché c’era la possibilità di ricavare qualche informazione utile
sugli spostamenti della polizia.
Così ora si trovava in compagnia dello sbirro, no, anzi,
di Paul, nel suo studio per la loro seconda lezione. John aveva ricavato
questa piccola stanza per se stesso dietro il negozio. Qui custodiva un paio di
chitarre acustiche, una elettrica, una tastiera, un amplificatore, poi c’era
qualche scaffale con libri di musica, e sulla parete opposta rispetto a dove
suonava John, erano appese diverse foto di lui con George e la sua fidanzata
Pattie, ma soprattutto di lui e Julian, Julian che giocava nel parco, Julian
che dormiva a casa, Julian che mangiava la pappa con il bavaglino… Era un modo
per averlo sempre con sé, anche la mattina, quando lui era all’asilo.
“E’ tuo figlio?” gli chiese all’improvviso Paul.
Aveva visto quelle foto già durante la loro prima
lezione, e aveva anche riconosciuto il ragazzo che qualche giorno prima l’aveva
chiamato “sbirro”: si chiamava George e aiutava John in negozio. Tuttavia Paul si
era dimenticato di chiedere informazioni riguardo le foto del bambino. E ora,
mentre accordavano le chitarre prima di cominciare, Paul ne approfittò per
sapere.
John sorrise, di un sorriso dolce, felice, sincero, “Sì,
si chiama Julian.”
“Si vede, ti assomiglia molto.”
“Dici?”
“Sì, avete la stessa forma degli occhi.”
“Lo dicono tutti.” commentò John, compiaciuto, allentando
la corda del Mi cantino.
“Quanti anni ha?”
“Quattro. È nell’età in cui posso ancora spupazzarlo
quanto voglio.” esclamò, prima di non riuscire a trattenere una risatina.
Paul rise, “Sì, immagino. Quindi sei sposato?”
“No.”
“Fidanzato?”
“Mm…no.”
Paul aggrottò la fronte, perplesso, “E la madre?”
John sospirò, doveva pur aspettarsi quella domanda. Tuttavia
non era pronto a condividere tanto con un perfetto sconosciuto.
“Diciamo solo che è una storia lunga.” tagliò corto John.
“Oh, capisco.”
Paul si morse il labbro, pensando che forse avesse osato
un po’ troppo e che non gli fosse ancora permesso chiedere cose così private a
un uomo che conosceva da appena due settimane. Tuttavia, sperava che John
capisse che fare domande, essere curioso, era nella sua natura di poliziotto.
Non lo faceva per essere scortese, era semplicemente più forte di lui.
“Andiamo avanti?” domandò infine John, sorridendo per
mostrargli che non era arrabbiato, o meglio, era arrabbiato, ma non con Paul.
Era arrabbiato perché quella storia, quella della madre
di Julian, faceva ancora male dopo tanto tempo e non era giusto.
Paul annuì più rilassato, “Hai studiato il giro di Do?”
“Certo, prof.”
“Allora, prego.” disse Paul, facendogli cenno di
dimostrarglielo.
John guardò solo brevemente le corde sul manico della
chitarra, per sistemare le dita nei tasti giusti, e poi cominciò a suonare gli
accordi del giro di Do.
Era molto più difficile, rispetto a come era solito
suonare lui. Il suo primo insegnante, quello che l’aveva introdotto nel mondo
della musica, aveva omesso il piccolo particolare che il banjo avesse solo
cinque corde, mentre la chitarra sei. Era ovvio che il modo di suonare fosse
diverso.
Inoltre, non si doveva arpeggiare sempre con tutte le
corde. Alcuni accordi ne coinvolgevano solo cinque o addirittura quattro.
Questo spiegava perché quando suonava, alcuni suoni non erano proprio
pulitissimi.
Paul aveva ridacchiato quando l’aveva visto suonare in
quel modo, prima di correggere subito la sua tecnica.
Così da quella prima lezione John si era esercitato un
po’ ogni giorno, mentre George lo sostituiva in negozio, o a casa, mentre
Julian giocava con le sue costruzioni.
Con Paul avevano stabilito di vedersi due volte a
settimana. Le lezioni erano piacevoli, era come se il tempo passasse
velocemente, John si divertiva, mentre Paul non sembrava essere altrettanto a
proprio agio, sia per la questione della musica, sia perché era ancora un po’
in imbarazzo con John, considerato il fatto che si conoscessero da poco tempo.
Tuttavia John sentiva che col tempo si sarebbe lasciato andare. Se c’era una
cosa in cui era bravo, era piacere alle persone. Quando si impegnava, era un
maestro in quell’arte.
E Paul, l’ispettore McCartney, la sua nemesi, non avrebbe
impiegato molto tempo a lasciarsi andare, a fidarsi di lui, a confidarsi con
lui…Dopotutto, da quello che John aveva capito, a Londra Paul non conosceva
molte persone, doveva sentirsi abbastanza solo, desideroso di parlare con
qualcuno prima o poi, e quando fosse stato pronto, John sarebbe stato lì,
pronto a raccogliere le sue confidenze, cercando di capire i suoi punti deboli
e qualunque altra informazione che avrebbe potuto sfruttare per la buona
riuscita dei suoi colpi.
Piuttosto crudele come piano, ma non importava. Non a
John almeno. La vita, le persone si erano prese gioco di lui, l’avevano illuso,
abbandonato. Quindi ora perché avrebbe dovuto portare rispetto, preoccuparsi di
persone che non fossero quelle poche che era certo, non l’avrebbero mai
lasciato? George, Julian, l’uomo che l’aveva salvato, solo loro contavano per
John.
“Niente male, impari in fretta, vedo.” commentò Paul,
alla fine della lezione.
John aveva suonato senza neanche un’incertezza il giro di
Do e poi, insieme a Paul, aveva perfezionato quello di Sol e Re.
“Non imparo in fretta.” disse lui, scuotendo lievemente
il capo, “E’ solo che voglio imparare.”
“Giusto. È una differenza importante.” esclamò Paul,
riponendo la chitarra nella custodia.
“Tu, invece, dici di odiare la musica, ma ti ricordi bene
come suonare.”
Paul si accigliò lievemente, “Sì, beh, ho suonato per
tanto tempo. Sono cose che non si dimenticano. È come andare in bicicletta.
Saprai farlo per sempre.”
Detto questo, gli porse la chitarra. Era una delle
chitarre che aveva John. Paul naturalmente aveva lasciato la sua a casa di sua
madre, per cui John gli aveva offerto una di quelle che teneva nel suo piccolo
studio.
“Se vuoi, puoi tenerla.” gli disse John.
“No, grazie.”
"Sei sicuro? A me non dispiace, sai. Ne ho un bel
po' a disposizione."
Paul sorrise, "Sono sicuro, non ti
preoccupare."
“Come desideri.” sospirò l'altro ragazzo.
Così John prese la chitarra dalle mani di Paul e la
sistemò insieme alla sua.
“Devo andare ora.” esclamò Paul, “Devo ancora recuperare
qualcosa da mangiare e andare a letto presto. Domani mi aspetta una giornata di
lavoro impegnativa.”
John drizzò le orecchie, tutti i suoi sensi erano
improvvisamente all’erta.
“Certo. Come…” disse, voltandosi con un movimento lento
verso Paul, “Come va con il lavoro? Qualche svolta interessante?”
“Ecco, veramente…” iniziò a dire Paul, ma si fermò appena
in tempo, “Forse non dovrei parlare di queste cose, sai, sono riservate.”
“Oh sì, giusto.” commentò John, mordendosi il labbro,
“Perdonami, non volevo intromettermi.”
Paul fece un vago gesto della mano, “Non c’è problema,
anzi, ti ringrazio per l’interessamento.”
John annuì, sorridendo, e poi si salutarono, decidendo di
incontrarsi all’inizio della settimana successiva, per la nuova lezione.
Quando l’ispettore se ne andò, John imprecò sottovoce.
Non avrebbe mai dovuto fare quella domanda. Era troppo presto, dannazione, ed
era ovvio che Paul avrebbe risposto in quel modo. Sicuramente non sarebbe stato
difficile da fare fuori, questo piccolo sbirro, ma era altrettanto vero che non
era uno stupido. John poteva farcela, doveva solo giocare bene le sue carte.
Ora più che mai doveva ricorrere al suo ingegno.
E poi Paul McCartney sarebbe stato un semplice ricordo.
****
Il giorno dopo, mentre Paul esaminava alcuni file sul
computer riguardanti Hermes, l’ispettore capo Starkey gli comunicò che fra un
paio di settimane sarebbe arrivato in città un ricco impresario, il quale
possedeva una famosa collezione di cimeli dei più famosi cantanti rock. Di
recente ne aveva aggiunto uno piuttosto particolare: si trattava di un disegno
della metà degli anni Sessanta, il quale rappresentava un personaggio composto
da alcuni tratti individuali dei cinque Rolling Stones, ovvero i capelli di Mick, la faccia di
Brian, gli occhi di Keith, il naso di Charlie, e la bocca di Bill. Il ritratto
era stato fatto da un’adolescente inglese che era riuscita a farlo autografare
dagli stessi componenti della band.
L’uomo, ora proprietario del ritratto, aveva ricevuto una
lettera da parte di Hermes, che lo avvisava di voler rubare quel cimelio e
l’avrebbe fatto tra due domeniche. Per questo motivo aveva richiesto un
sopralluogo della polizia e ovviamente, la loro protezione.
Quel pomeriggio, quindi, Paul e qualche agente scelto si
recarono nella villa dell’uomo. Era un grande palazzo che si sviluppava su tre
piani. Paul ne rimase affascinato, sembrava un castello, non aveva mai visto
una casa così enorme. Che se ne facevano di tutte quelle stanze?
Rise un po’ del suo pensiero, fino a quando una giovane
donna dai lunghi capelli biondi, una dei suoi agenti scelti, gli rivolse uno
sguardo sconcertato e lui riprese un po’ di contegno e professionalità. Osservò
bene la casa e i dintorni. Era immersa nel verde: ai lati vi erano alberi dalle
fronde rigogliose e il giardino era ben curato, circondato da un elegante
cancello smaltato di nero, con le punte dorate e ben affilate.
Il proprietario del palazzo, tale John Lowe (1)
li accolse calorosamente e subito si apprestò a fargli fare un giro della
tenuta. Beh, se Paul era rimasto affascinato dalla facciata anteriore, lo fu
ancor di più quando scoprì che nella parte posteriore vi era una immensa
piscina. Tuttavia la cosa davvero spettacolare era ancora quella distesa verde,
con siepi e alberi meravigliosi, che rendevano tutto così naturale. Santo
cielo, c’era anche un laghetto da cui partiva un piccolo ruscello che si
snodava tra gli alberi e confluiva in un lago un po’ più grande.
L’uomo informò Paul su tutte le telecamere appostate nei
diversi punti del cancello e del palazzo, aggiungendo che erano tutte collegate
ai monitor della sala video che si trovava in un’ala del suo vastissimo
palazzo. Paul decise di andare subito a esaminare la sala. Non era niente male,
qualcosa di estremamente tecnologico, neanche la polizia era così avanzata da
quel punto di vista.
E lì, in quella sala, il signor Lowe informò Paul del suo
piano.
“Il vero ritratto è nel sotterraneo?” ripeté sbalordito
l’ispettore.
“Sì.”
“Allora dovremmo disporre degli uomini anche laggiù.”
“Certo che no.”
Paul sbatté le palpebre, perplesso, “Chiedo scusa?”
“Non ce ne sarà bisogno. È rinchiuso in una cassaforte a
prova di scasso.” affermò orgoglioso l’uomo, “Inoltre se il ladro vedesse degli
uomini nel sotterraneo, si insospettirebbe. Al contrario, lasciandolo incustodito,
lo attireremo nella sala dove è esposto e potrete arrestarlo.”
“Ma è troppo rischioso, signore, stiamo parlando di un
ladro esperto, non di un volgare delinquente.”
“E io le dico che il piano funzionerà, non si preoccupi,
ispettore McCartney. Hermes finirà in gabbia, glielo prometto.”
Così, alla fine, Paul fu costretto a sottostare al
suggerimento del signor Lowe.
Era totalmente da folli, Paul lo sapeva. Ma cosa poteva
fare? Anche l’ispettore capo Starkey, quando tornarono dal sopralluogo, gli
aveva consigliato di seguire le indicazioni dell’uomo. Non potevano fare altro,
era la sua decisione dopotutto.
Tuttavia la rabbia in Paul continuò a ribollire per tutto
il giorno. Solo quando fu l’ora di andare a casa cominciò a stare meglio, a
rilassarsi. In fondo, non sarebbe stata colpa sua, se Hermes fosse riuscito a
rubare quel ritratto.
Tornando verso casa, sentì il bisogno di sfogarsi con
qualcuno, di parlare di quanto era successo, ma con chi? A casa non lo
aspettava nessuno e Jane era lontana, impegnata probabilmente a girare il suo
film.
Un senso di solitudine gli oppresse il cuore, mentre
imboccava la via del suo appartamento, e quando fu davanti alla sua porta, il
suo sguardo cadde sul negozio di John, già chiuso, dal momento che era molto tardi.
Peccato, avrebbe potuto parlare con lui. Gli sarebbe
piaciuto passare a salutarlo, solo per scambiare due parole con qualcuno che
non fosse un suo collega di lavoro, solo per sfogare l’assoluta frustrazione di
quella giornata.
Poi però si ricordò dell’ultima volta che si erano visti
e si morse il labbro, mentre entrava in casa. Forse a John non avrebbe fatto
così piacere vedere proprio lui, dopo quello che era successo.
Paul sapeva di aver fatto la cosa giusta, eppure una
piccola parte di lui, gli stava sussurrando che non aveva risposto alla sua
domanda perché non si fidava. Paul non si fidava mai di nessuno e questo lo
portava ad avere pochi amici, anzi pochissimi amici.
Jane gli diceva che era sempre troppo chiuso in sé e
nelle loro chiacchierate al telefono, lo incoraggiava a cercare di frequentare
qualcuno per socializzare e non lasciare che Paul si sentisse troppo solo, dal
momento che il suo lavoro l’avrebbe tenuta lontano da Londra per molti mesi
durante l’anno. Se Paul ci pensava bene, ormai aveva solo Jane e un paio di
amici d’infanzia a Liverpool.
Non riuscire a fidarsi delle persone era un vero
problema. Paul sapeva che era dovuto all’essere stato abbandonato da quell’uomo
nella sua infanzia. Non era qualcosa che avrebbe risolto da un momento
all’altro. Lui allontanava le persone dalla sua vita, poca confidenza lo
difendeva da altro dolore. L’unica che fosse riuscita ad avvicinarglisi era
stata Jane. Paul sarebbe stato perso senza di lei. Letteralmente. Jane era
l’unica cosa certa nella sua vita, l’unica cosa per cui valesse la pena
rischiare.
Tuttavia era anche vero che non potesse continuare così e
lo stava capendo solo ora, ora che non aveva nessuno con cui confidarsi,
neanche i colleghi, dal momento che tutti erano ai suoi ordini e non poteva
permettersi di mostrarsi incerto, dubbioso, arrabbiato.
Da quando aveva iniziato quelle lezioni con John, Paul
pensava che forse non ci fosse pericolo a dargli un po’ di confidenza. Solo un
po’. Dopotutto stava affrontando anche il suo problema con la musica un passo
alla volta. Era stato difficile la prima volta che aveva ripreso la chitarra in
mano. All’inizio si era meravigliato che ricordasse alla perfezione tutti gli
accordi e questo forse l’aveva aiutato ad andare avanti, imbracciare nuovamente
la chitarra e suonare per mostrare a John le posizioni corrette. Tuttavia, in
seguito, Paul aveva capito che non aveva motivo di essere così sorpreso, perché
era semplicemente naturale. Il suo primo approccio con la musica era stato
entusiasmante, importante, l'aveva segnato a vita, proprio come ciò che era
seguito, ciò che l'aveva portato ad allontanarsi definitivamente dalla musica.
Allontanarsi, ma non dimenticarla, perché ora era diventata come una cicatrice:
non provocava più dolore, ma era lì e Paul lo sapeva, sapeva tutto di quella
cicatrice, chi l'avesse causata, perché e come... Una cicatrice che era debole,
poteva riaprire la ferita e fare ancora male.
Ma non tutti nel mondo desideravano fargli del male. Chi
era lui, in fondo? Solo un ragazzo, uno come tanti. Perché mai qualcuno, uno
come John per di più, che desiderava solo imparare qualcosa da lui, avrebbe
dovuto per forza fargli del male? Non c'era motivo. Allora perché non provare a
fidarsi di lui, solo di lui per ora? Un po' per volta...
Affrontando tutto ciò con convinzione ed estrema
naturalezza, Paul aveva deciso di presentarsi al negozio di John il giorno
successivo. George era alla cassa e quando vide Paul, gli indicò con un cenno
del capo la stanzetta dietro il bancone.
Mormorando un rapido "Grazie", Paul si diresse
verso il luogo da cui provenivano degli accordi più corretti rispetto a quelli
sentiti diversi giorni prima.
John proprio non si aspettava di vedere Paul lì. Quando
si accorse del giovane uomo in piedi di fronte a lui, sbatté le palpebre
sorpreso.
"Paul?"
"Ciao, John."
"Cosa ci fai qui?"
"Devo...ehm... io…” iniziò a balbettare Paul,
incerto, ma poi si ricordò che la sua decisione era stata presa ed era
determinato ad andare fino in fondo, “John, io devo chiederti scusa."
Il giovane uomo sbatté le palpebre, perplesso, "Scusa?"
"Sì. Per l'altro giorno."
"Oh. L'altro
giorno.” esclamò John, ricordando, “Ma, Paul, non ce n'è bisogno. Avevi
ragione tu."
"No, non era giusto.” ribatté accalorato Paul, “Tu
ti stai affidando a me per questo nostro accordo, significa che hai riposto in
me vera fiducia. E io te ne sono grato, sai, ma non sto facendo lo stesso con
te."
"Non è una cosa
istantanea, Paul, ci vuole tempo. Non si diventa amici da un giorno
all’altro." esclamò John, con una risata.
Paul scosse il capo,
sorridendo fra sé, “No, ma la verità è che fino a questo momento, non avevo mai
voluto trovarmi degli amici. Anzi, non avevo mai capito quanto potesse essere
importante, avere qualcuno con cui parlare di qualunque cosa.”
"Ora sì?"
Paul annuì, percependo un
lieve fremito alle mani. Sì. Ora sapeva. Sapeva che stava compiendo un altro
passo importante nella sua vita, uno che non pensava di poter fare fino a poche
settimane prima.
"Cosa ti ha fatto
cambiare idea?" domandò John, sinceramente interessato.
"Stress da
lavoro." rispose Paul, con una risata, "È sufficiente come
risposta?"
"Altroché."
esclamò John, mentre si alzava per recuperare una sedia affinché Paul potesse
sedersi di fronte a lui, e poi ripeté la stessa domanda di qualche giorno
prima, "Allora, Paul, come va con il lavoro?"
Paul guardò John che batteva
la mano sulla sedia di fronte a lui, invitandolo ad accomodarsi; si morse il
labbro, mentre una stupida vocina dentro di lui gli sussurrava di andarsene
subito. Stava solo facendo del male a se stesso.
Ma Paul stava cambiando.
Aveva deciso di cambiare.
Così, mise a tacere la
vocina nella sua mente e si sedette di fronte a John.
"Un vero
disastro." sbottò Paul esasperato, "Non hai idea di quello che abbia
dovuto sopportare oggi."
John gli sorrise
incoraggiante.
"Racconta."
(1)- John Lowe, uno dei componenti
dei Quarrymen.
Note dell’autrice: buona domenica.
Andiamo con il nuovo capitolo.
Allora, giusto un paio di cose da dire su questo. La prima è che questo
capitolo, l’idea di fondo, diciamo, del piano di nascondere il vero ritratto
nel sotterraneo è presa dal primo episodio dell’anime “Occhi di gatto”, che
probabilmente voi siete troppo piccoli per ricordare, ma ai miei tempi andava
alla grande. :3
E la seconda è che il ritratto
che John vuole rubare esiste davvero, e se vi interessa, nel prossimo capitolo
allegherò la foto.
Grazie a kiki
per la correzione, a ringostarrismybeatle e SillyLoveSongs per il supporto e a tutti quelli che seguono
la storia.
Il prossimo capitolo, “A hard day’s night” arriverà domenica prossima, probabilmente in
serata, però. :/
E facendo anche tanti auguri a
tutte le vostre mamme, vi lascio la storia che avevo scritto l’anno scorso per
questa occasione, Mary Julia.
A presto
Kia85