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Autore: Hotaru_Tomoe    11/05/2014    14 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Per questa fanfiction devo ringraziare due persone: Snehvide che ha pubblicato una foto che mi ha dato la prima ispirazione e Macaron che mi ha pungolato finché non ho pubblicato. C’è una parte della storia che è dedicata a lei in particolare, prima di tutto perché è nata da uno scambio di messaggi, e poi è anche per dirle grazie per la sua fantastica cucina.


VACANZE ROMANE

“La tua carta d’identità è valida?”
“Sì, certo.”
“Bene. Sabato mattina partiamo per Roma.”
“Ma i biglietti? L’albergo?”
“E’ già tutto pagato.”
“Oh. Va bene, allora.”


John non aveva fatto altre domande: non aveva chiesto se quel viaggio fosse legato ad una indagine di Sherlock, l’aveva dato subito per scontato, ma non aveva chiesto informazioni sul loro cliente né su quanto tempo sarebbero stati via da Londra, limitandosi a preparare la valigia il venerdì sera.
Dopotutto non doveva avvisare nessuno, poiché al momento era disoccupato, era grande e vaccinato e sua sorella non doveva essere al corrente di ogni suo spostamento e la sua unica preoccupazione era quanto quel viaggio potesse incidere sulle sue finanze, ma a quanto pareva il cliente si era generosamente offerto di anticipare le spese e per lui non c’era altro da discutere.
Restò silenzioso per tutto il tragitto verso l’aeroporto e anche sul volo che li portava in Italia rispose con un brusco cenno di diniego del capo alla hostess bionda e sulla quarantina che gli domandava se gradisse qualcosa da bere, stroncando così ogni tentativo di conversazione.
John aveva parlato e discusso e litigato così tanto e così inutilmente nei mesi precedenti con la sua (a breve) ex moglie, che ora gli sembrava di non aver più nulla da dire su nessun argomento e, a volte, anche un semplice ‘buongiorno’ gli costava fatica, quasi che tutte le parole dentro di lui si fossero disseccate, come un lago senza più affluenti che pian piano muore.
D’altronde, dopo quello che aveva scoperto, sfidava chiunque a dargli addosso per via del suo mutismo.

Per una strana coincidenza lui e Mary avevano lo stesso gruppo sanguigno: A con fattore Rh negativo. Quando l’aveva scoperto, durante uno dei primi esami di controllo della gravidanza di sua moglie, ne era rimasto stupidamente intenerito: era una cosa che avevano in comune, un microscopico mattoncino che poteva aiutarli a ricostruire il loro rapporto dopo tutto ciò che era accaduto con Magnussen.
Quella similitudine tra loro l’aveva spinto a credere che Sherlock avesse visto giusto, ancora una volta, quando l’aveva spronato a perdonarla: poteva esserci di nuovo affinità tra loro due, anche partendo da un particolare così sciocco.
E invece, beffardamente, fu proprio quel piccolo particolare a decretare la fine di ogni sentimento che John potesse provare nei confronti di sua moglie.
Ci fu una piccola complicanza al momento del parto. Nulla di particolarmente drammatico: il cordone ombelicale era troppo lungo e si era aggrovigliato su se stesso, così la bambina venne al mondo con un colorito cianotico, ma non appena emise il primo strillo, i polmoni si misero a funzionare a dovere e dopo pochi minuti l’epidermide della neonata aveva già un bel colore roseo. Per precauzione, solo per precauzione, John chiese un esame del sangue, per verificare, tra l’altro, il livello di ossimetria ed, essendo un dottore, una delle prime cose che voleva memorizzare di sua figlia era il gruppo sanguigno: un’informazione che molti genitori tendevano a trascurare, ma che invece poteva rivelarsi estremamente utile.
E, nel lasso di tempo intercorso tra il prelievo alla bambina ed il referto, John fu felice, davvero felice: Mary era stanchissima, sofferente e raggiante mentre accostava per la prima volta la piccola al suo seno e si disse che sì, quella era stata la scelta giusta. Stava giusto per mandare un messaggio a Sherlock e comunicargli il lieto evento, quando un’infermiera gli portò i risultati degli esami del sangue.
Il dato gli balzò immediatamente agli occhi, ma ancora non sospettava nulla, così ingenuo, così testardamente convinto che in Mary ci fosse qualcosa di buono. Riconsegnò il referto alla donna scrollando la testa con fare esasperato “C’è un errore: questo non è l’esame del sangue di mia figlia. Per l’amor del cielo, fate attenzione con queste cose!”
“Non è possibile, abbiamo una procedura rigorosa che evita questo tipo di errori.”
“Le dico che è sbagliato. Per favore, lo faccia ripetere.”
“John - chiamò Mary ansiosa dal letto - qualche problema?” chiese, stringendo impercettibilmente più forte la neonata al petto.
“No, no. - John le massaggiò le spalle con fare rassicurante - Qualche idiota di tecnico ha confuso le provette, tutto qua.”
Gli esami del sangue vennero ripetuti e riconsegnati a John, ma quel dato scomodo ed incongruente non era cambiato. L’ossimetria era del novantotto per cento. Perfetta, dunque.
Infatti non era quello il problema.
John restò in piedi, a stringere convulsamente tra le mani il foglio del referto, un ronzio sordo nelle orecchie e un attacco di nausea talmente forte ed improvviso che fu sul punto di vomitare.
La genetica era una scienza esatta e in nessun caso, a fronte di due genitori con gruppo sanguigno A ed Rh negativo, il figlio poteva avere gruppo sanguigno B con fattore Rh positivo [1]. Il gruppo sanguigno della madre non poteva essere messo in discussione, quindi…
La stessa infermiera di prima (forse - in quel momento non era in grado di dirlo) lo scosse energicamente. “Dottor Watson? Sua moglie la sta chiamando da dieci minuti.”
“John! Adesso mi fai preoccupare. Lei sta bene?” chiese nuovamente Mary.
Oh sì, la bambina che si era assopita immediatamente dopo la prima poppata, stava bene. Almeno lei, indifesa e innocente tra le braccia di una donna che non sapeva cosa fosse l’innocenza, stava bene, ignara di tutto ciò che la circondava.
“Diventa grande più lentamente che puoi. Diventa consapevole di quanto possa far schifo il mondo il più tardi possibile.” fu l’unico pensiero silenzioso che John le rivolse.
“Ma sì, sì, la bambina sta benissimo, gli esami sono tutti nella norma. - intervenne l’infermiera, per spezzare il silenzio teso e nervoso - Allora, avete già deciso come chiamarla?”
“Questo - scandì John, gelido - dovrebbe chiederlo al padre.”
Lasciò la stanza senza voltarsi verso Mary, consapevole ormai che qualunque espressione avesse assunto il suo viso, qualsiasi cosa gli avesse detto per giustificarsi, lui non le avrebbe più creduto.
Uscì dall’ospedale e vagò nei dintorni come inebetito: non sapeva che fare, non sapeva nemmeno cosa pensare; a un certo punto le sue gambe lo portarono, per abitudine, ad incamminarsi verso Baker Street e l’unico pensiero che la sua mente riusciva a formulare era “Come farò a dirlo a Sherlock?” Qual era il modo migliore di dire a un uomo che aveva sacrificato tutto per nulla? Che il suo voto era stato calpestato? Quali erano le parole giuste per comunicargli che era diventato un assassino inutilmente? Che aveva cercato di salvare qualcosa che davvero non valeva la pena salvare? Che non c’era nulla da salvare?
Non c’erano.
Non c’erano e faceva più male della consapevolezza di essere stato tradito. Nel caos assoluto dei suoi pensieri, con la rabbia che gli ribolliva dentro ed il referto medico che continuava a comparirgli davanti agli occhi, il suo orgoglio maschile risentiva appena di quanto era appena accaduto.
Aveva fatto molto più male essere stato ingannato da Sherlock per due anni, ma il suo amico aveva espiato le sue colpe, fin troppo, a differenza di Mary aveva ben pensato di reiterarle e renderle ancora più gravi.

“Non è mia.” disse infine davanti al portone verde. La verità nuda e cruda, priva di orpelli. L’unica cosa che contava: la bambina non era sua. tutto il resto, chi fosse il padre, se lui e Mary fossero ancora amanti o no, era un corollario privo di importanza.
Sherlock schiuse appena le labbra senza emettere alcun suono, stupito, quasi orripilato dalla rivelazione, e abbassò gli occhi con fare colpevole per non essere riuscito a leggere nell’anima di una donna che si era rivelata più scaltra e ingannatrice di Moriarty, per averlo spinto tra le sue braccia.
“No!” esclamò John con rabbia, stringendo i pugni lungo i fianchi. Avrebbe voluto afferrarlo per la maglietta e scrollarlo. “Smettila. Non osare sentirti in colpa per causa sua. Non ne vale la pena. Lei non vale tutto ciò che hai fatto per lei” avrebbe voluto dirgli, ma Sherlock si scostò per farlo passare e la signora Hudson che uscì dal suo appartamento per chiedere cosa ci facesse lì a quell’ora di notte interruppero la conversazione.
John le spiegò brevemente cos’era successo ed accettò il suo abbraccio materno e sincero, mentre Sherlock salì nella sua vecchia camera, ora invasa da libri, pile di giornali e scatoloni, che spostò alla bell’e meglio, giusto per permettere a John di raggiungere il letto.
“Domani gli troverò una sistemazione da qualche parte.”
“Fai con calma, sono io che sono piombato qui all’improvviso.”
“Non dire stupidaggini, tu non ‘piombi qui’, John, puoi venire ogni volta che ti pare, e restare, se è ciò che desideri.”
John si guardò attorno: sepolti sotto al caos sherlockiano dilagato ovunque senza controllo, c’erano ancora il suo letto, il suo armadio e la finestra che dava sul tetto in lamiera della palazzina di fronte; Sherlock non aveva cercato un altro inquilino, nessun altro aveva preso il suo posto, aveva ancora un posto dove stare, ma in quel momento era talmente sopraffatto dall’odio e dall’amarezza per rallegrarsene.
“Ti serve altro per stasera?” chiese Sherlock, spingendo con il piede alcune vecchie riviste scientifiche sotto al letto.
“Potresti suonare qualcosa per me? Beethoven, magari.”
“Beethoven, sì.” ripeté Sherlock. Portò il violino al piano di sopra e suonò finché John non si fu addormentato.
La mattina seguente John trovò una copia delle chiavi sul tavolino da caffè e la sua vecchia tazza sul tavolo della cucina e quando Sherlock, nascosto dietro al Times, ordinò “Tè, grazie”, non ci fu bisogno di dire altro.
Magari le cose tra lui e Mary avessero potuto concludersi allo stesso modo, nel silenzio. Invece, due giorni dopo, lo chiamò. John era tentato di non rispondere, di buttare il cellulare a terra e di saltarci sopra fino a ridurlo in briciole, ma Sherlock, che era seduto in poltrona, si alzò e glielo porse. “Rispondile, o continuerà a cercarti.”
John afferrò il telefono di malavoglia e rispose.
“Che vuoi?” chiese brusco. E’ vero che era inglese e che le buone maniere per lui venivano prima di tutto, ma pensava di avere tutti i diritti di essere maleducato e stronzo sino all’inverosimile.
“Dove sei?”
“A casa.”
“No John. Io sono a casa nostra e tu non sei qui, quindi, dove sei?”
Gli sfuggì una risatina allibita: sul serio Mary riteneva che quella fosse ancora casa loro, dopo quello che aveva scoperto?
“John?” incalzò la donna. Non lo avrebbe lasciato in pace tanto facilmente, a quanto pareva.
“Sono da Sherlock.”
“E quando torni a casa? Ho appena partorito e non posso farcela da sola.”
“E lui dov’è?”
“Non è qui al momento, e poi comunque non conta.”
Ad ogni affermazione di Mary, lo stupore di John cresceva sempre più, al punto tale da annientare la rabbia. Probabilmente era un bene.
“Secondo me invece conta moltissimo.”
“John, ho fatto mettere il tuo nome per la paternità di nostra figlia sul certificato di nascita.”
“Tu hai fatto cosa?” urlò John così forte da far accorrere la signora Hudson. Sherlock rimase impassibile e le fece cenno alla loro padrona di casa di tornare al piano di sotto, ma lei, risoluta, rimase dove si trovava.
“Torna a casa - scandì piano Mary, e ti spiegherò ogni cosa.”
“Cioè cercherai di rifilarmi altre bugie?”
“No, ti dirò la verità, e quando l’avrai ascoltata, si sistemerà tutto.”
“Tu sei completamente pazza! Tu… tu…” esasperato, John interruppe la comunicazione, poi si girò a guardare il suo amico.
“Hai sentito?”
“Sì, ho sentito. E credo che tu debba andare.”
“Cosa?” il suo tono di voce andava ben oltre l’incredulità.
No, John non era circondato da psicopatici, era circondato da pazzi furiosi incapaci di intendere e volere. “Voi siete fuori di testa, entrambi!” gracchiò.
“Sherlock, caro - intervenne la loro padrona di casa - questa volta sono d’accordo con John. C’è un limite a quello che una persona può perdonare e questo non è scusabile, non dopo tutto quello che è accaduto.”
“Grazie signora Hudson, sono contento di vedere che qualcuno conserva ancora un minimo di buonsenso.”
“No, non sto dicendo che devi perdonarla, non più. E se avessi sospettato una cosa del genere non l’avrei suggerito nemmeno la prima volta.” mormorò Sherlock le labbra piegate all’ingiù in una smorfia sinceramente dispiaciuta.
“E allora perché?”
“Non vuoi vederla mai più?”
“Sì! Nonostante sembriate tutti pensare il contrario, non sono un masochista.”
“Allora devi vederla e sentire quello che ha da dirti. Solo così potrai chiudere definitivamente con lei.”
“Io non le voglio le sue spiegazioni.”
“Per adesso. Ma poi le vorrai.”
John trasse alcuni respiri profondi e chiuse gli occhi per calmarsi: Sherlock aveva ragione, quando lui era tornato John non si era accontentato delle poche scuse sibilline balbettate quella prima sera tra un pugno ed una testata, e non gli aveva dato tregua finché non gli aveva spiegato fin nei minimi dettagli ciò che aveva fatto e, soprattutto, cosa lo aveva spinto a farlo, perché la notte non riusciva più a dormirci.
E sarebbe stato così anche questa volta: era un qualcosa di troppo grande, troppo grave per poter essere semplicemente dimenticato senza alcuna spiegazione. Adesso John tollerava a malapena il pensiero di stare nella stessa stanza con Mary, ma in futuro i perché rimasti senza risposta lo avrebbero tormentato, ed aveva appena ammesso di non essere un masochista.
“Va bene - esalò stancamente - va bene.”
Si recò da Mary il pomeriggio stesso e la trovò seduta in poltrona con la bambina in braccio.
“Sono molto contenta che tu sia venuto. Vuoi prenderla in braccio?” chiese, e fece per porgergli la piccola.
John la studiò attentamente. “Non è vero che, da neonati, i bambini sono tutti uguali; pur se in nuce, essi hanno già le caratteristiche fisiche che svilupperanno crescendo.” si ritrovò a pensare.
I capelli chiari ed il profilo della bocca erano sicuramente di Mary, ma la forma delle orecchie e la distanza tra gli occhi no.
E non erano nemmeno suoi.
“No.” rispose John restando in piedi: sperava di far capire a Mary che non avrebbe protratto quella visita più del necessario.
La donna si riaccomodò la bambina tra le braccia. “Come vuoi.” mormorò con il tono sicuro di chi è convinto che l’altro cambierà presto idea. “E’ successo solo una volta - confessò in fretta, per liberarsi da quel peso - qualche settimana prima che ci sposassimo. Lui si chiama Alan ed è… era un mio ex collega: un tempo abbiamo avuto una storia, ma è tutto finito da più di dieci anni.”
“Noto.” soffiò l’altro con sarcasmo.
“Ci siamo incontrati per caso a Regent’s Park, abbiamo preso un tè insieme, e abbiamo iniziato a parlare…” ebbe almeno la decenza di distogliere lo sguardo da John. Aspettò un suo commento, ma l’ex soldato non le offrì alcun appiglio e allora Mary proseguì “Tu e Sherlock stavate seguendo il caso della Guardia Reale e-”
“NO! - tuonò John così forte da spaventare la bambina, che scoppiò a piangere - Non osare usare questo come scusa.”
“Va bene, ma tu non urlare: non vedi che la spaventi?”
John schioccò le labbra, infastidito da come la moglie stesse usando la figlia come scudo.
“Non avrei dovuto, lo so, e me ne sono pentita immediatamente. Ci siamo fatti trascinare dai ricordi, da ciò che abbiamo vissuto insieme, e poi… se ci ripenso non mi capacito che sia successo.”
“Oh, mi fa piacere che per te non sia un’abitudine andare a letto con tutte le spie del vecchio continente.”
Mary gli rivolse uno sguardo di ghiaccio ed ebbe l’ardire di mostrarsi offesa. “Infatti. Alan è stato molto importante per me: anni fa, in Crimea, mi salvò la vita. Oggi non sarei qui, se non fosse stato per lui.”
“Oh, allora dammi il suo indirizzo, così gli faccio avere un mazzo di fiori, che ne dici?”
“John…” Mary sospirò pesantemente, come ogni volta che voleva comunicargli quanto fosse irragionevole.
“Vuoi che mi faccia fottere anch’io per ringraziarlo?”
“John, smettila! Ho commesso un terribile sbaglio e mi dispiace, ma oggi Alan non conta più nulla per me. E’ stato solo un errore e non si ripeterà, devi credermi.”
Sembrava sincera e forse era sul serio di ciò che diceva. O forse no, John non era in grado di dirlo, ma il punto non era crederle o meno: se non fosse stato per il gruppo sanguigno, non avrebbe mai saputo che quella bambina non era sua figlia, Mary avrebbe custodito gelosamente quella bugia per tutta la vita.
Avrebbe continuato a calpestare giorno dopo giorno la possibilità che Sherlock le aveva dato.
E se qualcuno o qualcosa avesse minacciato il suo segreto, John non aveva dubbi che Mary Morstan, o qualunque fosse il suo nome, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggerlo. Dopotutto aveva già ampiamente dimostrato cos’era in grado di fare per proteggersi.
E con quel tarlo no, John non poteva convivere. Non per una figlia non sua, non per una famiglia dove gli si chiedeva di essere solo una silenziosa comparsa, amabile ed indulgente verso ogni sbaglio di sua moglie.
“No, non posso perdonarti.”
Mary sgranò gli occhi, scioccata “Perché? Io sono innamorata di te! Ti giuro che quello che è successo con Alan non accadrà mai più. - abbassò gli occhi sulla neonata che ancora si agitava e si lamentava - La biologia conta fino a questo punto per te? Lei può essere tua figlia, così come io ho potuto essere Mary Watson anche se non lo ero. Hai perdonato me, perché adesso vuoi punire lei?”
“Ti ho perdonata solo perché del tuo passato non so un accidente. Altrimenti l’hai detto tu stessa che non l’avrei mai fatto.”
“E perché Sherlock ha tanto insistito.” Se, quella fatidica sera, il suo amico non lo avesse praticamente costretto ad ascoltare ciò che Mary aveva da dire, John avrebbe troncato immediatamente ogni rapporto con lei, di questo era convinto.
“Ora è la stessa cosa: siamo sposati e fino a prova contraria lei è legalmente tua figlia. Butta via quello che ti ho detto come hai fatto con quella pen drive.” Per Mary quella era la soluzione ideale: semplice, lineare, indolore per lei.
Ma non per John, né per Sherlock.
“No, non lo è! - sputò John digrignando i denti - Ci è stata data la possibilità di ricominciare da capo, a te è stata data la possibilità di essere Mary Watson, una persona nuova, che aveva detto addio alla sua vecchia vita fatta di menzogne.”
“L’ho fatto.”
“No, non è così, come fai a non rendertene conto? La vita che abbiamo iniziato insieme a casa dei genitori di Sherlock è basata su un’altra tua bugia, non è cambiato nulla rispetto a prima, tu non sei cambiata, pensi solo a quello che è meglio per te, senza curarti minimamente del sacrificio degli altri.”
“Oh certo, ti ho chiesto proprio un grande sacrificio, rendendoti padre. - sbottò Mary con voce ironica - Quando hai saputo che ero incinta eri felice, non provare a negarlo.”
“Proprio non capisci, vero? Non sto parlando di me, sto parlando di Sherlock?”
“Sherlock? Cosa c’entra Sherlock con la nostra famiglia?” chiese la donna perplessa, come se John si fosse messo d’improvviso a parlare del tempo o di politica e fu la cosa che fece perdere definitivamente le staffe a John.
“Lui ha dato la vita per ben due volte per questa famiglia e tu hai calpestato il suo sacrificio come se nulla fosse. Per te non conta niente quello che ha fatto per noi e questo… questo non posso perdonarlo, ecco perché non potrà mai funzionare. Non è nemmeno rancore, io semplicemente non posso dimenticarlo.” disse il dottore, stupendosi lui stesso della risolutezza con cui pronunciava l’addio a sua moglie.
“Non riesci a tenerlo fuori dalle nostre vite nemmeno per un istante, vero?” disse la donna con acredine.
“Dal momento che è esistito un noi solo per merito suo, direi proprio di no.
“Per un mio errore sarà lei che ci andrà di mezzo e questo non è giusto.” Mary si alzò in piedi, pronta a depositare forzatamente la bambina tra le sue braccia pur di fargli cambiare idea, ma l’espressione di profondo disgusto dipinta sul viso di John la schiacciò contro il divano.
“E’ meglio che vada, perché ogni minuto che passa ti riveli sempre di più per la persona che sei, ed è uno spettacolo al quale non voglio assistere.”
La sua uscita da quella casa, tuttavia, non scrisse la parola fine a quella brutta vicenda: John si rivolse ad un avvocato per ogni futuro contatto con sua moglie, ma questo non riuscì a spingerla al di fuori della sua vita velocemente quanto avrebbe voluto e chiudere quella parentesi si rivelò una delle cose più stancanti della sua vita.
Purtroppo lavoravano insieme e, non appena finito il periodo di maternità, Mary si ripresentò all’ambulatorio; non era disposta ad arrendersi e ad accettare il suo addio tanto facilmente: ogni attimo di pausa tra un paziente e l’altro diventava per lei l’occasione di approcciarlo, di supplicarlo, di tentare di farlo ragionare, parlandogli della bambina e delle notti insonni. A volte arrivava persino a portarla nello studio, costringendo John a sopportare le congratulazioni di infermiere e colleghi. John credeva che non fosse ricorsa ad alcun tipo di minaccia perché sapeva bene che in quel caso i fratelli Holmes si sarebbero mossi compatti e l’idea di fronteggiare il signor Governo Inglese non le sorrideva.
Tuttavia l’insistenza di Mary nel convincerlo a tornare da lei era uno stillicidio pressante e continuo che lo logorava. John non sentì vacillare la sua risolutezza nemmeno una volta, ma ogni mattina, l’idea di andare in ambulatorio e stare gomito a gomito con la sua ex moglie per più di otto ore diventava sempre più sgradevole. Diventava sempre più faticoso allungare la mano verso la sveglia, spegnerla ed uscire dal letto, finché un giorno John decise di non farlo più: non si presentò al lavoro ed inoltrò per raccomandata una lettera di dimissioni.
Qualche giorno dopo Mary gli mandò un messaggio dicendogli che si sarebbe incontrata con Alan e avrebbero parlato. Se fosse solo un ultimo tentativo di suscitare in lui una scintilla di gelosia o un addio, John non seppe dirlo, ma al messaggio non replicò; passava le sue giornate in casa, spulciando senza troppa convinzione tra le offerte di lavoro ed aiutando la signora Hudson in qualche piccola riparazione. Non seguiva quasi mai Sherlock sulla scena di un crimine, a meno che il detective non insistesse; si raccontava che gli serviva tempo per assorbire quanto gli era accaduto, ma dentro di sé sapeva che stava scivolando verso una pericolosa depressione: mangiava di meno, facendo concorrenza al suo coinquilino, non aveva voglia di cercare un nuovo lavoro, di iniziare un nuovo capitolo della sua vita, non aveva voglia di fare nulla. I giorni di apatia erano diventati una settimana, poi due settimane, le settimane si erano pericolosamente trasformate in mesi ed ormai le offerte di lavoro sul giornale non venivano più nemmeno lette.
Tuttavia l’idea di seguire un caso oltremanica lo aveva interessato, per questo aveva accettato di seguire Sherlock senza fare domande: non era mai stato a Roma e, se l’indagine gli avesse lasciato abbastanza tempo, c’erano alcuni monumenti che voleva assolutamente visitare.

“Signore? Uhm, signore, dovrebbe allacciare la cintura, stiamo per atterrare a Fiumicino.”
Sherlock, al suo fianco, era immerso nel suo Mind Palace con gli occhi chiusi e nemmeno si accorse della presenza dell’assistente di volo che invitata a prepararsi all’atterraggio.
“Faccio io.” rispose John, allungandosi sul sedile dell’altro per stringergli la cintura di sicurezza.
“E’ una precauzione quasi del tutto inutile - mormorò il detective senza aprire gli occhi - se ora ci schiantassimo al suolo, l’aereo si trasformerebbe in una palla di fuoco e, anzi, la cintura ci intrappolerebbe, impedendo ai pochi sopravvissuti all’impatto, accecati ed ustionati, di cercare una via di fuga.”
Una coppia di anziani seduti al di là del corridoio li guardò con preoccupazione e John si affrettò a scusarsi con un sorriso.
“Scherza.”
“A dire il vero - insisté Sherlock, serissimo - l’atterraggio è il momento più critico del volo e…”
“Vi assicuro che scherza. - ripeté John verso la coppia, ora apertamente terrorizzata, e poi gli allungò un discreto pungo nelle costole - Smettila.” sibilò prima di ritirarsi al suo posto, non prima di notare che Sherlock aveva socchiuso gli occhi e sollevato un angolo della bocca in un accenno di sorriso: lo stava facendo apposta, il disgraziato.
“Non è divertente.” cercò di redarguirlo John, ma era impossibile restare seri davanti alle espressioni di comico sgomento di quelle povere due persone.
“Invece lo è.” ribatté l’altro, ora sorridendo apertamente.
“Forse. Un po’.” concesse John, ma solo nella sua mente.

“Prendiamo un taxi?” chiese John una volta recuperati i bagagli.
“No, faremo più in fretta con il treno. - rispose Sherlock porgendogli un biglietto e muovendosi con sicurezza verso la piccola stazione - Sono sette fermate e circa mezz’ora di viaggio. Con il taxi ci vorrebbe il doppio del tempo e subiremmo una rapina legalizzata.”
“Sei già stato qui?” chiese John, accomodandosi meglio che poteva su un sedile troppo stretto e macchiato da sostanze indefinite: sembrava che Sherlock facesse quel viaggio tutti i giorni, tanto era disinvolto.
“No, a Roma mai. Passai qualche giorno a Firenze quando, sai, mentre ero via…”
Sherlock si riferiva sempre così parlando del periodo in cui si era finto morto.
“Ma immagino che tu non abbia avuto tempo per fare il turista.” osservò John, guardando fuori la campagna romana punteggiata di poderi: ora riusciva a parlarne con calma. Diamine, dopo tutto quello che era successo, ciò che aveva fatto Sherlock sembrava quasi un peccato veniale. In fondo, aveva agito così per una buona causa.
“No, infatti.” rispose l’altro, appoggiandosi con la testa al finestrino non proprio pulito.
“Magari… non so, se ci avanza tempo…” borbottò John stringendosi nelle spalle.
Sherlock non rispose, restando in contemplazione del paesaggio, ma dato che lo faceva spesso, John non ci badò molto.
“Gli Uffizi.” disse poi, quando erano quasi arrivati a destinazione.
“Come?”
“Non sono mai stato agli Uffizi, mi piacerebbe.” spiegò, recuperando la valigia.
“Oh, va bene.” rispose John, seguendolo lungo il corridoio del treno e poi sulla banchina della piccola stazione.
“John?”
“Sì.”
“Tu non hai idea di cosa siano gli Uffizi, vero?” domandò il consulente investigativo con una nota divertita nella voce.
“Assolutamente no.” rispose John, fiero, prima che una risatina lo scuotesse. L’aria era tiepida e piacevole, pur se pregna degli odori tipici di una metropoli, ed evocò in lui il ricordo di un’altra notte, altrettanto tiepida, e del sorriso complice che era corso tra lui e Sherlock alla conclusione del caso della Donna in rosa.
Sorrise anche ora, sentendo i muscoli delle guance pizzicare appena, come se si stessero risvegliando da un lungo intorpidimento.
“Da quanto tempo non sorridevo?”
Non riusciva a ricordarselo.
“Il nostro albergo non è lontano, possiamo andare a piedi.” annunciò Sherlock, incamminandosi sicuro lungo una strada affollata.
“Tu sei sicuro di non essere mai stato a Roma, sì?”
“Sì - sospirò l’altro - ho solo memorizzato il percorso.”
“Solo...” John scosse la testa divertito, poi una singolare costruzione attirò la sua attenzione e tirò Sherlock per una manica - Ehi, guarda, c’è una piramide!”
Il monumento triangolare bianchiccio svettava nel traffico cittadino, di fianco ad un arco sovrastato da due torri basse e tozze.
“Piramide Cestia, sì.” puntualizzò l’altro, come se fosse del tutto normale trovare un simile monumento in una città italiana.
“Ma qui non ci sono mai stati i faraoni.” osservò John, che non riusciva a staccare gli occhi dalla costruzione, così in contrasto con l’ambiente che la circondava.
“No, infatti. Fu costruita da un comune cittadino afflitto da manie di grandezza. Pensa a lui come a un Mycroft dell’epoca.”
“Sei tremendo. Ma si può visitare?”
“Sì, però all’interno c’è solo una camera sepolcrale vuota, nulla di che, ma ammetto che è… particolare. - concesse, fermandosi a guardare anch’egli - Vieni, dalla finestra della tua camera d’albergo si vede benissimo e, se vuoi, puoi restare a guardarla anche tutta la sera.”
“La mia?”
“Ho richiesto espressamente due camere da letto, così potrai dormire quanto vuoi.”
In passato era capitato che si recassero fuori Londra per un caso, dormendo in qualche albergo e, in effetti, dividere la stanza da letto con Sherlock era un incubo: borbottava tra sé e sé, camminava avanti e indietro, d’improvviso si sedeva al computer e iniziava a digitare come un forsennato. Sperava solo che il loro cliente non facesse storie al momento del rimborso delle spese.
Sistemarono i bagagli nelle rispettive stanze, si ritrovarono al ristornate per cena e, per la prima volta in molto tempo, John mangiò con appetito non solo il suo piatto, ma anche metà dei gnocchi alla romana che Sherlock aveva lasciato nel piatto dopo qualche forchettata.
Nonostante la stanchezza del viaggio ed il leggero cambio di fuso orario, la mattina seguente John si svegliò senza provare l’usuale apatia degli ultimi mesi; bussò alla porta della stanza di Sherlock e lo trovò seduto sul letto, circondato da cartine stradali, opuscoli e con il laptop aperto sulla pagina delle previsioni del tempo. Scomparso l’usuale completo elegante scuro, indossava dei semplici jeans color petrolio e una polo grigio chiaro (Sherlock possedeva un tale capo di abbigliamento?): sembrava quasi un’altra persona.
“Se indossi anche delle scarpe da ginnastica, inizierò a chiedermi chi sei e cosa ne hai fatto del vero Sherlock.”
“Sono comodi - si giustificò l’altro con un basso borbottio - perché, non mi stanno bene?”
“Scherzavo.” John lasciò cadere l’argomento con un gesto della mano: probabilmente Sherlock sarebbe stato bene con addosso anche il più ridicolo vestito da clown. “Quindi, cosa facciamo oggi?” A questo punto il dottore credeva che Sherlock gli avrebbe svelato qualcosa dell’indagine che stava seguendo, invece vide che si limitò ad indicargli i depliant che aveva davanti “C’è qualcosa in particolare che ti piacerebbe vedere?”
“Il Colosseo, ma sei sicuro che abbiamo tempo?”
Sherlock aggrottò la fronte “Certo che sì. Muoviamoci subito, forse a quest’ora del mattino non troveremo tanta gente.”
L’Anfiteatro si parò davanti a John non appena usciti dalla metropolitana e la sua imponenza lo lasciò momentaneamente senza parole: la struttura si stagliava imponente contro il cielo terso, tanto da far sembrare le persone che vi si affollavano attorno piccole ed insignificanti formiche.
Mentre aspettavano pazientemente in coda per acquistare il biglietto, Sherlock allontanò infastidito un ambulante che cercava di vender loro una guida illustrata al monumento.
“In realtà mi avrebbe fatto comodo - disse il dottore - conosco il Colosseo solo perché è molto famoso, ma mi piacerebbe capire cosa sto guardando.”
“Posso spiegartelo io. Mi sono documentato.” E così il moro si lanciò in una spiegazione dettagliata sulla storia dell’anfiteatro, sull’architettura, i metodi di costruzione e le sue funzioni, man mano che si addentravano nella struttura. Si interruppe nel bel mezzo della spiegazione sulle naumachie quando vide che John lo stava guardando con un sorrisetto appena trattenuto. “Ho detto qualcosa di sbagliato?”
Il dottore si appoggiò coi gomiti ad una balaustra “No, ma trovo curioso che nel tuo Mind Palace ci sia spazio per avvenimenti accaduti due millenni fa e non per la Terra che gira attorno al Sole.”
“Delle rocce che ruotano stupidamente nello spazio non ti insegnano nulla, mentre la storia può essere utile per comprendere la natura umana. Prendi ad esempio il pubblico che assisteva a questi spettacoli barbari…” si bloccò, guardando qualcosa a qualche arcata di distanza, assottigliando gli occhi.
Di riflesso, John si mise immediatamente in guardia “Cosa c’è?”
“L’uomo con la camicia a scacchi è un borseggiatore.”
Un ragazzo sulla ventina, con un cappello da baseball calato sugli occhi aveva appena infilato con una mossa fulminea la mano nella borsa di una turista, incautamente lasciata aperta, sfilando il portafoglio e poi lo aveva nascosto dietro la schiena. Se John non fosse stato più che attento, non avrebbe notato la manovra, tanto era stata fulminea.
“Cosa facciamo?” chiese John.
Sherlock valutò la situazione: normalmente non si sarebbe scomodato per un reato minore e banale come quello, ma vedeva che John fremeva per passare all’azione ed era un cambiamento così positivo rispetto all’apatia dei mesi appena trascorsi, che elaborò immediatamente un piano: dopotutto quel viaggio era per John e se John voleva catturare un ladro, l’avrebbero fatto. Avvicinare l’uomo era fuori discussione: poteva scattare in avanti e da quel lato c’erano parecchie vie di fuga, senza contare che avrebbe spintonato e strattonato molte persone, facendole ruzzolare lungo i gradini. Dove si trovavano loro, invece, c’era molta meno gente e nessuna via per scendere all’arcata inferiore. Sherlock scandagliò con lo sguardo le persone che passavano loro accanto, deducendole sommariamente, alla ricerca di un complice del borseggiatore che avrebbe potuto complicare loro la vita, ma non individuò nessuno.
“E’ solo, attiriamolo qua.” mormorò, poi tirò fuori il portafoglio di tasca, lasciando intravedere le banconote al suo interno e iniziò a parlare a voce molto alta “Accidenti, non trovo più il biglietto di ingresso.”
“Sei sicuro?” domandò John a voce altrettanto alta, reggendogli il gioco: aveva capito quali fossero le intenzioni di Sherlock e senza bisogno di alcuna spiegazione.
“Proprio come una volta.”
“Sì, sì, qui non c’è.”
Il loro dialogo concitato attirò l’attenzione del ladro, che si avvicinò facendo finta di guardarsi attorno.
“Allora ti sarà caduto da qualche parte, vado a vedere.” disse John, che scomparve dietro un arco, mentre Sherlock riponeva distrattamente il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Quando il borseggiatore lo affiancò per sfilarglielo, John sbucò da dietro la colonna, torcendogli la mano dietro la schiena.
“Fermo!”
Il borseggiatore si divincolò, sbraitandogli addosso parole che John non capiva, ma che non dovevano essere troppo urbane. Agitandosi, alcuni dei portafogli che aveva rubato nel corso della giornata gli caddero di dosso, finendo a terra e, nel frattempo, la voce che ci fosse un ladro si era sparsa in mezzo ai turisti. Due poliziotti in borghese, che pattugliavano il monumento, accorsero, prendendo in consegna il ladro dalle mani di Sherlock e John. Fortunatamente, uno dei due agenti masticava un po’ di inglese e riuscì a capire la spiegazione di Sherlock e quando portarono via il ladro ammanettato, la gente intorno a loro si mise ad applaudirli calorosamente; John rise imbarazzato e ringraziò con un breve inchino, mentre Sherlock osservava in disparte, con le mani intrecciate dietro la schiena.
“Ti sei goduto il tuo quarto d’ora di notorietà?”
“Assolutamente sì. Però Sherlock, per quanto sia certo che il nostro cliente apprezzerà il fatto che abbiamo fatto arrestare un borseggiatore, non credi che dovremmo iniziare l’indagine.”
Sherlock schiuse le labbra in un’espressione stupita, poi diede un’occhiata all’orologio “E’ quasi ora di pranzo, mangiamo qualcosa?”
“Ah, sì, volentieri.”
Uscirono dal Colosseo e Sherlock condusse John lungo una stradina pedonale che saliva verso un colle, gli chiese di aspettarlo seduto sul muretto e poi comprò due panini e due birre da un furgoncino.
John mangiò il suo con gusto, mentre Sherlock giocherellava con l’incarto del suo.
“So che non è proprio il tuo cibo preferito, ma fidati: è buono.”
“Non c’è nessun cliente.” disse Sherlock in fretta, guardando a terra.
“Cosa?”
“Non ho mai detto che questo viaggio era per un’indagine. Mi dispiace che tu abbia frainteso.” John riavvolse il nastro degli avvenimenti nella sua testa e si avvide che sì, in effetti Sherlock non aveva mai fatto cenno ad un cliente. Aveva semplicemente detto ‘partiamo per Roma’ e lui non aveva fatto domande.
“E allora perché siamo qui?”
“Non ti piace? Preferiresti essere da qualche altra parte?”
John lanciò un’occhiata alle sue spalle, alle rovine dei Fori Imperiali e dei Mercati Traianei, all’Altare della Patria che troneggiava sulla città poco distante, percepiva il caldo sole del Mediterraneo che gli scaldava le spalle e si sentiva bene. “No, la città mi piace moltissimo, ma mi è difficile pensare a te che ti prendi una semplice vacanza, senza secondi fini.”
Sherlock scalciò un sassolino con la punta della scarpa e poi iniziò a parlare con il tono lamentoso di un bambino “A casa mi stavo annoiando a morte, sembra che Lestrade mi abbia preso per il suo tuttofare e mi chiede aiuto per casi talmente semplici che mi irrito solo a pensarci, non c’era nulla, assolutamente nulla di interessante da fare e mi sembrava di impazzire. Così ho pensato - incassò la testa tra le spalle - di cambiare aria per un po’, tutto qua.”
Eppure John non ricordava che Sherlock fosse stato particolarmente bizzoso i giorni precedenti alla partenza, non aveva nemmeno sparato al muro o fatto la caccia al pacchetto di sigarette nascosto; invece le parole del suo amico si adattavano perfettamente a lui ed al suo stato d’animo: era lui quello che sembrava aver perso interesse per ogni cosa e quindi, anche se Sherlock non l’avrebbe mai ammesso, quel viaggio non era per lui, ma per John. Un po’ era stizzito dal suo comportamento, che avrebbe potuto essere meno equivoco, ma poi realizzò che Sherlock non avrebbe potuto dirgli “Ehi John, che ne dici se ce ne andiamo qualche giorno in vacanza?”, perché non era proprio da lui. E poi l’idea che Sherlock avesse pianificato fin nei dettagli quel viaggio, pagando di tasca sua e impiegando le sue energie su qualcosa che gli era alieno, solo per distrarlo dalla depressione di cui sembrava essere caduto vittima, lo fece quasi commuovere.
Non era stato così anche in occasione del suo disgraziatissimo matrimonio? O per quello scombinato addio al celibato? Non era forse così ogni volta che John era coinvolto? Sherlock dava sempre tutto se stesso e poi si nascondeva dietro un silenzio, alzando le spalle come per dire ‘non ho poi fatto nulla di straordinario’, quando in realtà lo era, quando in realtà Sherlock era l’unico ad aver fatto cose straordinarie per lui.
Bevve un lungo sorso di birra per sciogliere il nodo che gli stringeva la gola. “Scegli tu.” disse infine.
“Cosa?”
“Il prossimo posto da visitare.”
“Per me è indifferente.”
“Andiamo, se hai scelto Roma ci sarà qualcosa che vuoi vedere. I Fori, forse? - John diede un’occhiata alla coda chilometrica che si snodava sino all’ingresso dell’area archeologica e proprio non riusciva ad immaginarsi Sherlock che aspettava pazientemente il loro turno - Uh, direi di no.”
“Una cosa ci sarebbe. La Domus Aurea, è qui vicino.” Saltò giù dal muretto e John lo seguì.
“Speriamo non ci sia coda.”
“No, non ci sarà nessuno.” disse Sherlock, precedendolo su un sentiero in salita che si inoltrava in un parco.
“Perché, è un monumento così sconosciuto?”
“No, è chiuso al pubblico.” Sherlock si fermo al centro di uno spiazzo ghiaioso, indicando a John una lunga cancellata alla loro sinistra, oltre la quale si intravedevano delle rovine coperte di vegetazione.
“Se è chiuso come pensi di… no, oh no, Sherlock!” protestò il dottore, vedendo l’amico avvicinarsi al cancello e sbirciare tra le sbarre di ferro. Si guardò intorno allarmato, ma il parco ospitava solo un paio di barboni distesi su delle panchine, entrambi addormentati, e tre cagnolini randagi che non si curavano di loro. “Tu sei matto, ci saranno telecamere ovunque - sibilò John, cercando di trattenerlo per un gomito - ci farai arrestare.” [2]
“Guarda.” Sherlock gli indicò con un cenno della testa una telecamera poco distante: i fili elettrici erano staccati e penzolavano nel vuoto. “Insomma, non ti solletica l’idea di essere il solo a poter visitare questo luogo? Però potrebbe esserci un servizio di vigilanza e la Domus non è del tutto sicura, ci sono stati crolli in passato, quindi - appoggiò un piede sull’inferriata e si sollevò, lasciandosi cadere dall’altra parte - potrebbe essere pericoloso.” Sorrise e si allontanò di qualche passo, aspettando la mossa di John.
John afferrò le sbarre del cancello e scosse leggermente la testa: il brivido dell’avventura era molto più forte della paura di passare il resto di quella vacanza in una cella ed essere banditi a vita dall’Italia. “Odio i cancelli, li odio.” brontolò, scavalcandolo con molta meno grazia di Sherlock.
“Possibile che non riesci a darti più spinta?”
“Fa’ silenzio! Non tutti sono dotati delle tue gambe da trampoliere.”
“Le mie gambe sono perfettamente proporzionate alla mia altezza. Off…” un piede di John scivolò, il dottore perse l’appiglio, Sherlock se lo ritrovò addosso ed entrambi finirono dritti in un cespuglio alle loro spalle.
Il trambusto attirò l’attenzione dei cani, che presero ad abbaiare tutti insieme, svegliando i due senzatetto. Il detective si rialzò per primo, afferrò John sotto un’ascella e lo trascinò nell’ombra di un’arcata umida e buia, poi si sporse: non erano stati notati. Alle sue spalle, John ridacchiò adagio “Rettifico quanto detto in passato: questa è la cosa più ridicola che io abbia mai fatto in vita mia.” Aveva il fiato corto ed aveva picchiato un ginocchio contro il cancello, che ora gli faceva discretamente male, ma seguì Sherlock lungo i corridoi labirintici con entusiasmo.
Erano come due bambini che giocavano ai pirati ed esploravano la grotta del tesoro.
“Questo posto è enorme.” si stupì John, naso all’insù ad osservare gli antichi affreschi e gli ambienti maestosi, quasi perfettamente conservati, e il fatto di non dover sgomitare con un’orda di turisti gli dava modo di apprezzare ogni cosa: anche se il pensiero che stavano facendo una cosa illegale non lo aveva abbandonato, era felice che a Sherlock fosse venuta quell’idea folle, perché un’occasione del genere nella vita non gli sarebbe più ricapitata e forse era giunto il momento di smetterla di avere rimpianti ed afferrare al volo le cose belle quando capitavano.
Sherlock lo condusse di stanza in stanza come un moderno Virgilio, mostrandogli piccoli dettagli che a John sfuggivano: su alcune pareti c’erano le firme di uomini illustri che nel passato avevano visitato quel luogo.
“Vandali edonisti.” sentenziò Sherlock.
“Oh, vuoi dire che se tu fossi stato un gentiluomo vittoriano, non avresti aggiunto il tuo autografo su questo muro?”
“Certo che no! Non sono vanitoso.”
“Sicuro, caro il mio signor ‘modello di Dolce e Gabbana’.” lo pungolò John.
“Non sono così vanitoso.” borbottò Sherlock, allontanandosi lungo un corridoio, inseguito dalla risatina di John, che si stava divertendo un mondo sia ad esplorare la dimora che a stuzzicare il suo amico.
Una delle ultime stanze che visitarono era una grande sala a pianta ottagonale, chiusa da una cupola che terminava con un grande lucernario, da cui filtrava la luce del giorno. Sherlock si fermò al centro esatto della sala, mormorando qualcosa tra sé sulla perizia degli architetti che costruirono quell’ambiente, ma John non lo stava ascoltando, troppo intento ad osservare il suo amico investito dalla calda luce del sole, che illuminava la pelle pallida e gli occhi grigi in modo quasi innaturale e faceva risplendere i suoi capelli di riflessi ramati: con addosso abiti d’epoca sarebbe potuto sembrare un imperatore o un semidio. Non si rese conto di aver preso il cellulare ed di aver scattato una foto finché l’eco del ‘click’ non risuonò tra le antiche mura. Sherlock si girò verso di lui, le labbra leggermente schiuse in un’espressione sorpresa e John balbettò una mezza scusa “Ah, un ricordo di questa nostra piccola avventura… non ti dispiace, vero?”
“No. Però sarebbe meglio non metterla sul blog, sarebbe assai incriminante, non credi?”
“Già…” mormorò John, non sapendo cos’altro dire.
Delle voci in lontananza spezzarono l’atmosfera ed un brivido di panico corse tra i due amici.
“La vigilanza.” mimò Sherlock con le labbra, poi si allontanò in punta di piedi lungo un corridoio, seguito da John; riuscirono ad uscire dal cantiere senza essere notati e, una volta all’aperto, John si stupì vedendo che il cielo si era scurito: aveva perso la cognizione del tempo girovagando in quel labirinto con Sherlock.
Quella sera, prima che ognuno si ritirasse nella propria stanza John sentì il bisogno di dire qualcosa, perché era vero che loro due non erano bravi con le parole, ma in quel momento esse premevano per affiorare sulle sue labbra.
“Sherlock?”
“Sì?”
“Grazie davvero per oggi, è stata una bellissima giornata. Non ricordo da quanto tempo non mi divertivo così.”
Sherlock non disse niente, limitandosi ad annuire con la testa un po’ bassa ed un genuino sorriso che gli distendeva le labbra.
Poco più tardi, sdraiato sul letto, John si soffermò a guardare ancora la foto che aveva scattato d’impulso quel pomeriggio: un’altra cosa bella colta al volo.

Né John né Sherlock erano particolarmente propensi a visitare chiese, erano molto più interessati alle rovine della Roma Imperiale, quindi il giorno dopo decisero di andare a vedere il mausoleo di Cecilia Metella: poco conosciuto, ma molto spettacolare, a giudicare dalle foto sulla guida turistica.
Uno sciopero dei taxi (non programmato e che Sherlock trovò dannatamente irritante) li costrinse ad usufruire dei mezzi pubblici; cercarono di mettersi in fila per aspettare l’autobus, il problema era che non c’era alcuna fila, solo un gruppo ben nutrito di persone raggruppate attorno ad una paletta coperta di graffiti, che impedì a John di leggere gli orari.
“Temo sarebbe del tutto inutile. - osservò Sherlock contemplando il micidiale traffico della città - L’autobus arriverà quando arriverà.”
Infatti l’attesa si protrasse per quasi venti minuti, ma se a Londra la gente avrebbe già minacciato di rivolgersi al Ministero dei Trasporti per lamentarsi del disguido, i romani non sembravano prendersela più di tanto.
“Sì, da queste parti c’è una certa rassegnazione all’inefficienza.” disse Sherlock, interpretando lo sguardo del suo amico. L’autobus sbucò da dietro una curva ed era già abbastanza pieno: un rapido calcolo della gente in attesa sul marciapiede fece esclamare a John “Non ci staranno mai tutte queste persone! Non è il caso di aspettare il prossimo?”
Un italiano accanto a loro, che aveva capito cosa aveva detto, gli sorrise “Ma sì, sì che ci stiamo - disse in un inglese molto stentato - e poi - aggiunse allungandogli una pacca sulla spalla - vi conviene salire: non si sa quando passerà il prossimo autobus. O se passerà.”
Quando il mezzo aprì le porte, si scatenò il caos: la gente cercava a tutti i costi di salire ancor prima che i passeggeri fossero scesi e la legge sull’impenetrabilità dei corpi sembrava messa a forte rischio. I due inglesi restarono un attimo basiti di fronte a quella babilonia, poi Sherlock si riscosse “Andiamo, John - lo incoraggiò appoggiandogli la mano sulla schiena e spingendolo verso l’autobus - dopotutto quando sei a Roma, devi fare come i romani.”
Incredibilmente, tutte le persone in attesa alla fermata riuscirono a salire, ma questo significava viaggiare pigiati come sardine nella propria latta. Sherlock e John si ritrovarono schiacciati contro il fondo del mezzo da due robuste casalinghe che li circondarono con quattro enormi buste della spesa: sembrava avessero fatto rifornimento di viveri in vista di una carestia. Ovviamente erano del tutto incuranti di aver appoggiato parte dei sacchetti sui loro piedi, troppo intente a chiacchierare tra loro ad alta voce e a gesticolare. Sì, cercavano si agitare le braccia nello spazio affollato ed un paio di volte la mano di una di loro saettò troppo vicino ai capelli di Sherlock, che si ritrasse ancor più verso il finestrino. Alla fermata successiva salì ancor più gente, tanto che l’interno del mezzo era diventato una compatta massa umana e persino respirare era diventato difficile (vista la varietà di odori non troppo gradevoli che aleggiava nell’aria, non era poi un male) e John si rallegrò di non soffrire di claustrofobia. Quando finalmente venne il loro turno di scendere, si precipitarono giù dall’autobus con aria sconvolta.
John si piegò sulle ginocchia e iniziò a ridere “Che cosa allucinante! Credevo di morire soffocato.”
“A chi lo dici.” disse Sherlock, pulendosi con una smorfia le scarpe e l’orlo dei pantaloni.
“Secondo te è sempre così sui mezzi pubblici da queste parti?”
“Visto come la gente la prende con filosofia, è assai probabile.”
“La città è bellissima da visitare - disse John, guardandosi attorno - ma non credo che potrei mai abituarmi a vivere qui.”
“Nemmeno io.”
Mentre si incamminavano verso la biglietteria del complesso archeologico, John rifletté che quel viaggio stava avendo un altro effetto positivo su di lui: per quanto si stesse divertendo in vacanza, per la prima volta da tempo provò una punta di nostalgia per casa, ossia per il loro appartamento a Baker Street. Aveva pensato di costruirsi una casa assieme a Mary con il matrimonio, ma quel sogno era stato spazzato via come un bungalow in riva al mare sradicato da un ciclone e per lungo tempo non aveva più voluto considerare alcun posto come una casa, ma semplicemente come un posto qualsiasi dove dormire e stare al caldo quando fuori c’era brutto tempo. Ora invece sentiva che sarebbe stato contento quando l’aereo fosse atterrato ad Heathrow per tornare, appunto, a casa.
“John? - lo chiamò Sherlock, porgendogli il biglietto - Vieni. Con questo possiamo visitare anche le catacombe.”
L’ex soldato si scrollò di dosso quei pensieri: adesso era in vacanza e si sarebbe goduto ogni attimo.
Finita la visita (di nuovo Sherlock non aveva resistito e si era introdotto brevemente in alcune zone vietate al pubblico) John si incamminò mal volentieri verso la fermata dell’autobus.
“Se penso che devo salire di nuovo su un mezzo stracolmo, mi sento male.” Oltretutto si avvicinava l’orario di chiusura degli uffici e ciò voleva dire che, per quanto sembrasse impossibile, ci sarebbe stata ancor più gente che durante la mattina.
Sherlock scandagliò con lo sguardo i dintorni, chiese a John di aspettarlo dove si trovava e poi si diresse con passo deciso verso un negozio. Una decina di minuti più tardi tornò da lui a bordo di un grosso scooter noleggiato e gli lanciò un casco che John afferrò al volo.
“Problema risolto.”
John si rigirò il casco tra le mani senza indossarlo “Non mi sembra una buona idea.”
“Perché mai? Io sono un ottimo guidatore.” si indignò l’altro.
“A Londra, forse - ammise John - ma noi circoliamo al contrario e-”
“Semmai è il resto d’Europa che guida al contrario di noi. La modifica alla circolazione fu introdotta da Napoleone in quanto mancino, pertanto-”
“Non è questo il punto.” lo interruppe John.
Sherlock incrociò le braccia al petto “Scegli, l’alternativa alla moto è quello.” ed indicò la fermata dell’autobus, dove si era già assiepata una gran folla vociante.
“Okay.” sospirò il dottore indossando il casco e montando in sella dietro Sherlock.
Inizialmente si aggrappò alle maniglie dello scooter, ma non appena Sherlock si immise in una strada molto trafficata ed evitò d’un soffio un furgone sbucato dal nulla in contromano, si aggrappò a lui d’istinto. Raramente aveva visto una circolazione tanto disordinata, forse nemmeno a Kabul o Il Cairo: le auto cambiavano continuamente corsia senza preavviso alla ricerca di quella più veloce, i motorini viaggiavano a sciami, del tutto incuranti di semafori e sensi di marcia; la regola generale che governava il traffico sembrava essere ‘guarda, e quando non c’è nessuno, passa’. Sherlock, a onor del vero, se la cavava piuttosto bene, attento ad ogni pericolo, ma John percepiva il suo nervosismo dalla rigidità dei muscoli della schiena alla quale si era abbarbicato. Lui non era di aiuto, perché gli strizzava vigorosamente le costole ogni volta che un’automobile si accostava troppo alla loro moto, quasi come se il concetto di ‘distanza di sicurezza’ fosse sconosciuto da quelle parti.
Ad un semaforo Sherlock emise un flebile lamento e John si accorse che lo stava stringendo con la forza pari a quella di una anaconda.
“Scusa - ridacchiò nervosamente - nemmeno in Afghanistan ero così in tensione.”
“E’ più impegnativo di quanto pensassi.” rispose Sherlock, sollevando la visiera: era leggermente sudato, ma i suoi occhi scintillavano, era evidente che si stesse divertendo molto.
“Mi rimangio tutto quello che ho detto prima: te la stai cavando alla grande. - gli diede un colpetto sulle spalle - Coraggio, conducici fuori da questa bolgia.”
“Agli ordini!”
Per fortuna dopo una ventina di minuti, deviò su una strada meno trafficata, che costeggiava una serie di villette eleganti e poi si inerpicava lungo una collina boscosa; Sherlock la percorse sino in cima, piegando dolcemente la moto per seguirne le curve. In cima alla salita il bosco si interrompeva bruscamente, aprendosi e lasciando godere di una bellissima vista su quasi tutta la città all’imbrunire. Sherlock si fermò in una piazzola di sosta, permettendo a John si ammirare Roma dall’alto, con i suoi tetti in coppi rossastri, le terrazze fiorite, le rondini che si attardavano solcando il cielo con strida acute, i profili dei tanti campanili e le luci dei lampioni che si riflettevano tremule del Tevere.
“Bello, non è vero?” [4]
“Wow.” disse piano John e, inconsciamente, si strinse un po’ di più a Sherlock.

John voleva assolutamente spedire delle cartoline a Greg, Molly e Mike, nonché prendere un regalo per la loro padrona di casa e Sherlock, seppur rassegnato, lo seguì nei numerosi negozietti di souvenir che punteggiavano le vie del centro, ma cassò senza appello ogni sua idea nel momento stesso in cui John posava gli occhi su un oggetto pacchiano “Sul serio, John? Una riproduzione in gesso, tra l’altro per nulla accurata, del Colosseo? Credevo volessi bene alla signora Hudson.” “No, quel piatto con la Cupola di San Pietro pare dipinto da un malato di Parkinson.” “Non avvicinarti nemmeno a quel busto di Cesare.” così, passato mezzogiorno, John non aveva ancora trovato nulla di adatto (e Sherlock non aveva tutti i torti sui souvenir che avevano visto), finché non passarono vicino ad una piccola libreria, seminascosta all’interno di un porticato.
Si scambiarono uno sguardo di intesa ed entrarono a curiosare. Sherlock puntò un libro di cucina, ma John gli fece notare che la signora Hudson non parlava italiano.
“Ma ci sono le figure.”
“No. E poi tu vuoi regalarglielo solo perché ti cucini qualcuna delle torte che sono su questo libro.”
“La signora Hudson cucina bene.” borbottò il detective, vistosi scoperto.
“Non le faremo un regalo che poi la obblighi a lavorare per noi. - disse John, categorico - Ma l’idea del libro illustrato è buona.”
Sfogliò alcuni libri illustrati, fino a trovare una foto di Roma al crepuscolo, molto simile al panorama che avevano ammirato la sera prima.”
“Questo!” esclamarono entrambi all’unisono, posando le mani sulla foto. Sherlock scostò per primo la sua, mentre John sorrise, quasi imbarazzato, e ridacchiò: stando con Mary, lontano da Baker Street, aveva scordato che lui e Sherlock avevano questi momenti di intesa assoluta.
John prese il libro e lo portò alla cassa.
“Sei sicuro? - chiese Sherlock - Ce ne sono molti altri, non vuoi guardare ancora un po’?”
“No, questo è perfetto, ne sono sicuro.”
Tornarono in albergo; dopopranzo John si sdraiò sul letto con l’intenzione di chiudere gli occhi solo per qualche minuto, ma quando li riaprì, si accorse che il cielo stava già imbrunendo: amava girare senza meta per quella bellissima città, ma non si era reso conto di quanto fosse stancante. Si lisciò alla meno peggio i capelli e bussò alla porta della camera di Sherlock.
“Avanti. Hai riposato bene?” chiese il suo amico con un sorriso, sollevando la testa dal laptop che teneva in bilico sulle ginocchia.
“Scusami, mi sono addormentato come un sasso.” John era quasi mortificato: sicuramente Sherlock aveva programmato qualcosa per quel pomeriggio, ma il consulente investigativo scosse la testa, chiudendo il computer “Non esiste alcuna tabella di marcia da rispettare: è una vacanza e possiamo fare tutto quello che vogliamo.”
“Ma tu ti sarai annoiato a morte oggi pomeriggio.”
“No, ho fatto qualche ricerca e il tempo è volato.”
John sapeva bene che mentiva, che quel pomeriggio doveva essere stato interminabile per lui, ma Sherlock non gli diede tempo di dire alcunché “Dato che hai detto di voler mangiare la miglior pizza della città, mi sono documentato e penso di aver individuato il ristorante giusto. Vai a prepararti.”
“Va bene, il tempo di una doccia e sono pronto.”
Grazie alla moto si mossero velocemente lungo le vie strette e tortuose del centro; Sherlock condusse il suo amico in un vicolo stretto di Rione Sant’Angelo, illuminato dalla luce giallastra di alcuni lampioncini di foggia antica. Il locale scelto era piccolissimo, dall’aria anonima e, per accogliere più clienti, aveva sistemato sedie e tavolini lungo il marciapiede ed un sottile steccato di bambù offriva un minimo di privacy dalle persone che camminavano lungo la strada.
“Ho dormito tutto il pomeriggio e stasera non ho particolarmente fame. - si lamentò John - Ti va di dividere mezza pizza con me?” Sapeva che non era il piatto preferito del suo amico, ma pensava che quello fosse un buon compromesso per convincerlo a mangiare qualcosa.
Sherlock annuì e si spiegò al cameriere, poi restarono in silenzio in attesa della loro ordinazione; l’aria era tiepida e gradevole e l’atmosfera tra loro piacevolmente rilassata e non sentivano il bisogno di interromperla con le parole.
Finalmente il cameriere portò loro una pizza, due piatti, nonché una bella candela rossa che pose al centro del tavolino: entrambi la guardarono basiti, poi John appoggiò la fronte ad una mano e mormorò un “non ci posso credere” prima di scoppiare a ridere. Aveva sempre pensato che tutte le chiacchiere sul loro conto fossero dovute solo al deleterio gossip dei giornali, ma se succedeva anche al di fuori dei confini del Regno Unito, dove nessuno li conosceva, allora dovevano dare davvero l’impressione di essere una coppia.
“Non è che sono parenti di Angelo?” domandò John tra le risate.
Sherlock si strinse nelle spalle, poi afferrò il portacandela “La faccio portare via subito.”
D’istinto John posò la mano sulla sua per fermarlo “No, lascia stare, non c’è problema.”
“Lo so che queste insinuazioni ti danno fastidio.”
“Sul serio, Sherlock, va tutto bene.” Ed era sincero: forse loro due non erano una coppia nel senso più tradizionale del termine, ma con Sherlock, e specialmente durante quella vacanza, stava bene, come non era mai stato con nessuno, nemmeno con Mary prima di scoprire chi fosse veramente.
Sherlock fece un piccolo cenno di assenso del capo e poi riabbassò gli occhi sul portacandela: la mano di John copriva ancora la sua.
“Hai-hai le dita ghiacciate.” balbettò John, lasciandolo andare ed impugnando le posate.
“Sono sempre così.”
“E’ perché mangi poco, quindi - gli puntò contro il coltello - guai a te se avanzi qualcosa nel piatto.”
Sherlock si finse estremamente esasperato, ma obbedì.
“E domani cosa si fa?”
“Anche i dintorni di Roma sono molto belli, pur se completamente diversi dalla città: ho prenotato un agriturismo nella zona dei Castelli per un paio di giorni, sempre che tu voglia.”
“Intendi uno di quei posti da cartolina con le viti, gli alberi da frutto ed i cavalli? Certo che ne ho voglia.”
“Molto bene, allora partiamo domani pomeriggio. Farò mandare lì i bagagli, mentre noi due potremmo raggiungere il posto in moto.”
“Ci hai preso gusto a guidarla, dì la verità.” domandò John con un gran sorriso.
“E’ comoda per muoversi in mezzo al traffico, tutto qua.” rispose Sherlock in tono neutro.
“Ah, ma perché fai così? - sospirò il dottore - Non c’è nulla di male se qualcosa ti piace o se ti stai divertendo. Ti assicuro che non è un delitto.”
“Mh. E’ meglio se torniamo in albergo ora: dobbiamo fare i bagagli.”

La decisione di raggiungere l’agriturismo in moto si rivelò perfetta: Sherlock faceva lo slalom tra le auto incolonnate, guadagnando metri preziosi; Roma era molto più estesa di quanto John non avesse immaginato: improvvisamente si ritrovavano in mezzo alla campagna e subito dopo ci si ritrovava di nuovo immersi in un quartiere della città. Finalmente le costruzioni iniziarono a diradarsi, lasciando spazio ad una campagna collinare verdissima, punteggiata di villette e casolari.
L’agriturismo scelto da Sherlock era ancor meglio di quanto John l’avesse immaginato: appena fuori dal paese di Rocca di Papa, circondato da una siepe alta e fitta che lo nascondeva dalla strada, aveva vigneti ed ulivi che si estendevano ai lati della costruzione principale, mentre il giardino sul retro degradava bruscamente verso il lago d’ Albano.
Lo specchio d’acqua di origine vulcanica colpì moltissimo John: era un cerchio quasi perfetto circondato da pareti scoscese e ricoperte di vegetazione e, se non fosse stato per i paesi che sorgevano sulla sommità del cono vulcanico estinto, si sarebbe potuto trovare nel mezzo della jungla asiatica.
L’atrio dell’agriturismo era deserto, ma al rumore delle ruote del trolley di Sherlock sul pavimento in cotto, una ragazza uscì dalla cucina, sfilandosi cuffia e grembiule.
“Arrivo subito - li rassicurò, poi si affacciò sulla tromba delle scale e lanciò un grido - Tesoro, ci sono i clienti.” poi corse al banco della reception per riceverli.
“Dovete perdonarci - si giustificò, scandendo adagio le parole - ma siamo in bassa stagione e ci siamo solo io e il mio ragazzo.”
“Nessun problema - disse Sherlock mostrandole i documenti - e non stia così in ansia per il suo inglese, è molto meglio di ciò che pensa.”
“Grazie.”
Il ragazzo prese i bagagli e li precedette lungo un corridoio fino alle loro camere: due stanze singole che si affacciavano sul giardino, dove la ragazza di prima servì loro un tè di benvenuto accompagnato da una selezione di scones, tartine ed assaggi di torta che nulla aveva da invidiare alle migliori sale da tè di Londra.
“Sento già di amare questo posto!” esclamò John con la bocca piena.
A cena scoprirono che l’agriturismo, oltre a loro, ospitava solo tre anziane sorelle in vacanza e due studentesse di botanica che stavano svolgendo una ricerca sulla flora locale.
John ascoltava con attenzione l’itinerario che Sherlock proponeva per il giorno seguente e intanto gustava dell’ottimo pane dal sapore quasi affumicato. A Londra, per comodità, compravano sempre del pane in cassetta industriale, ma non c’era paragone con quello che stava mangiando in quel momento, non ne aveva mai assaggiato nulla di così buono.
“Finirai per rovinarti l’appetito.” osservò Sherlock.
John allontanò da sé la cesta a malincuore “Hai ragione, ma è squisito.”
Il mattino dopo si svegliarono entrambi di buon’ora e già prima delle otto Sherlock stava avviando il motore della moto, quando la padrona dell’agriturismo li raggiunse.
“Aspettate! Dato che non sarete qui a pranzo, vi ho preparato un piccolo spuntino.” e porse a John una busta telata molto pesante.
“Grazie mille, ma qui c’è cibo per sfamare un esercito.”
“Non sapevo cosa vi piacesse, così vi ho preparato un po’ di tutto, ma vi consiglio di assaggiare il danubio, credo sia quello che mi è venuto meglio.”
La giornata trascorse in un lampo, tra visite a palazzi storici, rocche e paesini che conservavano ancora la loro impronta medioevale a dispetto del trascorrere dei secoli, ed i due tornarono alla pensione che era già pomeriggio inoltrato e si sedettero nuovamente in giardino a sorseggiare il tè. Il sole stava calando davanti a loro ed il lago da azzurro iniziò ad assumere riflessi caldi, finché non divenne come un immenso disco d’oro fuso appena increspato da una leggera brezza primaverile.
“Che meraviglia.” mormorò John, rapito.
Sherlock, seduto accanto a lui sulla panchina, annuì da dietro la sua tazza da tè.
“Ogni tanto mi immagino a vivere in un luogo del genere.”
“Davvero?”
“Sì, quando penso al mio ritiro. - sorrise davanti alla faccia stupita dell’amico - E’ impensabile che io possa condurre la vita di adesso tra venti o trent’anni, così se devo pensare ad un posto dove andare a vivere, è questo il paesaggio che mi viene in mente. Sempre che io ci arrivi a quell’età.”
“Certo che ci arriverai.” disse John, raddrizzando la schiena: non gli piaceva per nulla quando Sherlock parlava della morte o della sua vita come se fosse qualcosa che poteva essere sacrificata con leggerezza. “Non può accaderti nulla con un Capitano dei Fucilieri che ti guarda le spalle.”
Sherlock aprì bocca, sembrava sul punto di dire qualcosa ed i suoi occhi si fecero tristi, quasi rassegnati, poi la richiuse e finì di sorseggiare il tè. Anche John restò in silenzio, ben sapendo che spingerlo a parlare quando non voleva, era il metodo più rapido per ottenere l’effetto contrario.
Poi d’improvviso, la testa di Sherlock crollò sulla sua spalla e John trattenne il fiato un attimo prima di accorgersi che si era addormentato: la testa riccioluta era un dolce peso sulla sua spalla ed il respiro di Sherlock gli solleticava leggermente il collo.
Lui se ne era stato comodamente seduto sul sellino posteriore, ma per Sherlock doveva essere stato faticoso condurre quella pesante moto sulle strade strette e piene di curve, non era stupito che fosse crollato all’improvviso. Aveva fatto moltissimo per lui in quella vacanza: aveva organizzato un viaggio meraviglioso, gli aveva fatto da guida e lo aveva condotto in alcune avventure un po’ folli, aveva sempre prenotato due camere (nonostante la cosa dovesse essergli costata un patrimonio) per dargli lo spazio di cui aveva bisogno, ma allo stesso tempo gli era stato vicino, non si era mai lamentato una volta di nulla, anche se forse alcune cose lo avevano annoiato.
“Grazie.” mormorò pianissimo per non rischiare di svegliarlo. Osservò la campagna nei dintorni e provò ad immaginarsi vecchio e con l’artrite a prendersi cura di un giardino così bello: non gli risultava difficile vedersi con i guanti, le cesoie ed un largo cappello di paglia calato in testa e, quando si girava, alle sue spalle compariva un tipico cottage inglese e Sherlock che lo osservava dalla finestra della cucina e sollevava la mano in un cenno di saluto.
Sherlock poteva anche pensare che John non sarebbe rimasto, che una nuova Mary sarebbe apparsa nella sua vita (non gli era sfuggito il motivo dello sguardo triste che il detective gli aveva indirizzato poco prima), ma il buon dottore non la pensava così e quel quadretto dai tenui colori acquerellati che si era dipinto nella mente era perfetto, era giusto per entrambi.
Per loro.
A dire il vero per John avrebbe potuto essere la campagna inglese o un ranch nella pampa argentina od anche un tranquillo paesino italiano, ma in ogni diapositiva c’era Sherlock con lui e quindi ogni luogo sapeva di casa. Era dove John voleva essere, così come Sherlock era sempre stato presente per lui.
Il consulente investigativo si agitò ed un lungo arto scivolò attorno alla vita di John, stringendo appena, mentre un vago borbottio abbandonò le sue labbra.
“Cosa?” chiese piano l’ex soldato, sempre attento a non svegliarlo.
“John.” ripeté Sherlock, questa volta molto più chiaramente, mentre il braccio stringeva un po’ più forte ed inconsciamente sprofondò ancor di più la testa contro la sua spalla, inalando il suo odore e le labbra si incurvarono appena in un sorriso.
John non riuscì a fermare la propria mano che gli carezzò uno zigomo sporgente, né la voce.
“Sono qui, Sherlock.”
“Mmh, il mio John.” mormorò adagio il detective ancora immerso nel dormiveglia, strofinando contro il suo collo il naso gelido e le labbra caldissime. “John, mio…” ripeté direttamente sulla sua pelle e John fu attraversato da un brivido, mentre la sua mano che era scesa a cingergli la nuca affondò brusca nei suoi capelli, però in quell’istante Sherlock si svegliò e sollevò la testa di scatto. Per un istante i loro visi restarono vicini, così vicini che a John sarebbe bastato un nulla per azzerare la distanza, e stava anche iniziando a farlo, ma gli occhi di Sherlock si spalancarono inorriditi.
“Io, ah, scusa, scusami John.” balbettò precipitosamente, alzandosi.
“Sherlock…” John sollevò una mano verso di lui per bloccarne la ritirata, ma l’altro scosse la testa, continuando a tartagliare nervosamente “Mi dispiace, non sarebbe mai dovuto succedere. Perdonami John, io…” indietreggiò rapido verso la sua stanza.
“Aspetta Sherlock, va tutto bene.” Non voleva dirgli ‘non è successo nulla’, perché non era così, perché per un breve istante si era aperta una breccia in Sherlock ed i suoi veri sentimenti erano traboccati e questo non era nulla, era importante per John.
Non era rimasto scioccato dalla rivelazione dei sentimenti di Sherlock per lui: in un angolo del suo cuore l’aveva sempre saputo, aveva sempre saputo che ogni gesto, ogni parola, ogni sacrificio che Sherlock aveva compiuto in quell’ultimo anno non poteva essere dettato se non dall’amore.
“N-no.” ripeté Sherlock, in pieno panico.
“Invece sì, è tutto a posto e non hai nulla di cui scusarti.” insisté John, ma Sherlock sparì dietro la porta finestra della sua camera e tirò le tende, lasciandolo solo. John provò a bussare più volte, cercando di convincerlo ad uscire, ma non ottenne risposta, quindi si rassegnò a presentarsi a cena da solo.
Gli altri ospiti della struttura si radunarono in un salottino con la televisione subito dopo aver finito di mangiare, mentre John rimase seduto al suo tavolo, incurante del ragazzo che sparecchiava e cambiava le tovaglie; poco dopo la sua fidanzata entrò in sala e si sedette davanti a John.
“Non si sente bene il suo amico?” chiese.
“No, forse è un po’ stanco.” mentì John, ma era una scusa patetica.
“Avete litigato?”
“Non proprio. Io… non lo so.” concluse con aria abbattuta.
“Non preoccuparti, farete pace presto. - affermò la ragazza cercando i suoi occhi - Guarda che non lo dico tanto per dire, ne sono convinta.”
“Perché?”
L’italiana strinse le labbra, alla ricerca delle parole più giuste e della loro traduzione “Perché è quello che penso quando vi guardo: che non siete due persone che possono restare arrabbiati troppo a lungo l’uno con l’altro.”
“Sì, questo è vero.”
“Sì, siete più da incomprensioni, che da litigio vero e proprio.”
“Incomprensioni…” mormorò John e rimase con la bocca leggermente aperta: forse si trattava solo di questo? Forse Sherlock era convinto che lui sarebbe stato in imbarazzo o avrebbe provato repulsione per quel breve contatto fisico; dopotutto lui era quello che si premurava di ribadire ogni volta che poteva, di non essere gay, di non essere interessato agli uomini. Le sue dita si posarono sul collo, lì dove Sherlock aveva strofinato il viso, ma non si sentì affatto disgustato, non si sarebbe mai sentito disgustato dall’uomo con cui trovava così facile, così giusto immaginarsi di trascorrere il resto della sua vita.
“Incomprensioni.” ripeté e la ragazza annuì con un gran sorriso “Molto più semplice di un litigio.” “Già. - ripeté John sbocconcellando del pane - Sai, questo pane è proprio buono, dove lo compri?”
“Lo faccio io.”
“Non mi dire!”
“Sì: quando posso preferisco scegliere gli ingredienti e cucinare, evitando il più possibile i cibi o i sughi già pronti. I genitori del mio fidanzato hanno un grande orto e ci forniscono la verdura, ed anche conigli e galline, a volte. Io invece preparo la pasta, il pane ed i dolci.”
“Accidenti, sei bravissima.”
“Ti ringrazio: amo molto preparare il pane, le focacce e qualsiasi genere di lievitato. Bisogna mettere la massima attenzione nella loro preparazione e ancora non basta: serve un atto di fede.”
“Un atto di fede?” ripeté John, che non era sicuro di aver capito bene.
“Sì. Tu scegli la farina ed il lievito, ti accerti che l’ambiente di lavoro non sia troppo umido, né troppo freddo, ti accerti che anche l’acqua sia alla giusta temperatura e inizi ad impastare, decidi quando aggiungere il sale, poi copri l’impasto con un panno e attendi la lievitazione: lì comincia il tuo atto di fede, devi credere che andrà bene, che alla fine avrà proprio la consistenza e l’alveolatura che volevi. E poi devi saper aspettare il momento giusto per infornare: né troppo presto, altrimenti il composto sarà umido ed appiccicoso, né troppo tardi oppure si devitalizzerà e avrà un sapore orrendo. Panificare non è una semplice questione di impasto, è anche fede e amore, tanto amore.”
“Sai, si sente.” disse John, addentando un altro pezzo di pane.
“Ne sono felice.”
“Anche la torta che ci hai preparato oggi per pranzo era buonissima, ma il pane… il tuo pane è davvero qualcosa di speciale.”
La ragazza si sporse verso di lui appoggiando i gomiti sul tavolo “Ti confesserò un segreto: i dolci sono delle puttane.”
John spalancò gli occhi, sorpreso da quella affermazione colorita e la ragazza rise forte “E’ così: i dolci sono spettacolari, coreografici, bellissimi da vedere, ma con loro l’atto di fede è inutile, fanno tutto da soli e possono decidere di venire bene o male a sentimento, e in modo del tutto indipendente dalla tua volontà. I lievitati, invece, sono ogni volta un’emozione e un’avventura e ti danno tutta un’altra soddisfazione. Ah, ma probabilmente ti sto annoiando con queste chiacchiere.”
“No, affatto. Sei stata illuminante e ti ringrazio.”
“Di... nulla.” rispose lei inclinando leggermente la testa da un lato: non sapeva di cosa John stesse parlando, ma lui sì: nella sua vita Mary era stata come un dolce, bella ed appariscente, ma disgustosa all’assaggio; il suo rapporto con Sherlock, invece, assomigliava molto ad un lievitato: era un’avventura, ogni giorno richiedeva un atto di fede ed era maturato e cresciuto nel corso degli anni.
E quello era il momento.
Invece di bussare alla sua porta dalla parte del corridoio, John uscì in giardino e si fermò davanti alla porta finestra della stanza di Sherlock, pensando a come farlo uscire. Intravide un luccichio con la coda dell’occhio e voltò la testa, ma non c’era più nulla.
“Forse l’ho solo immaginato.” pensò John, ma poi il brillio si accese di nuovo, danzò nell’aria alcuni istanti e poi scomparve di nuovo. Incuriosito, avanzò qualche passo nel buio e due puntini di luce lo superarono per sparire in un cespuglio di Belle di Notte.
Gli servì qualche istante per capire di cosa si trattasse, perché non ne vedeva da quando era bambino.
Buffò energicamente al vetro della camera di Sherlock “Sherlock! Sherlock, vieni, presto! Ci sono le lucciole.” ed un attimo dopo la testa riccioluta fece capolino da dietro le tende.
“Andiamo, esci! Non puoi perdertele.”
Sherlock aprì la porta e seguì John in giardino, in pigiama e a piedi scalzi; il dottore girò un paio di volte su se stesso ed una lucciola gli passò proprio davanti, illuminandosi per alcuni secondi.
“Hai visto?”
“Sì.”
Oltre la staccionata di legno che chiudeva il giardino altre luci brillarono attorno ai fiori notturni e John catturò senza esitazione la mano di Sherlock nella sua, tirandolo verso gli insetti che si accendevano come minuscole stelle, lanciando luminosi messaggi alle compagne. Per alcuni istanti Sherlock le guardò affascinato ed allungò la mano libera verso una foglia: una lucciola tastò cautamente il suo indice con le zampe e si arrampicò lungo il dito, brillando ad intermittenza e poi volò via nella notte.
“L’ultima volta che le ho viste ero in vacanza con i miei genitori in un campeggio in Francia, avrò avuto dieci anni.”
“Sono insetti molto delicati e soffrono più di altri l’inquinamento, per questo stanno scomparendo.”
“Sono felice di averle riviste questa sera.” disse John, stringendo leggermente la mano di Sherlock, il quale solo in quel momento sembrò rendersi conto delle loro dita intrecciate e cercò di scioglierle, ma l’altro glielo impedì.
“John…” mormorò l’uomo più giovane, quasi una supplica.
“Non ti piace?” chiese l’altro, spostando il pollice per accarezzare dolcemente la sua pelle.
“Sì, ma… non devi…” e strattonò ancora.
“Fosse per te faresti finta di niente, non è vero? Torneresti a casa e ti comporteresti come se nulla fosse accaduto, ti terresti tutto dentro. Dimmi, non sei stanco di sacrificarti sempre?”
“Non è così.”
“Sì invece - John lo tirò più vicino a sé - e non devi più farlo, non voglio. Non c’è - l’altra mano si appoggiò al viso di Sherlock - alcun motivo per cui tu lo faccia. Capisci cosa voglio dire?”
Lo sentì risucchiare un respiro stupito.
“Ma John, tu non sei…”
“Ssh.” lo zittì spostando il pollice sulle sue labbra, ma Sherlock si scostò abbassando la testa “John, non devi pensare che io ti abbia portato in vacanza per questo, non è così. Io volevo solo farti sentire meglio.”
“Lo so.” disse John tranquillamente.
“Oh. E non devi fare nulla in cambio, non devi sentirti obbligato a ricambiare.”
“Non mi sento obbligato.”
Due lucciole attraversarono lo spazio stretto che li divideva, illuminando il sorriso calmo e sicuro di John ed il viso quasi angosciato di Sherlock.
“Bene.” a questo punto Sherlock era convinto che John gli avrebbe lasciato la mano, ma non fu così.
“Davvero non capisci, Sherlock? Io non devo farlo, io voglio farlo.”
“Fare cosa?”
“Questo.”
John si alzò in punta di piedi e compì il suo atto di fede, appoggiando le labbra su quelle di Sherlock, accarezzandole e strofinandole con dolcezza finché non le sentì schiudersi per accogliere l’intrusione della sua lingua, la mano libera di Sherlock si aggrappò spasmodicamente al suo braccio, affondandogli le dita nella carne ed un mugolio stupito risuonò nel silenzio.
John allontanò appena la bocca dalla sua per riprendere fiato.
“Basta soffrire, Sherlock, basta voti da martire, voglio soltanto che tu sia felice. Con me. Lo meriti, lo meritiamo entrambi.”
“John…” sussurrò il moro e l’altro poté sentire l’incertezza nella sua voce.
“Ancora non mi credi? Allora dovrò essere più convincente.” mormorò con una punta di malizia. Sciolse le loro dita intrecciate solo per afferrare la sua maglietta e tirarlo completamente contro di sé per baciarlo di nuovo e perdersi su quelle labbra, già diventate una droga dopo solo due baci. Lo sentì tremare e, per quanto gli sarebbe piaciuto pensare che era solo merito suo, John sentiva che l’aria della notte era fredda e Sherlock indossava solo il pigiama. Senza smettere di baciarlo, lasciò scivolare una mano dal petto alla sua anca, dove Sherlock si era appoggiato; gli sfiorò il dorso della mano con la punta delle dita e questa volta il detective la girò, palmo in alto, per afferrare quella di John.
Lanciò uno sguardo interrogativo verso la sua camera e John annuì “Sì Sherlock, voglio portarti a letto e fare l’amore con te tutta la notte.”
Il tremore che percorreva il corpo di Sherlock si accentuò, ma seguì John senza indugio verso la sua stanza ed una nuova vita.

“John…” biascicò Sherlock nel dormiveglia e John gli sfiorò i capelli con la punta delle dita. Non aveva mai pensato che il suo nome, così comune e banale, potesse avere un suono tanto dolce. Sherlock non aveva pronunciato altro dalla notte prima, solo il suo nome, John, John, JOHN, sussurrato, urlato, con dolcezza, senza fiato, con passione e l’ex soldato lo aveva ricompensato pronunciando Sherlock con la devozione di un fedele, racchiudendo in quelle due sillabe il sentimento unico che provava per lui e che mai sarebbe riuscito ad esprimere altrimenti.
Il consulente investigativo si stiracchiò, aprì faticosamente gli occhi e subito li richiuse, offeso dalla luce del mattino e nascose la testa sotto il cuscino. John non resistette e si chinò su di lui, baciandolo tra le scapole. “Buongiorno, come ti senti?”
“Sono distrutto.” fu la replica ovattata che giunse attraverso il guanciale.
John percorse la sua schiena in una carezza possessiva “Talmente stanco da non riuscire ad ascoltare il programma che ho in mente per oggi?”
Sherlock sollevò il cuscino e lo guardò incredulo “Non credo di essere in grado di alzarmi dal letto.”
John lo fece voltare e si sdraiò su di lui “Sei fortunato, perché la giornata odierna prevede colazione a letto, seguita dal divieto assoluto di lasciare questa stanza.”
Sherlock gli prese la mano e baciò con dolcezza il palmo ed il polso, trattenendo lì le labbra per sentire le sue pulsazioni.
Due ore più tardi, dopo un’abbondante colazione e del sesso che li lasciò stremati, erano entrambi sdraiati sulla schiena a sorridersi come due idioti, poi il viso di Sherlock si fece serio, quasi contemplativo.
“Cosa c’è?” chiese John, toccandogli un fianco.
“stavo cercando nel mio Mind Palace un’altra volta in cui ti ho visto così felice, ma non la trovo.”
“Perché non c’è - John si girò su un fianco con una piccola smorfia, ignorando i muscoli indolenziti - non sono mai stato felice come lo sono in questo momento.”
“Nemmeno…?”
“Nemmeno al mio matrimonio, no.” disse con sicurezza, accarezzandogli il viso.
Sherlock si morse le labbra e chiuse gli occhi con un sospiro “Sai che farei qualunque cosa per renderti felice, è il motivo per cui mi sono tenuto in disparte quando sono tornato, per non interferire con la felicità che stavi costruendo. Ma adesso mi chiedo come sarebbero andate le cose, se mi fossi fatto avanti.”
John fece scivolare la mano sul suo petto e tamburellò con le dita, assorto “Non sto dicendo che sono contento di come siano andante le cose - le dita corsero alla cicatrice di Sherlock, toccandola con reverenza - non posso esserlo; tuttavia quello che abbiamo passato ci ha reso più forti. Se ci fossimo dichiarati anni fa, credi che il nostro legame sarebbe stato abbastanza forte da sopravvivere a tutto ciò che è venuto in seguito?”
“Non lo so. Forse no.” azzardò, incerto.
“Questo… noi due, intendo - John indicò i loro corpi e Sherlock sorrise - è accaduto nel momento esatto in cui doveva accadere, non troppo presto, né troppo tardi e perciò adesso sono certo che sarà per sempre.”
“Ne sembri davvero sicuro.”
“Sì, lo sono.”
“Come fai a saperlo?”
“E’ una questione di fede.” si portò la mano destra di Sherlock alla bocca e ne baciò l’anulare.
Anche per quello era troppo presto, sarebbe venuto il tempo il momento giusto, senza dubbio, ma per ora voleva solo godersi la loro neonata intimità ed il sapore acidulo della pelle di Sherlock sotto le dita.

- Due anni più tardi -

“Se continui a sorridere a quel modo, ti verrà una paresi.” osservò Sherlock, sfilandosi la cravatta con un sospiro di sollievo.
“Taci.” lo rimbeccò John con affetto, senza staccare gli occhi dalla sua fede di platino.
Il detective finì per liberarsi dei vestiti da cerimonia sparpagliandogli tra il letto e l’armadio ed abbracciò suo marito.
“Ti proporrei una prima notte di nozze in piena regola, ma visto che domani mattina dobbiamo alzarci all’alba per prendere l’aereo, dovremo aspettare di essere a Firenze.”
“Doveva essere una sorpresa. - mugolò John, tetro - Come hai fatto a capirlo?”
“Duranti tutti questi mesi non hai mai accennato una sola volta alla luna di miele e quando ero io ad introdurre il discorso, cambiavi subito argomento, con delle scuse patetiche, se mi è permesso. - ignorò il pizzicotto di John che gli strizzò il fianco - Quindi era del tutto evidente che stavi macchinando qualcosa per conto tuo. Nelle scorse settimane alcuni capi di abbigliamento hanno iniziato misteriosamente a sparire dall’armadio, per finire nelle valigie che la signora Hudson ha acconsentito a nascondere nel suo appartamento.”
L’ex soldato non aveva pensato nemmeno per un istante che a Sherlock potessero sfuggire quei particolari, ma almeno la meta del viaggio sperava di essere riuscito a tenerla nascosto, dato che aveva usato esclusivamente il computer di Molly per prenotare il volo e l’albergo. Sherlock gli lesse i pensieri sul volto, perché si appoggiò alla sua spalla e proseguì nella deduzione “Due anni fa ti dissi che mi avrebbe fatto piacere visitare Firenze ed era un particolare così sentimentale che non avevo dubbi che te ne saresti ricordato: non sei in grado di riconoscere un autista di metropolitana dallo stato dei suoi pantaloni, ma queste romanticherie non te le dimentichi.”
John gli rubò un bacio a stampo “Non fare finta che ti dispiacciano, perché so che non è vero e che non vedi l’ora di visitare gli Uffizi. Lunedì saranno tutti tuoi.”
Sherlock aggrottò la fronte “Lunedì la Galleria è chiusa.”
“Be’, sai - John intrecciò le braccia dietro la nuca - non hai idea delle porte che ti si aprono, quando tuo cognato è il Governo Ombra di questo Paese.”
“Vuoi dire che…”
“Il museo sarà tutto per te.”
Sherlock gli si gettò addosso togliendogli il fiato con un bacio.
“Direi che la mia sorpresa è riuscita almeno in parte.” rise il dottore.
“Sì, ma non avevo alcun dubbio che avresti fatto qualcosa di unico.” mormorò Sherlock, tornando ad appoggiarsi alla sua spalla.
“Come facevi ad esserne sicuro?”
“E’ una questione di fede.”

= < > = < > =

NOTE

[1] Le notizie sulla cianosi e la tabella sul gruppo sanguigno che può avere un figlio a seconda di quello dei genitori le ho trovate sul sito www.gravidanzaonline.it, ma l’idea originaria per il gruppo sanguigno mi è venuta grazie al telefilm E.R.: Kerry Weaver è alla ricerca della sua madre biologica e crede di averla individuata in una paziente dell’ospedale, ma confrontando i loro gruppi sanguigni, che si rivelano incompatibili, scopre che non può esserlo.
L’ossimetria misura il livello di ossigenazione dei globuli rossi nel sangue arterioso.

[2] I lavori di restauro alla Domus Aurea si sono conclusi e il monumento sarà visitabile da luglio a settembre, a partire da quest’anno. Diciamo che Sherlock e John sono stati a Roma prima di questa data, o durante un periodo di chiusura.

[3] In Inghilterra, a differenza che da noi, non ci ammassa alla fermata dell’autobus cercando di salire tutti insieme stile “al mio segnale scatenate l’inferno”, ma si fa una fila indiana.

[4] Sherlock lo dice in The Great Game guardando le stelle.

In questa storia ci sono alcuni piccoli omaggi alla prima stagione di Sherlock: il could be dangerous, la candela sul tavolo, ecc... volevo recuperare la loro intesa, una delle cose che più mi è mancata nella terza stagione, e far rivivere loro, in un altro contesto, alcuni attimi che hanno caratterizzato il loro rapporto.

A tutti voi, grazie per aver tenuto botta fin qui!

   
 
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