Fanfic su artisti musicali > Emblem3
Segui la storia  |       
Autore: Alex Wolf    12/05/2014    3 recensioni
Mi chiamavo Chloe Valerie King, e non ero mai stata una ragazza cattiva, aggressiva o arrogante. [...]
Mi chiamo Chloe Valerie King, e sono la bulla della scuola.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Drew Chadwick, Keaton Stromberg, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Wesley Stromberg
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 


Girl next door. 
 


“Sono la voce di chi ne ha abbastanza.
Di chi cade a terra, sputa sangue, ma poi si rialza.”
 
— Mostro.

 
 

Image and video hosting by TinyPic
 
 


Parcheggiai la macchina con tranquillità, mi passai una mano fra i capelli tinti di biondo e passai per un ultima volta il lucidalabbra sulla bocca. Sorrisi d’istinto al mio riflesso e gettai il para sole verso l’alto, dove si scontrò con il tettuccio della Rang Rover, nera, nuova. Papà aveva deciso, siccome i miei voti a scuola avevano avuto un ascesa impressionante, di regalarmela. Gli ero stata grata, e molto anche. Non capita tutti i giorni che il proprio padre arrivi a casa e ti regali una macchina, specialmente una che costa così tanto. La fortuna è che a noi i soldi non mancano.
Tolsi le chiavi dal cruscotto e le gettai nella borsa, poi aprii la portiera e alzai leggermente l’angolo sinistro della bocca.
I miei tacchi vertiginosi toccarono prima lo scalino dell’auto, poi l’asfalto. Era una tortura portare quei trampoli, ma dopo due anni ci avevo fatto l’abitudine. “Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire”, diceva sempre mia nonna. E per mia sfortuna, aveva ragione. Quando la portiera dell’auto si chiuse alle mie spalle, avevo gli occhi di tutti puntati contro. Era normale, tutto normale ed era giusto che andasse così. Era giusto che la gente che mi guardava pensasse: “è una stronza di prima categoria. Ma, meglio non farla arrabbiare.” Dopo l’incontro con Charlotte Simpson di tre anni fa, la gente aveva iniziato a portarmi più rispetto di quello che mi aspettassi, e avevo persino trovato un piccolo fan club di ragazze che aspiravano a diventare come me, o ci provavano. Avevo subito bloccato il loro tentativo di divenire così, a mia immagine e somiglianza, ma avevo dato il mio ok al fatto che continuassero a pensare che io fossi una bulla solo con i bulli. Sono felice di averle conosciute, loro sono la causa dei miei voti alti.
Raddrizzai la schiena e passai una mano fra i capelli, affilai lo sguardo e presi a camminare verso l’entrata della scuola. L’aria frizzantina di metà maggio mi accarezzava il viso, facendomi venire la pelle d’oca ma poco m’importava. Mi piaceva quella sensazione di freschezza mattutina, dolce come una carezza. Mi era sempre piaciuta. Il sole brillava nel cielo senza nubi, scaraventando la mia ombra nera –“come la mia coscienza” dicevano alcuni-  al mio fianco. Salii i gradini di pietra con facilità, stando attenta a non perdere l’equilibrio sui tacchi sebbene negli anni avessi acquisito un portamento tale da riuscire persino a correrci. Presi un respiro veloce, invisibile e silenzioso, poi poggiai i palmi sulle maniglie delle porte ad anta e spinsi. Le grandi porte grigie si aprirono davanti a me e il corridoio si presentò gremito di gente. Sulle pareti bianche erano appesi i manifesti della festa a tema hawaiano che si sarebbe svolta sabato sera in spiaggia; in una angolo accanto all’entrata stavano due ragazze del terzo anno intente a vendere i biglietti, con due vistose corone di fiori appese al collo; gli sportelli degli armadietti verdi e bianchi –i colori della scuola- addossati contro i muri sbattevano di tanto in tanto. Al centro della piccola piazza, a terra, stava lo stemma dello squalo bianco che rappresentava la scuola. Alcuni dicevano che portava sfortuna calpestarlo, io non ci credevo a quelle cavolate ma per quanto mi ostinassi a ritenerle tali non l’avevo mai calpestato. Altri, come il ragazzino col capello rosso che vi stava passando ora, non ci credevano. Scrocchiai le nocche e voltai la testa quando sentii una voce chiamarmi. Luise era alta poco meno di me, aveva profondi occhi grigi cangianti e labbra piene e rosse. Era una bella ragazza del secondo anno, ma i corti capelli biondi, naturali, che le arrivavano sotto il mento e i grandi occhiali rotondi alla Harry Potter non avevano mai attratto i ragazzi più di tanto. Inoltre, Lu frequentava ragazze che a detta della scuola erano pazze, nerd, sfigate, adoratrici della sottoscritta. Gli stessi aggettivi con cui venivo definita io prima che tutti iniziassero ad avere paura di me. Prima che tutti cominciassero a rispettarmi, prima che io iniziassi a far rispettare le regole. Le mie regole, se così si può dire.
« Ciao Chloe », sussurrò piano. La sua voce era un altro problema, parlava con un tono troppo basso.
« Buon giorno Lu. » Le rivolsi un’occhiata di sfuggita e tornai a osservare il ragazzo che prima, e ora, stava fermo sullo stemma. Parlava tranquillamente con dei coetanei, rideva e scherzava senza accorgersi che dietro di lui stava arrivando una tempesta:
Christine Bill; una ragazza alta e mora con la pelle scura simile al carbone, labbra piene e rosse di rossetto e abiti troppo succinti, persino per i miei gusti. Chi ero io per giudicare? Vi chiederete voi, come tutti. Io li, ero la legge. Se Christine avesse toccato quel ragazzino le avrei probabilmente rotto una mano. Per tutto l’anno ero riuscita a tenere i corridoi e il parcheggio sgombri da risse, intervenendo anche in modi drastici; non avrei permesso a quella ragazzina di rovinare il mio primato.
Continuai a tenerla d’occhio finché non la vidi aggirare il cerchio e iniziare a parlare col ragazzo… Magari erano amici, mi dissi e tornai a guardare Luise. Lei era rimasta silenziosa tutto il tempo a osservare la stessa mia identica scena; magari con la mia stessa idea in mente. La bionda era una ragazza tranquilla, all’apparenza, ma quando si trattava di tirare fuori gli artigli diventava un leone. Più volte l’avevo vista rimanere delusa quando intervenivo a fermare una rissa, o chiedermi perché non avessi rotto qualcosa a qualcuno. A volte, iniziavo a pensare che fosse davvero strana.
« Allora, novità per me? » Domandai, incrociando le braccia al petto.
Lei si passò una mano fra i capelli, scompigliandoli e facendoci riflettere sopra la luce bianca delle lampade a neon. Con le dita passò su tutti  i punti della lista che aveva compilato, adorava programmare cose e prendere appunti, e scosse il capo. « Mh, no. Non direi. Oggi ti mancheranno l’insegnate della prima e seconda ora, tutto qui. » Mi confermò, chiudendo con un colpo secco le cartellina.
Ticchettai il piede a terra, stretto in quei tacchi neri dalla suola rossa, e arricciai le labbra. Cosa avrei potuto fare in queste due ore senza professore? Probabilmente avrei preso la macchina e sarei andata in spiaggia a mangiare un gelato, oppure al canile a curiosare e aiutare. Ogni settimana detraevo dal mio stipendio duecento dollari e li donavo al canile della città; se noi non vogliamo essere abbandonati e vivere male, perché i cani vorrebbero lo stesso? Purtroppo, per via dell’allergia che mio padre aveva io e le mie due sorelle –Leigh e Jesy- non avevamo mai potuto avere un cucciolo, solo un orrendo gatto senza pelo di nome Ares che apparteneva a mia madre e odiava tutti e tutto, lei compresa. Ma mamma continuava a dire che ormai quella creatura crudele faceva parte della famiglia e che si comportava così solo perché era vecchio, e noi dovevamo subircelo. Lo sopportavamo da tredici lunghissimi anni.
« Stando alle condizioni del tempo, direi che sarebbe meglio se tu andassi in spiaggia piuttosto che al canile. », Luise ripose il telefono in tasca e mi sorrise, piegando leggermente la testa a destra. Il colletto della sua camicia bianca a fragoline rosa –avrei dovuto portarla a fare shopping, presto- brillò chiaro contro la luce proveniente dal soffitto, e mi accecò per qualche secondo.
Scossi il capo irritata, non capendo come facesse lei a indossare roba così. Io non ero mai andata oltre i vestiti neri, i legghins, i pantaloni stretti di jeans o di pelle e qualche camicia bianca, si; ma mai mi sarei sognata di mettere quella roba.
« Si, grazie Luise. » Mi passai una mano fra i capelli, spostando il piede da una gamba all’altra. Il mio occhio cadde per caso sul banchetto dei biglietti dove, quella che mi ricordava un’appartenente al “mio club privato” di nome Lydia, forse la era, era intenta a comprare dei biglietti. Subito mi si illuminò il cervello: avrei portato Luise e le altre ragazze a fare shopping, come gesto di “amicizia” –più che altro carità- nei loro confronti. « Allora, andrai alla festa in spiaggia organizzata dalla scuola? »
« Ecco… a dire la verità no. Non ho un accompagnatore. » Mormorò, guardando a terra. Ecco un’altra cosa che la ragazza avrebbe dovuto dimenticare: smettere di fissare il pavimento, come se fosse un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
Alzai gli occhi al cielo. « E’ una festa in spiaggia, ci si va per fare il bagno a mezzanotte. Ci si va da soli, o in gruppo, ma non accompagnati da un ragazzo. Non è un ballo, è un festino Luise e c’è una bella differenza. » La mia voce uscì un po’ più acida di quanto mi aspettassi. Vidi un’ombra di delusione passare negli occhi della ragazza e provai un certo rimorso. Non avrei voluto ferirla, ma lei era così… Luise. Appunto. Chiusi gli occhi per qualche secondo, poi li riaprii: « Ascolta, non volevo trattarti così mi dispiace. » Un sorrisetto aleggiò sulla sua pelle già baciata dal sole. « Ora, se ti va bene venerdì pom… » un grido irruppe fra le mie parole.
Voltai la testa verso il centro dell’atrio e trovai una buona fetta della scuola in cerchio, mentre sbracciavano, battevano le mani e fischiavano divertiti. Una rissa. Christine me l’avrebbe pagata cara. 
 « Ne parliamo dopo. Ciao Luise. »
« Ciao Val », pigolò lei prima di scomparire, e correre verso quella che, era realmente, Lydia.
Nel frattempo, gettai la mia borsa in un angolo e scrocchiai le nocche, indirizzandomi verso la rissa. Quando arrivai ai margini fischiai forte, e tutto calò nel silenzio. Volti e occhi mi si puntarono addosso, scavando la mia pelle curiosi della mia reazione. Dove prima c’era stata una valanga di persone, ora si era magicamente creato un corridoio per farmi passare. Tenni le spalle dritte mentre camminavo, per sembrare più alta e sicura. Il suono dei tacchi che rimbombavano nel corridoio muto.
« Allora? » Domandai, incrociando le braccia al petto. Terry Mason, un ragazzone del quarto anno che frequentava il mio stesso corso di chimica, si alzò. Mi superava di due teste buone, e anche come muscolatura, ma non mi feci intimidire. Bloccai i suoi occhi neri nei miei e socchiusi le palpebre. Lo vidi ingoiare un fiotto di saliva e abbassare la testa in segno di resa. « Allora? » Chiesi nuovamente, ancora in attesa di una risposta. Tutti i presenti erano muti e curiosi di scoprire cosa sarebbe successo. C’era chi fremeva dall’entusiasmo, chi tremava dalla paura e chi, i più saggi, voltano le spalle e se ne andavano.
« Il ragazzino ha calpestato lo Squalo. » Si giustificò Terry, facendo un passo di lato. Steso a terra, dietro la sua mole, era rimasto disteso fino a quel momento il ragazzino dal capello rosso di poco prima. I corti capelli castani erano disordinati, un rivolo di sangue gli colava dal naso e il lato della bocca, e il capello era volato sull’emblema della scuola.
Feci volare il mio sguardo dal ragazzino del secondo anno, che doveva ancora mettere su muscoli e imparare a difendersi, a Terry, grande e grosso col cervello da gallina. Scossi il capo e feci schioccare la lingua, avvicinandomi al mio compagno di classe; gli accarezzai una guancia lievemente e poi, caricando indietro, gli rifilai uno schiaffo.  Lo schiocco rimbombò per i corridoi per qualche minuto, mentre la folla restava inattesa.
« Il ragazzino ha sedici anni, tu diciotto e sei il doppio di lui. » Sibilai. « Ora andrai da lui, lo aiuterai ad alzarsi e ti scuserai, ok? » Terry annuì, senza ribattere. « Bravo ragazzo. In quanto allo stemma, è solo una stupida credenza del cazzo. » Alzai di poco la voce, in modo che tutti mi sentissero e mentre Terry aiutava il ragazzino ad alzarsi, io mi avvicinai allo stemma, lo scavalcai e raccolsi il capello. Mi accertai di pestare per bene i denti dello squalo prima di tornare dal quindicenne.« Se ti becco ancora a fare il gradasso con quelli di prima, ti spacco le gambe. » Affermai a Terry, e lui annuì con un sommesso « scusa » di sottofondo. « E voi cosa ci fate ancora qui? Sparite, oggi non è giornata! » La gente si disperse come vento, rimase solo il ragazzo che avevano picchiato. Mi passai una mano fra i capelli, tirandoli indietro, e mi voltai verso di lui. I suoi occhi azzurri erano puntati su di me. « Come ti chiami? »
« Keaton. » Rispose velocemente, rimettendosi il capello. Aveva un qualcosa di famigliare, che però non riuscivo a riconoscere. Qualcosa, nei suoi movimenti mi ricordava qualcuno che non riuscivo a far riemergere dai miei ricordi.
« Come ti senti? Terry ha la mano pesante, eh? » Sdrammatizzai, prendendogli il mento fra l’indice e il pollice della mia mano destra. Aveva una brutta macchia giallastra che gli si stava formando sotto la mascella, e che presto sarebbe diventato un bel ematoma. E, anche se il sangue aveva smesso di scendere, quello secco era rimasto appiccicato al mento e alle labbra.
« Si. Bene grazie. » Ogni risposta era come quella di un computer. Secca e decisa, già impostata.
« Sei ridotto male. » Gli dissi, prima di tornare a recuperare la mia borsa. Quando l’ebbi fra le mani, tornai a osservarlo. « Muoviti Keaton, oggi è il tuo giorno fortunato. Ti do un passaggio. » Lui rimase muto, intimorito dalle mie parole. Sembrava un pesce fuor d’acqua. « Ho le prima due ore libere, perciò ti porto a casa e poi me ne vado per i fatti miei. » Gli spiegai e, senza lasciargli il tempo di rispondere, mi avviai verso l’uscita e l’aprii, venendo investita dalla calura primaverile ormai ricca d’estate. Ripercorsi i miei passi, tornando nel parcheggio e passando davanti a quelle poche persone che erano rimaste fuori. I grandi alberi a lato della strada che costeggiavano il parcheggio riflettevano ombre delicate a terra, tagliate da qualche lama di luce. Frugai nella borsa e ne estratti le chiavi, poggiandomi poi al cofano in attesa di Keaton. Per essere in seconda, il ragazzo, dimostrava più anni di quel che aveva. Diciassette, diciotto al massimo. Proprio quando iniziavo a stufarmi di aspettarlo, lo vidi scendere le scale di corsa e raggiungermi con lo skateboard. Evitò qualche ragazzo che aveva deciso di entrare e si fermò davanti a me, facendo saltare la tavola fra le sue mani. Gli sorrisi e aprii lo sportello della macchina, infilandomici dentro. Lui rimase fuori qualche secondo, allora abbassai il finestrino e mi sporsi un poco. « Non ho tutto il giorno, pivello. »
« Si, scusa. » Scivolò davanti alla macchina con velocità e s’intrufolò all’interno, chiudendo la portiera con attenzione.
 Inarcai un sopracciglio, scossi il capo e misi in moto. Il motore ruggì silenzioso mentre facevo manovra e uscivo dalla proprietà scolastica. 
 
Il sole californiano colpiva il parabrezza con forza, tanto da costringermi a tirare giù il para sole. Lo spostai finché non toccò il vetro e la sua piccola ombra stretta mi coprì gli occhi. Ora era tutto più chiaro. In lontananza potevo vedere la città, il suo molo con il lungo ponte e la banchina gremita di gente. Il mare di Huntington Beach scintillava come un cristallo, le con grandi onde pronte a essere cavalcate. Magari ci avrei fatto un salto dopo; c’era sempre tempo per il surf. Tutta via, dovevo riportare a casa quel ragazzino e perciò il mare avrebbe aspettato.
« Ce l’hai ancora la lingua, ragazzino? » Domandai all’improvviso, facendo terminare quei minuti di silenzio pesante e invadente che ci aveva abbracciato per tutti il viaggio.
Keaton sobbalzò sul sedile, distolse lo sguardo dalla spiaggia lontana e sbatté le palpebre. « Si. »
« Allora, ti dispiacerebbe darmi le indicazioni per andare a casa tua? Non credo di potermele inventare. »
« Certo. » Cominciò a indicarmi la strada, finché non mi ritrovai al parcheggio difronte alla spiaggia.
Chiusi gli occhi e poggiai la schiena al sedile. Fregata da un sedicenne, questa mi mancava proprio. Passai una mano fra i capelli tinti e gettai la testa nella direzione di Keaton, che sorrideva guardando le onde infrangersi contro la battigia.
« Mi pigli per il culo? » Domandai velocemente, spegnendo l’auto per non consumare. Avrei dovuto capirlo che, da come guardava la spiaggia, mi avrebbe trascinata li. Ok, ci sarei andata per conto mio più tardi ma…
« No. Questa è casa mia, una specie. » Rispose sorridendo. Un sorriso che mi ricordava quel qualcuno che ora mi sfuggiva. I suoi occhi azzurri, ornati da un cerchio nero mi sorrisero divertiti.  « Lo vedi quel chiosco la, in fondo al ponte? » Voltai la testa nella direzione della sua mano e affinai lo sguardo. In cima al ponte stava un chiosco abbastanza grande, dal tetto rosso e le pareti blu e bianche con un insegna dell’ennesimo colore che riportava la scritta “RUBYS”. « E’ del compagno di mia madre, e probabilmente ci sarà anche mio fratello, con i suoi amici visto che oggi non sono venuti a scuola. »
« Mhh… spero per te che sia vero, sennò non mi farò problemi a rifilarti uno schiaffo per la presa in giro. » Lo avvertii, estraendo le chiavi dal cruscotto per gettarle in borsa. Aprii la portiera e scesi, seguendo Keaton verso il molo. L’aria salina mi inebriò le narici, facendomi nascere un sorriso sulle labbra.
 I miei tacchi battevano sull’asfalto con un sonoro tic tac tic che, ammetto, iniziava a infastidirmi. Non andavo mai in spiaggia con i tacchi, mi sembrava di disonorare un luogo per me sacro. La sabbia, le onde, il surf erano come il riassunto di tutta la mia vita. Avevo iniziato a fare surf all’età di sei anni e da allora non avevo smesso, impegnandomi ogni anno per diventare sempre più brava. Quando stavo in acqua esistevano solo la tavola e l’onda; non esistevo io, non esisteva la rabbia o la paura. Quando stavo in piedi su quella tavola e accarezzavo le onde l’unica cosa che contava era divertirsi. Affrettai il passo per stare dietro Keaton, che con quel suo skateboard sfrecciava fra le persone dirette in spiaggia. Finalmente lo raggiunsi e assieme attraversammo la passerella di legno diretti al chiosco. Quando finalmente arrivammo da RUBYS, i miei piedi erano diventati insensibili; per fortuna ci ero abituata, sennò avrei iniziato a gridare parolacce a raffica e a lamentarmi. Keaton entrò davanti a me, lo skate stretto sotto il braccio destro, il passo dondolante e un leggero sorriso sulle labbra. Quando scomparì dietro la porta, mi sistemai velocemente i capelli e poi la spalancai con sicurezza. Entrai e i miei piedi scricchiolarono sul parquet del pavimento.
C’erano poche persone quel giorno da RUBYS, la maggior parte dei ragazzi a quest’ora erano a scuola e in spiaggia c’erano più che altro famiglie in vacanza che pensavano a non impazzire a causa dei figlioletti che  correvano verso le onde, oppure spargevano sabbia sui loro asciugamani. Un gruppo di tre ragazzi era appartato in un angolo, davanti ad ognuno un bicchiere di frappè vuoto, e un quarto probabilmente di qualcuno che se n’era andato; le tavole da surf addossate alla parete probabilmente erano le loro. Scossi le spalle e raggiunsi Keaton al bancone, dove si era seduto in attesa di qualcuno. Il rumore dei miei tacchi rimbombò per tutto il locale, facendo voltare il gruppetto nella nostra direzione. Finalmente mi accomodai, e osservai il ragazzino.
 « Allora, sei sicuro che questo posto sia quello giusto? »
« Certo. » Non c’era traccia di bugia nella sua voce, così simpatica e sicura in quel momento. Lo vidi lanciare uno sguardo veloce al gruppetto di tre ragazzi in fondo al locale e sorridere divertito. Loro gli rivolsero un saluto accennato e, quando il giovane tornò a guardare me, sostennero lo sguardo su di noi.
« Li conosci? Perché non vai a salutarli come si deve? » Chiesi, senza osservare nessuno. Eppure, sentivo i loro occhi perforarmi da parte a parte, tentare di scavarmi dentro e guardare cosa nascondevo. Mi dava davvero fastidio. Se avessero continuato a guardarmi come dei cani guardano un prosciutto, li avrei presi e spediti oltre il bancone… senza passare dall’entrata. Tutta via, dovevo ammettere che essere guardata in quel modo non mi dispiaceva neanche più di tanto.
« Sono gli amici di mio fratello », mi spiegò. « Quello la, con il ciuffo castano che va verso l’alto è Tyler.  Quell’altro, quello con il bulldog fra le gambe è Sebastian, mentre quello con i capelli castano-biondicci e gli occhi azzurri e Drew. Hanno tutti ventun'anni. Trattano Wesley come se fosse uno di loro, mentre lui ha solo diciotto anni -si, ne deve ancora fare diciannove- mentre io, che ho solo sedici anni, sono il "fratellino" del loro amico. »
« Capito. » Mi voltai a guardarli e memorizzai i loro volti. I tre ragazzi mi sorrisero, ma i miei occhi rimasero incollati su quello che, a detta di Keaton, era Drew. L’avevo visto gironzolare per scuola quando ancora la frequentava, qualche anno fa e l’avevo sempre trovato un bel ragazzo. Mi piacevano i suoi tatuaggi, che da qui riuscivo a intravedere poco. Lui mi sorrise, io ricambiai e poi tornai al sedicenne di fronte a me.
In quel momento da una tendina di perline colorate, che formavano l’immagine di un tramonto, uscì un ragazzo. I corti capelli castani erano schiacciati sotto un cappello nero con sopra disegnata una faccina inquietante che ti faceva l’occhiolino;  lo sguardo concentrato sul vassoio di frappè, attenti a scorgere il minimo movimento di caduta. Sul viso di Keaton si aprì un sorriso divertito, quindi si appoggiò al bancone e schioccò le dita. Quello che doveva essere suo fratello alzò il viso e i suoi occhi azzurri si piantarono prima sul ragazzo, poi su di me.  Socchiusi le labbra. Wesley Stromberg. Ma certo, mi dissi, come avevo potuto non riconoscere in Keaton gli occhi del fratello?  Wesley, con la sua camminata sicura, il fisico allenato e il viso dai tratti decisi era stato la mia prima cotta delle superiori. Mi era piaciuto quando io non ero ancora nessuno e lui era già qualcuno. Poi mi era passata, quando avevo capito che non sarebbe mai successo niente che mi avrebbe portata a conoscerlo e col tempo l’avevo dimenticato. E col tempo ero diventata qualcuno, ero cresciuta.
« Ciao Wes! » Lo salutò Keaton, aiutandolo a reggere due dei quattro frappè. Il fratello continuava a spostare lo sguardo da me a lui, e viceversa non capendo cosa stava succedendo. Poi si bloccò su Keaton e poggiò le bevande sul bancone, raccogliendo il mento del ragazzino fra le dita come avevo fatto io poco prima. Lo girò e lo rigirò, finché una smorfia di delusione non gli ruppe il sorriso leggero di poco prima.
« Ma guarda come se ridotto… Che ti è successo? » Chiese Wesley serio, mentre raccoglieva un panno pulito, lo passava sotto un getto d’acqua fredda e lo tirava al fratello. Vedendo che Keaton non rispondeva, si rivolse a me. Poggiò le mani sul bancone e irrigidì i muscoli. « Che gli è successo? »
« Tuo fratello ha pensato bene di calpestare lo squalo e Terry Mason gliel’ha date. » Raccontai in toni spicci, osservandomi distrattamente le unghie. Quindi, alzai gli occhi sul ragazzo dietro al bancone e alzai le spalle: « Sono arrivata un po’ tardi, tuo fratello era già ridotto così quando me la sono vista con Terry. » Ammisi.
Wesley chiuse gli occhi e respirò a fondo e scosse violentemente il capo, si tolse il capello per passarsi una mano fra i capelli e lo rimise. « Coglione. » Non capii se l’avesse detto al fratello oppure a Terry, o a entrambi. In ogni modo, mi alzai e sgranchii le ginocchia. Era ora di levare le tende e lasciare i fratelli Stromberg a sbrigarsela da soli.
« Si. Si, lo penso anche io. » Annuii, raccogliendo la borsa da terra.
Wesley uscì da dietro il bancone e tirò uno scappellotto al fratello dietro la nuca, poi si concentrò su di me: « Ti ringrazio per quello che hai fatto, Chloe. » Sa il mio nome? Oh, giusto lo sanno tutti. « Se non fossi intervenuta probabilmente mio fratello ora sarebbe in infermeria con qualcosa di rotto », rivolse a Keaton un’occhiata velenosa, poi tornò a me. I suoi occhi azzurri lasciarono per un momento i miei, percorrendo le curve del mio corpo fasciato da pantaloni di pelle nera e una camicia bianca borchiata che evidenziava il mio seno. Emisi un piccolo sbuffo che lo fece tornare sull’attenti, e ingoiare un fiotto di saliva per la brutta figura appena fatta.
« Fortunatamente sono intervenuta. » Guardai il ragazzo. I suoi occhi celesti mi sorrisero, mentre lui annuiva attento. « Ti verranno due bei lividi, Keaton. Ti consiglio di iniziarli a curare già ora che non li vedi. » Gli suggerii, spostando il peso da una gamba all’altra. « Ora devo andare, ci si vede a scuola. Ciao pivello. » Il sedicenne alzò una mano per salutarmi e poi si voltò, intento a specchiarsi in una vetrina e concentrato a cancellare le tracce di sangue.
Voltai i tacchi e mi diressi verso l’uscita, quando una voce mi raggiunse da lontano. « Ciao Chloe! » Era Wesley; mi ero dimenticata di lui. Sorrisi e voltai la testa, in modo che il mio mento toccasse la spalla.
« Ciao Wesley. » Uscii.
 
 
Decisi di andarmene dalla spiaggia e saltare scuola, per dirigermi al canile. Quando parcheggiai, nel parcheggio della grande struttura c’erano solo tre macchine. Lanciai un’occhiata al cielo e arricciai il naso: il cielo si era rannuvolato, stranamente, e grandi nubi grigie promettevano pioggia. Mi specchiai nello specchietto retrovisore e aggiustai il trucco, per poi scendere e attraversare il poco spazio che mi separava dalla porta d’entrata. Dentro al canile l’aria era meno pesante e elettrica di fuori, e chiacchiere di protesta arrivavano dalle gabbie. Avanzai decisa per la sala d’attesa, salutando Al quando arrivai al bancone. L’anziano signore ricambiò, allontanando lo sguardo dal monitor del computer; i suoi vispi occhietti scuri erano più stanchi del solito, notai.
« Che succede di la? » Sussurrai, indicando il corridoio con un cenno del capo.
« Le solite cose », rispose lui con quella vocina alterata di tanto in tanto dalla vecchiaia. Si grattò la pelata e mosse la bocca impastata. « Una coppia che cerca un cane per il loro figlio, e non riesce a decidersi. Ci pensi tu? Conosci questi animali persino meglio di Anne, e lei ci lavora qui. » Un piccolo sorrisetto mi affiorò sulle labbra.
Avrei potuto farlo? Certo, non sarebbe stata di certo la prima volta che convincevo qualcuno a prendere un cane. Però di una cosa ne ero certa, non li avrei mai convinti con il mio abbigliamento; dovevo cambiarmi e mettermi la divisa. Scoccando un’occhiata a Al, passai oltre il bancone e m’infilai nello spogliatoio; presi una camicia pulita di scorta, infilai un paio di scarpe e legai i capelli in una coda alta. Quando uscii dalla porta laterale, quella che spuntava tra due file di gabbie staccate, intravidi le sagome delle due persone di cui mi aveva parlato Al.  Salutai i cani e arrivai difronte alle due persone: la donna non era molto alta, aveva corti capelli biondi e non più di una quarantina d’anni; l’uomo invece era alto, aveva capelli grigiastri e vestiva molto elegantemente. Tutta via, non sembravano due persone che se la tiravano. Gli occhi scuri della donna mi squadrarono curiosi, poi lei sorrise.
« Salve, posso aiutarvi? » Domandai, con il sorriso sulle labbra.
La donna guardò l’uomo, gli sorrise e annuì alla mia domanda. « Cercavamo un cane, non molto grosso e facile da gestire. Ne abbiamo visti molti, non sappiamo deciderci. » Spiegò, con il sorriso sulle labbra. Aveva un bel sorriso, decisi. Un bel sorriso e un buon carattere.
« Credo di potervi aiutare. » Cominciammo a camminare fra le gabbie grigie, ma ben tenute. Fra le sbarre i cani di diverse razze erano tutti tranquilli; qualcuno si faceva la toletta, qualcun altro mangiava, altri giocavano con la loro coda e alcuni dormivano.
 Feci correre lo sguardo su tutte le cucce, finché in lontananza non individuai quella di Sampson, una piccolo batuffolo bianco latte, dalle orecchie a punta e il pelo dritto. Mi fermai difronte a lui, aprii la gabbia e raccolsi il piccoletto fra le braccia. Dietro di me sentii il sospiro trattenuto della donna, e quando girai su me stessa e uscii dalla gabbia –con Sampson che si agitava fra le mie braccia- vidi i suoi occhi illuminarsi.
« Lui è Sampson, l’hanno trovato abbandonato in un cassonetto della spazzatura assieme ai suoi tre quattro fratelli –tutti già adottati-. E’ l’ultimo della cucciolata, e a detta del nostro veterinario non crescerà molto e rimarrà un cane di piccola taglia. Ha un ottimo carattere con i bambini e le persone adulte, non ha bisogno di molta manutenzione e mangia due volte al giorno. » Gli accarezzai la piccola testa e lui scodinzolò, osservandomi con quegli occhi grandi e castani.
« E’ perfetto. » Sussurrò la donna, dando una leggera stretta al braccio del marito. L’uomo rivolse un’occhiata al cane e poi roteo gli occhi verso l’alto, sorridendo all’osservazione della moglie.
« E’ perfetto. » Ripeté, stringendo le dita della donna fra le sue.
Sorrisi, sistemai Sampson fra le mie braccia e lo strinsi un poco. La luce negli occhi della donna era qualcosa di fantastico, troppo dolce per essere descritto. Sembrava quella di una madre che vede suo figlio per la prima volta.
Chissà, pensai, magari i suoi figli erano partiti per andare a vivere da soli e a lei mancavano.
« I ragazzi l’adoreranno! » Esclamò.
Oppure no
Raggiungemmo Al nella sala d’aspetto; quando mi vide arrivare con Sampson in braccio, i suoi occhi si illuminarono. Scacciò via dal viso il broncio causato dalla noia e sorrise felice. Adorava quel cucciolo, se avesse potuto l’avrebbe portato a casa sua, ma purtroppo lui e sua moglie Anne avevano già tre gatti e un nipotino che valeva per  un cane. Non avrebbe potuto occuparsi di Sam come avrebbe voluto. Lasciai i due signori con Al, a registrare il cane e fare tutte le cose legali che la legge costringeva a fare mentre io mi occupavo del cucciolo e gli mettevo collare e medaglietta con tanto di nome. Quando lo lasciai fra le braccia della signora lei mi sorrise, e il mio cuore con lei. Strano a dirsi, ma sapevo che il piccoletto avrebbe avuto una famiglia che gli avrebbe voluto bene.
« Arrivederci. Ciao piccoletto. » Agitai la mano, mentre la coppia usciva dal negozio. Quando furono fuori dalla nostra visuale, mi accasciai contro il bancone.
« Hai un cuore d’oro, ragazza mia. » Si complimentò con me Al; si passò una mano sulla pelata e allungò le braccia verso la schiena, sedendosi poi sulla sua sedia girevole.
Se solo la pensassero tutti così, Al, a quest’ora nessuno righerebbe dritto a scuola, pensai. Se tutti la pensassero così io sarei ancora la vecchia Chloe. 


 


Sei hai perso tempo fino a questo punto, lascia una recensione.

L'associazione "rendere felice Isil" te ne sarà grata.

N.d.a

Eccomi nuovamente qui. Come state ragazze? Piaciuto il capitolo?
Allora, ammetto che il locale "RUBYS" esiste sul serio (sia benedetto Google Earth e le sue immagini), sebbene io non sappia se sia un chiosco oppure una struttra per noleggiare tavole da surf; nella fanfic. servirà per entrambe le cose, e sarà un lugo di ritrovo. Poi, che ne pensare dell'incotro di Chloe con i ragazzi? 
Anyway, io devo andare che è mezzanotte e domani mi alzo alle 6.00 T.T (Kill me). 
Notte :3
Baci,

Isil.

 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Emblem3 / Vai alla pagina dell'autore: Alex Wolf