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Autore: Rynarf    13/05/2014    0 recensioni
" Io ed il mio compagno fantasticammo spesso su come le cose sarebbero potute cambiare radicalmente, in meglio, con un nuovo possessore. Mezzi sorrisi si tingevano sul volto, e la fantasia volava oltre il soffitto in lamiera rugginoso! "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Ricordo solo che avevo cinque anni quando divenni orfano. Nella mia mente vi sono scene di scartoffie e grigiastri visi informi, adornati da sorrisi plastici e vestiario composto.
Attesi quattro anni in una casa con tanti altri miei simili; le nostre storie erano diverse le une dalle altre, così come le nostre età, eppure un velo di speranza e spensieratezza ci accomunava.
All’ottava età vidi passarmi dinanzi ulteriori documenti, poi due volti nuovi ed emozionati mi portarono via da quel luogo che nessuno mai aveva definito casa.
“Mamma e Papà” mi proponevano di chiamarli.
Altre due annate trascorse con una famiglia, con dei genitori.
Un giorno come gli altri, durante una placida passeggiata,  la folla del mio paese m’inghiottì. Vagai per poco alla ricerca dei miei affetti, fino a quando due figuri mi convinsero ad andare con loro. Avrei dovuto intuire che la totale mancanza di carte e firme, non fosse affatto un buon presagio.
Non rividi più “Mamma” e “Papà”. I loro volti pargon sbiaditi, i nomi di essi inesistenti, nella mia testa.

Questi individui m’introdussero in un nuovo mondo, un mondo che mi fece rimpiangere la mancanza scolastica, che giorno dopo giorno mi consumava animo e lacrime; sospettai che quei pianti, a lungo andare, avrebbero potuto scavare le carni delle mie guance.
La mia dimora divenne un container rugginoso, posto in un porto. Vi eravamo io ed altri miei affini –circa una quindicina, ciò mi rimembrò l’orfanotrofio. Storie differenti, idem per l’età, e sguardi spenti.
Non apparivamo ancora deceduti dentro, non del tutto.
Eravamo impiegati in campi di pomodori e fabbricazione del più e del meno. Quasi ogni giorno un impegno differente: balocchi, scarpe, bigiotteria. Dovevamo compiere al meglio i nostri doveri! Le punizioni erano prevalentemente fisiche. Botte, digiuni, lavori extra nei campi.
Quelli definiti maggiormente scarsi venivano messi all’asta, per chi fosse interessato a schiavi e/o “compagnia”.
Nel mio stesso "quasi alloggio" conobbi Abrham. Divenimmo compari di giornate!
Insieme riuscivamo ad alleggerire i dolori, a sorridere, a sperare. Quello sì che era fondamentale, la speranza.
Egli aveva la mia stessa età.

Lavorammo per tre massacranti anni. Non vivemmo per tre anni.
Le nostre fisionomie, un tempo paffute, avevano arraffato un aspetto deperito.
Con l’arrivo estivo di nuovi impiegati, le temperature andarono ad aumentare vertiginosamente, l’aria divenne salina, afosa e corrosiva, la nostra prigione andò in sovraffollamento, e non ci volle molto prima che i più deboli soccombessero all’eccessiva calura all’interno del container. Le morti sempre più frequenti portarono i capi a scegliere la strada meno battuta; molti di noi furono messi in vendita.
Presero la decisione di non dividere me ed Abrham, probabilmente scorgendone un maggior margine di profitto se messi sul mercato in coppia.
Io ed il mio compagno fantasticammo spesso su come le cose sarebbero potute cambiare radicalmente, in meglio, con un nuovo possessore. Mezzi sorrisi si tingevano sul volto, e la fantasia volava oltre il soffitto in lamiera rugginoso!
L’euforia albergava nelle nostre membra, il fatidico giorno dell’asta.
Ragazzini e ragazzine venivano trascinati su di una sorta di palcoscenico fatiscente, privi di alcun vestiario. Questi venivano scambiati con cospicue somme di danaro. Il miglior offerente si accaparrava il/la fanciullo/a.
Eravamo pura merce.
Gironi di prostituzione, organi, schiavi, e molto altro, ci attendevano oltre l’umiliazione della nudità ed il danaro cartaceo, frusciante tra gli arti grotteschi degli interessati.

Ci andò sicuramente di lusso.
Un grassoccio omone benestante, dai tratti marcati e scuri, conquistò le nostre vite grazie ad un’offerta esagerata.
Divenimmo servitù nel suo casermone dall’arredamento arabesco, non sapevamo neppure dove fosse situato.
Non più schiavi, ma servi.
Adesso avevamo un vero tetto sulla testa, ed una piccola stanzetta tutto nostra. Sicuramente era meno curata rispetto al resto dell’abitazione, però possedevamo due letti separati! Con coperte, materassi  e cuscini.
Pasti caldi o tiepidi ogni giorno. Vestiti –sì o no- puliti, ed adatti alle stagioni correnti. Risultare impeccabili nei servigi era fondamentale, le pene non mancavano mai. Ma stare un giorno senza cibo, essere picchiati con più clemenza e sopportare il buio penetrante della cantina di casa per un’intera notte, era senz’altro più accettabile del lavorare sotto l’afa ed il sole cocente.
Toccavamo il cielo con un dito! E per la durata di due settimane, il mondo pareva sorriderci!
Comprendemmo solo successivamente che quel riso era di puro scherno.
Il padrone ci instradò bruscamente, e senza alcun preavviso, verso il suo personale viottolo di vizi più segreti e malati.
Quel primo rapporto sessuale con l’uomo, segnò l’inizio di nuovi castighi in caso di errori. Fu come essere violentati, in tutto e per tutto! Con l’unica differenza che non potevamo opporci; acconsentivamo, nostro malgrado.  E con tremendo terrore obbedivamo anche agli ordini più malsani.
Con lo scorrere dei tempi, l’essere seviziati divenne un’ordinaria abitudine. Gli anni passavano.
Io ed Abrham tentammo di fuggire più e più volte. Non riuscivamo mai a superare il giardino, o addirittura ad uscire dall’abitazione!
L’ignoto oltre quelle molteplici mura ci atterriva altrettanto. Mai ci aveva portati fuori da casa sua.
Ci rendemmo conto di essere ugualmente prigionieri, e dunque ci rassegnammo alla nostra ingiustificata condanna.

Raggiungemmo anche la sedicesima età, con estrema lentezza. I nostri corpi maturarono, e l’animo deperì. Quegli anni ci annullarono definitivamente.
Oramai divenuti fin troppo adulti per attrarre ancora il nostro padrone, la via che avevamo percorso per tutto quel tempo io ed il mio compare, si biforcò.
Egli divenne un ragazzo soldato. Immaginavo che, in un modo o nell’altro, sarebbe riuscito a svignarsela. Invece il suo principale incarico era assicurarsi che i veri guerrieri portassero a termine la missione. E così, con tanti altri suoi simili, fu mandato a testare un campo di mine.
Io ebbi una sorte benevola!
L’unico mio rimpianto è che nessuno verrà mai conoscenza di chi abbia “donato” quei reni, quei polmoni, e tutti quegli organi talmente sani e giovani.

Non posso dire che l’animo a me pertinente continui a vivere, tramite il mio cuore. Eppure questo continua a battere.
Io, Hideki, continuerò ad implorare una sorda e straziata giustizia!
Per me, per Abrham, per Mamma, per Papà, per tutti. 
  
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