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Autore: valeriaspanu    14/05/2014    4 recensioni
"Quei nazisti di merda ci chiamano David o Sarah. Ma quando nel ghetto avevano scoperto che era il mio nome di battesimo, avevano semplicemente abbreviato il nome in sporca ebrea. Anche puttana era un epiteto che quei bastardi amavano, non che importasse più ormai. E forse, adesso, è il nome che mi si addice di più: sono una puttana. Una schifosa puttana ebrea."
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Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Contest di Scrittura "Watercolor" indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio

 

PACCHETTO TERRA DI SIENA BRUCIATA

 

Mi chiamo Sarah Rosenberg.

 

Un nome terribilmente ebreo, non trovate?

 

Quei nazisti di merda ci chiamano David o Sarah. Ma quando nel ghetto avevano scoperto che era il mio nome di battesimo, avevano semplicemente abbreviato il nome in sporca ebrea. Anche puttana era un epiteto che quei bastardi amavano, non che importasse più ormai. E forse, adesso, è il nome che mi si addice di più: sono una puttana. Una schifosa puttana ebrea.

 

Ho persino uno specchio, nella mia schifosa baracca. Uno specchio per sistemarmi, per “ farmi bella”. Non mi sento più bella da tanto tempo, non mi sento più donna da tanto tempo. Donna, ma chi mi credo di essere? Sono soltanto una diciottenne stupida e sporca, spezzata. Sono solo una puttana ebrea.

 

Non si direbbe che lo sono, comunque. Di ebreo, ho solo il naso a punta ma, per tutto il resto, sembro tedesca. E ciò mi disgusta. Non mi hanno tagliato i boccoli biondi, al lager, perché io devo piacere agli uomini: me li hanno fatti ricrescere e in un primo e stupido momento ne ero anche felice, attaccata come ero alla mia vanità. A Ravensbrück  mi avevano rasato i capelli ed ora li potevo riavere. Dicevano che a Buchenwald si stava ben peggio ma, ormai, non credevo più a nulla, non pensavo di poter cadere più in basso di così.

 

Dovevo proteggere la mia sorellina. E, in nome di un Dio, uno sporco Dio ebreo come me, l’avrei fatto.

 

Eravamo ricchi a Berlino, io e la mia famiglia. Vivevamo in un bellissimo attico che dava sulla Kurfürstendamm Straße, nel centro di Berlino: mio padre era un medico e mia madre era stata una famosa ballerina ai tempi della sua gioventù, aveva girato per mezza Europa con la sua compagnia. Ma poi aveva incontrato mio padre, uno strano e alto adolescente con un accenno di barba alquanto imbarazzante e aveva lasciato tutto per lui. I miei genitori avevano avuto subito me e poi, dopo qualche anno, i gemelli Anna e Aaron.  Anche la mamma era ebrea ma era per metà inglese: nei primi tempi abbiamo pensato che quella goccia di sangue cristiano ci avrebbe potuti salvare. Quanto eravamo ingenui. Troppo ottimisti, troppo stolti. E ora c’era lei da salvare, la mia piccola Anna.

 

La guardo, seduta fuori dalla baracca, mentre fuma una sigaretta: già, noi possiamo scambiare questi beni, noi siamo le fortunate del lager. Non dimostra più i suoi 15 anni e i radi capelli marroni hanno cessato di crescerle in alcuni punti: non parla più da mesi ormai. Ma io la devo riportare a casa, devo tornare a casa con lei. Ma qual è casa, ormai? Berlino? La Germania? Ma è un pensiero inutile, da scacciare per il momento. Pensa al presente, Sarah, pensa al presente, ebrea.

 

Nel mondo chiamato “adolescenza a Berlino”, un mondo ormai lontanissimo da me, a volte mi chiedevo se l’avessi davvero vissuto, avevo anche un fidanzato tedesco, biondo, alto, con dei bellissimi occhi verdi che producevano uno stacco affascinante con la sua pelle dorata, a causa del sole estivo. Si chiamava Andreas. Ne ero innamorata da tempi immemorabili. Era buono, Andreas.  Ma non mi posso permettere di pensare a lui, non qui, non adesso. Io non sono più quella ragazza, non sono più una persona.

 

Li avevamo sentiti, i tedeschi, giù per la strada. Avevamo sentito i calci dati al portone della nostra casa ed eravamo rimasti lì, bloccati dal terrore. Stranamente, ho solo un ricordo di quel giorno: il fermaglio blu, a forma di farfalla, che mia madre metteva ogni giorno, gettato fuori dalla finestra. Era stato un regalo di mia nonna, credo.

 

“Non l’avranno mai, quei bastardi”, aveva detto la mamma.

 

Io, mia madre e Anna fummo separate da Aaron e da nostro padre, un uomo distrutto dall’aver fallito nel suo compito più importante: proteggere la sua famiglia. Lui ERA tedesco, il suo essere ebreo non contava più di tanto per lui. Era un uomo di scienza, Dio era qualcosa di secondaria importanza.

 

-Ehi bionda.-

 

Mi volto e vedo la Kapo che mi indica sbrigativa l’interno della mia camera.

 

-Schneider è qui. Farai meglio a muoverti.-

 

Reprimo un moto di disgusto. Siamo le puttane, le puttane del lager: non sei più Sarah, lei è rimasta a Berlino, nel suo appartamento sulla Kurfürstendamm Straße, lei è felice tra le braccia di Andreas. I suoi capelli sono lunghi e sani, indossa bei vestiti e va a scuola come tutti gli altri. Sarah perderà la verginità con Andreas, si sposerà con lui e avranno dei bellissimi bambini insieme.

 

Tu sei solo il numero 735034. Tu sei solo una puttana e così lo è tua sorella Anna.

 

Entro nella mia misera camera all’interno della baracca. Lì, accanto al mio sudicio letto Ruben Schneider si accende l’ennesima sigaretta della giornata. Lui mi guarda dall’alto in basso e mi fa cenno di spogliarmi. Abbiamo un patto, io e Schneider: lui mi fa quello che vuole e lascia in pace mia sorella. E’ questa la sola protezione che le posso offrire, in questo inferno.

 

Non è di molte parole, Ruben Schneider. In un’altra vita, l’avrei anche definito un uomo affascinante: è alto, con degli occhi azzurri che potrebbero sembrarti anche gentili, buoni se non fosse per il fatto che quest’uomo è il diavolo in persona. E’ stato un grande sostenitore del Lagerbordell, era entusiasta dell’idea di Himmler anche se non approvava che anche i prigionieri ne potessero usufruire. Si lamentava dell’assenza di preservativo, si lamentava di non poter lasciarsi andare alle sue schifose fantasie sessuali.

 

“Vedessi cosa faccio a mia moglie”, mi aveva detto, il primo giorno che c’eravamo incontrati. L’unica volta che mi aveva rivolto la parola. “ Sembri tedesca, quasi mi dimentico cosa sei veramente.”

 

E in quel momento, lontano ormai un anno fa, l’avrei voluto uccidere, avrei voluto avere un coltello per sgozzarlo perché io non ero una cosa: avevo ancora una dignità, ero ancora una persona. Ora non mi importa più di tanto. Devo solo salvare mia sorella, l’ho giurato a mia madre.

 

Mi appoggio sul letto, pronta ad accogliere quella schifosa SS dentro di me. Lui mi tocca un seno con forza e io devo trattenere un gemito di dolore per non dargli soddisfazione, lui non deve vedere la sofferenza nel mio sguardo, lui non avrà niente da me. Mi bacia il collo e io trattengo il disgusto che mi assale: non pensare a nulla, ragazza, non pensare a nulla.

 

Entra dentro di me con violenza e la cenere della sua sigaretta cade sul mio corpo e mi brucia ma io non dico niente, non emetto un gemito. Osservo con la coda dell’occhio l’altra SS che ci controlla dallo spioncino, perché così deve andare.

 

Sento il suo seme che, dopo pochi minuti, m’invade e lui esce da me ma mi sembra insoddisfatto. Si rinfila i pantaloni e si aggira come una belva irritata nella camera mentre io mi rimetto il mio logoro vestito grigio. Mi alzo in piedi e mi avvio al vecchio lavello, per lavarmi le mani: l’igiene è la cosa più importante, in questo inferno. Ma prima che possa muovere anche solo un passo lui mi ributta sul letto, spingendomi. Io lo guardo stranita e la paura si rifà viva dentro di me. Si slaccia di nuovo i pantaloni e prende tra le mani il suo membro. Capisco cosa vuole fare.

 

Rido, una risata vuota, non da me.

 

-Te lo scordi.- gli dico, sprezzante, rialzandomi e proseguendo di nuovo verso il lavello.

 

Lui non parla, non che ciò mi stupisca, ma mi afferra il polso e me lo tira, azzerando la distanza tra i nostri corpi.

 

-Fallo, sgualdrina.-

 

Lo guardo in quegli occhi azzurri ma non mi metto in ginocchio, così come vorrebbe lui. Continuo a fissarlo con un’aria di sfida e mi stupisco di me stessa: io non mi ribello, io non vivo, sopravvivo. Eppure, l’adrenalina prende il possesso del mio corpo e, per la prima volta, non ubbidisco. Per la prima volta in anni, sento che il mio cuore continua a battere, che io sono quella Sarah di Berlino, la sorella di Anna e Aaron, la figlia dei coniugi Rosenberg. La ragazza un tempo amata da Andreas.

 

Il tedesco mi guarda, stizza e rabbia negli occhi. Ha capito che io non farò quello che vuole e questo lo confonde, mette in forse la sua autorità. Ma poi un sorriso si allarga su quel bel viso. Un sorriso crudele che mi fa perdere i battiti del cuore. Si alza le mutande e si chiude la cerniera dei pantaloni e non smette di sorridere e un brivido mi percuote il corpo, capisco tardi quello che vuole fare.

 

-Il patto è finito. Che ne dici, inglesina*?-

 

Prima che io possa urlare, avvertire mia sorella, che poi cosa mai potrebbe fare, fuggire forse, lui esce velocemente dalla camera, sbattendo la porta, mentre io mi ci getto con una forza che solo una persona disperata come me può avere.

 

-Non farla uscire.- ordina Schneider alla guardia e sento la porta che si chiude a chiave.

 

Urlo, continuo a urlare e a battere al muro, sperando di distruggerlo, di fare un breccia in esso e poterci passare attraverso per salvare lei, mia sorella.

 

Sento gli scarponi di Schneider che camminano pesanti, quasi strusciando, sul pavimento lercio della baracca. Non ha fretta, sa che nessuno gli potrà opporre resistenza, non di certo la mia piccola sorellina quindicenne. Non sento nulla, né grida, né imprecazioni. Non mi stupisce, mia sorella non apre bocca da mesi ormai, da quando siamo arrivate in questo posto dimenticato da Dio.

 

Ecco, sento finalmente qualcosa e taccio, per un attimo.

 

Taccio per capire che succede, taccio per fare chiarezza nella mia mente, per cercare di capire come salvarla, salvare lei, questa è la mia missione, questa è la mia ragione di vita.

 

Il silenzio viene rotto dal suo pianto e dalla risata secca di lui che trascina il suo fragile corpo sul pavimento. Sento la porta della camera di mia sorella aprirsi violentemente e le sue urla sono così forti che il mio cuore si spezza, si dilania in mille pezzi. Mi accascio contro il muro e mi sembra di soffocare e vorrei dire qualcosa, vorrei sfogarmi, ma il mio volto resta asciutto e la mia bocca aperta in un grido silenzioso di dolore.

 

Io sento, sento di nuovo. Io SONO di nuovo. E questo è il più grande errore che potessi fare.

 

 

 

 

 

L’ha lasciata in una pozza di sangue, la mia sorellina.

 

Alla fine, la mia guardia l’ha fermato, un ragazzino troppo alto e troppo magro, con dei grandi occhi marroni e il viso coperto di lentiggini. Avrà diciotto anni. Ha detto che era abbastanza, che era solo una ragazzina. Ed effettivamente aveva ragione: era abbastanza.

 

Abbastanza da ucciderla.

 

Ed è colpa mia, colpa del mio “coraggio”, lo possiamo chiamare così, della mia testardaggine. Lei è morta per colpa mia. Ho avuto un attimo di tempo per guardarla, per dirle addio, prima che me la portassero via per sempre, prima che la buttassero nella terra fredda, nella fossa comune, insieme ad altre migliaia di persone sconosciute, senza volto.

 

Il ragazzino allampanato mi aveva passato una patata sottobanco ma io l’avevo rifiutata, lui se l’era subito rimessa in tasca.

 

 

Sono passati mesi da quel giorno, mesi in cui Schneider mi è venuto ogni giorno a fare visita e io gli ho lasciato fare tutto quello che voleva, perché, che scopo c’era nel lottare? Erano tutti morti, non sarei più tornata alla mia vita sicura, felice: ero l’unica rimasta. E ogni volta che incontravo lo sguardo di quel porco, la voglia di vendetta riempiva il mio cuore, mi ossessionava. L’avrei voluto uccidere, il bastardo. L’avrei voluto soffocare nel sonno, vedere il suo viso che diventava rosso, blu, cinereo. Il colore della morte; sorrido, pensandoci.

 

 

-Ragazza, che fai? Muoviti, nasconditi, prima che gli venga in mente di ucciderci.- sbotta l’Ungherese, la più vecchia tra noi qui dentro, mentre mi tira per la mia logora veste. Ha il viso struccato, la mora, e un’espressione di puro terrore che peggiora il complesso.

 

Guardo fuori dalla finestra, non c’è nessuno dei prigionieri che lavora nell’enorme spazio: solo SS che bruciano documenti e si affrettano a mettere in moto le loro enormi auto. Schneider è fuori, urla come un ossesso e blocca delle guardie che cercano di fuggire.

 

-Cara, muoviti. Gli Americani stanno arrivando.-

 

La guardo, un po’ sorpresa, e lei mi sorride comprensiva: è una donna forte, l’Ungherese. Le afferro la mano e lei mi trascina sotto una botola, nascosta alla vista e noto che tutte le mie compagne sono nascoste la dentro, attendendo. Sembriamo dei conigli spauriti che non capiscono cosa accade, se sia davvero arrivato ciò che ci aspettavamo da anni: la Libertà.

 

Non so quante ore passano ma, per la prima volta in mesi, sono di nuovo attenta e sento una morsa allo stomaco che definisco paura, ansia. Sarà tutto finito, tra poco sarà tutto finito. Il silenzio si stringe intorno a noi e l’Ungherese ascolta attentamente. Apre di nuovo la botola e ci fa segno di aspettare, di attendere: sembra una leonessa che protegge i suoi piccoli, fiera anche nel dolore, nella miseria. Esce cautamente e io trattengo il respiro, attendendo ancora.

 

E poi la sento.

 

Sento la risata e i singhiozzi causati da un pianto di liberazione. Velocemente, prima delle altre, esco dal nascondiglio e corro fuori, dove il sole d’inizio Aprile splende.

 

L’Ungherese abbraccia un alto ragazzo biondo e lo bacia in bocca ripetutamente, urlando le uniche parole che conosce in inglese.

 

-Hi, hi, hi!-

 

Mi copro gli occhi con la mano, cercando di proteggermi dal sole splendente del mattino e mi guardo intorno, quasi incredula. Attorno a me, fantasmi, anzi no, persone, escono dai loro nascondigli e guardano abbagliati gli enormi carri armati con la bandiera americana sul fronte che, ormai hanno riempito il campo. I soldati si guardano attorno scioccati, terrorizzati, non so se da noi o dai cadaveri che giacciono sul terreno, e un uomo nero, non ne avevo mai visti in vita mia, copre un bambino pelle e ossa con una coperta di lana.

 

Guardo il cancello e la scritta su di esso:

 

Jedem das Seine.

 

Ad ognuno il suo.

 

Guardo un fucile, vicino a me, e vedo anche Schneider che si guarda attorno, sconfitto, con le altre SS del campo che, lentamente, alzano le mani al cielo in segno di resa. Lui mi da le spalle, non avrebbe tempo di accorgersi di nulla, lo potrei uccidere, vendicherei Anna. Prendo il fucile tra le mani, tremante.

 

Darei dimostrazione di aver imparato la lezione del campo, gli darei ciò che si merita.

 

Punto l’arma contro di lui, pronta a sparare. E proprio in quell’istante, lui si gira e mi fissa spaventato. Nessuno fa caso a noi, lo uccideranno comunque, anche se non lo faccio io. Magari mi premieranno.  Ma butto il fucile ai miei piedi, dopo un attimo di esitazione, perché io non sono così. Io sono libera, adesso. E uccidere quel bastardo non mi porterà indietro mia sorella. Ucciderlo mi condannerebbe agli incubi e ai sensi di colpa: mi macchierebbe dell’omicidio di un essere umano e, tra di noi, non ci sarebbe alcuna differenza. Io voglio essere libera.

 

Lo guardo, mentre un ragazzo di cui non vedo il viso lo ammanetta.

 

-Lasciami, maiale.- sputa Schneider.

 

-Posso capirti benissimo. Anche io sono tedesco.-

 

Quella voce. Quell'accento.

 

Il soldato alza lo sguardo e, per un attimo, dalla mia gola esce un singulto di sorpresa. Quegli occhi verdi, così espressivi, quei capelli color grano che avevo stretto miriadi di volte tra le mani.

 

-Andreas...- mormoro, portandomi una mano sul cuore, per vedere se batte, se sono ancora viva.

 

Perché devo essere in paradiso, devo essere morta e questa è l'unica spiegazione possibile per trovarmi ancora davanti al ragazzo di Berlino.

 

Lui alza lo sguardo e mi fissa per un attimo, senza riconoscermi. Mi avvicino tremante e vorrei tanto accarezzargli quel viso sul quale vi è un sottile strato di barba. Gli è cresciuta, allora. Dovrei semplicemente dirgli, "Sono io, sono Sarah." ma non ne ho la forza o il coraggio e continuo a guardarlo, respirando il suo profumo che tanto mi era mancato in questi anni.

 

-Sarah...- mormora lui, riscuotendosi per un attimo.- Sei Sarah?-

 

Io annuisco e sto zitta, sono diventata muta. Muta dalla felicità.

 

Andreas richiama l'attenzione di un altro soldato che prende in custodia Schneider e lui continua a guardami, quasi incantato.

 

-Io... Io non ti ho più trovata a casa, pensavo fossi morta.- dice, con voce tremante. - Ti ho cercata, tanto, Sarah. Me ne sono andato via, sono scappato via come un codardo e mi sono arruolato con gli Americani e invece tu... tu... - inizia a balbettare e io lo interrompo e lo abbraccio, lo stringo forte al mio corpo.

 

Sento le sue braccia stringermi al suo corpo e inspiro il suo odore di polvere e di sudore, l'odore della guerra, della Libertà tanto agognata.

 

Non potrò mai più essere la ragazzina spensierata di un tempo e lui non sarà il ragazzo che correva con la bicicletta per Pariser Platz. Ma ci siamo ritrovati. Ci siamo ritrovati e adesso non lo lascerò più andare, perché lui, Andreas, è l'unica possibilità per risalire dalla china di disperazione in cui sono crollata. Insieme possiamo provare ad essere meno soli, ad allontanare il passato ed il senso di colpa. Insieme, posso cercare di costruire la mia "Felicità". Posso provare di nuovo a sorridere, posso provare a cercare di nuovo quel Dio che in questi anni avevo perso.

 

-Andiamo via da qui, portami via da qui.- sussurro.

 

E questo è tutto quello che c'è da dire.

 

 

 

 

 

 

 

Andreas mi aveva cercata per più di un anno.

 

Non si era dato pace, aveva girato le prigioni dell'intera regione per trovarmi, per salvarmi. Poteva pagare il riscatto, lui era ricco, forse anche più di me.

 

Ma il padre lo pregò, lo supplicò di andare via, di andarsene da quel paese che aveva sempre chiamato patria ma che, oramai, non gli apparteneva più. Era il 1939 quando, con la scusa di un viaggio di piacere, era salito su una nave diretta a New York e, da lì, aveva assistito alla corsa delirante verso la distruzione di un folle, un pazzo. Nella sua mente, sempre io.

 

Sono passati dieci anni da quel’11 Aprile 1945. Anni in cui gli incubi ci hanno perseguitato e continuano a farlo: forse non se ne andranno mai ma, ogni giorno, la mia ragione per alzarmi da quell'enorme letto, è il sorriso ancora ingenuo di Andreas.

 

La vita deve andare avanti.

 

Accarezzo il mio pancione, pensierosa.

 

Da un paio di mesi abbiamo iniziato a fare un gioco, io e Andreas. Più che altro è una sfida all'ultimo colpo sul nome più ridicolo che possiamo trovare per il nostro bambino, che continua a crescere dentro di me. Un gioco divertente, che può ancora farmi sorridere e fare felice Andreas.

 

E' lì dentro, mio marito, a costruire la culla del bambino nel nostro piccolo appartamento di Los Angeles. Non potevamo tornare a Berlino. Non volevamo stare in Europa e rivivere continuamente ciò che entrambi avevamo passato, ciò che io avevo passato. Il biondo si asciuga la fronte e sbuffa contrariato, delle piccole rughe si formano sulla sua fronte. Poi sorride e mi si avvicina, baciandomi sulla guancia.

 

-Ne ho uno nuovo.-

 -Sentiamo.- gli dico io, alzando gli occhi al cielo.

 -Che ne dici di Ignatius?-

 -Oh Gesù, sei un idiota.- dico io, ridendo e posando la testa sulla sua spalla.

Il nostro gioco, però, vale solo per i nomi maschili.

Perchè, se sarà femmina, sappiamo già che nome darle.

 Anna.

*Inglesina: nei bordelli dei lager, le prostitute venivano scelte tra le ucraine, rumene, ungheresi e russe. Le ebree non venivano scelte poiché ritenute di avere il sangue impuro, così come le italiane. Quindi ho scelto di adottare la soluzione di mezza ebrea, mezza inglese per non commettere un erroraccio storico. Le fonti da cui ho ricavato queste informazioni sono contenute nel libro "La baracca dei tristi piaceri" di Helga Schneider.

  
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