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Autore: hikachu    15/05/2014    1 recensioni
I Gold Saint tra infanzia ed adolescenza, negli anni prima della Notte degli Inganni.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sebbene il mondo sia prigioniero della solitudine (Aphrodite)



L'avevano afferrato un mattino, sulla via per l'arena, mentre calpestava i sassi consumati di una delle scalinate serpentine che collegavano i colli ed i luoghi sopraelevati al centro del Santuario – l'agorà e l'anfiteatro, dove tutto ciò che era importante accadeva – stringendo pugni e denti nella speranza di non scivolare. Era piccolo allora, piccolo come non gli sarebbe mai più stato permesso di essere una volta indossata la prima volta l'armatura; piccolo come, forse, non era mai stato prima che Saga lo prendesse per mano con la stessa cautela che si usa con un randagio fragile ed incattivito. Iniziava appena a parlare il greco con scioltezza ma il suo sangue, che era forte, già accettava il veleno delle rose come se davvero Aphrodite non fosse nato per altro che quello. Gli erano quindi stati fatti i dovuti avvertimenti per la sicurezza dei suoi compagni e dei soldati semplici e dei civili che di tanto in tanto venivano da Rodorio per portar merci o diventare servitori, e la cosa non aveva rattristato Aphrodite, che di essere preso e toccato ne aveva già avuto fino alla nausea, e a cui non interessava poi molto di stringere alcun rapporto con gli altri bambini: non sapeva d'altronde cosa farsene di un amico, lui che mai ne aveva avuti. E come avrebbe potuto? Ed era davvero necessario? Un essere umano perde forse di valore o perde la propria felicità, quando sente di bastare a se stesso? Talvolta, in quei giorni, Aphrodite fissava il volto di Saga, che si preoccupava per lui, e desiderava conoscere le parole giuste per potergli chiedere tutte quelle cose e trovare, forse, una risposta. Era certo che, se essa esisteva da qualche parte, Saga era l'unico che avrebbe potuto conoscerla.

Aphrodite guardò a terra, e vide i propri capelli nella polvere, avvolti intorno ai sassi e incagliati tra i fiori gialli e i denti di leone che crescevano nelle crepe della pavimentazione antica. Li poteva vedere in lontananza, oltre l'arco delle ginocchia piegate, dove non sarebbero dovuti essere, sfavillare sotto il sole. La schiena gli faceva male; c'erano sicuramente dei detriti che gli si stavano conficcando nella pelle, alla ricerca di un proprio spazio tra le sue vertebre. Era la terra che cercava di richiamarlo a sé; di mangiarlo, di inghiottirlo, ed un giorno, quello sarebbe stato senza dubbio il suo destino.

Cercò di alzarsi ma ricadde indietro. Lo avevano colpito dietro il collo e alla testa che ancora gli batteva, alla maniera dei vigliacchi senza onore. Lo avevano afferrato quel mattino: uno dei due che gli bloccavano le braccia gli aveva anche tappato la bocca; poi, Aphrodite era riuscito a calciare quello che aveva tentato di immobilizzargli le gambe da solo, ed erano stati costretti allora a chiamarne un altro prima che potessero cominciare a tagliargli i capelli con pezzi di vetro rotto. Riconobbe tra loro alcuni dei ragazzini che avevano aspirato alle sacre vestigia prima del suo arrivo e che, evidentemente, non l'avevano mai perdonato; gli altri erano perlopiù volti pressappoco anonimi, che forse aveva scorto di sfuggita nei larghi gruppi di adolescenti che si preparavano a diventare guardie. Aphrodite, che aveva vissuto tra uomini disperati ed annoiati della vita, riusciva a leggere senza difficoltà le linee irregolari dei sogni spezzati nei loro occhi, ed era abbastanza familiare con l'idea di se stesso che di solito le persone si prefiguravano, da sapere che l'insulto ulteriore, imperdonabile, era stato il suo viso.

Anche quando il greco era stato per lui poco più che un enigma fatto di suoni sconnessi, Aphrodite aveva sentito con chiarezza il 'femmina' che gli sibilavano dietro o che gli offrivano negli sguardi derisori lasciati a parlare da sé. Sembra proprio una bambina, erano soliti dire gli uomini vestiti eternamente a festa, come se lui non fosse nemmeno lì. Lo dicevano come un apprezzamento al proprio genio, alla propria trovata del prendere quel piccolo straccione e ripulirlo come si fa con un diamante grezzo. E lo dicevano con sorrisi maliziosi, gli occhi che si facevano piccole fessure a mezzaluna come sui volti di maschere crudeli: sembra proprio una bambina, dicevano, e non era una buona cosa, né una constatazione asettica; era affermare che c'è qualcosa che non va, che non è normale, che non dovrebbe essere. Era guardare all'Eden e alla mela che Eva doveva aver tenuto in mano attraverso un pallido riflesso nella forma di un ragazzino. Era dire, c'è qualcosa in te che fa ammattire le persone. Questo destino, questa vita, sono solo colpa tua.

Sotto il sole cocente di Grecia e con i capelli venti (in alcuni punti, dieci o cinque o sette) centimetri più corti, Aphrodite ricordava quegli sguardi e sua madre, sparita un giorno, chissà quale, nel nulla, e le bambine, intraviste con la coda dell'occhio, che avevano condotto un'esistenza simile alla sua—l'esistenza dei cani e dei gatti di lusso, degli uccelletti esotici, in mano a pessimi padroni, e che con ogni probabilità la conducevano ancora. Ripensò alla prima volta che aveva scorto le sacerdotesse e le giovani guerriere spaccare rocce con i propri pugni; allo scintillio abbagliante delle maschere che dovevano farsi bollenti quando il sole era alto. Ripensò a Saga che gli spiegava, sembrando appena un po' sovrappensiero, è affinché possano combattere alla pari degli uomini. Sebbene Aphrodite avesse visto le amazzoni sottoporsi agli stessi allenamenti e vivere la stessa esistenza frugale e severa degli altri guerrieri, era dunque cruciale che indossassero le loro maschere perché fossero riconosciute come degne combattenti.

Era questo essere 'femmina', allora? Non un fatto di nascita, ma neppure un fatto di scelta né di identità personale. Era il peso del difetto eterno che ti viene gettato addosso, la decisione arbitraria che sarai sempre un passo indietro a chi 'femmina' non lo è; che dovrai fare ammenda ogni giorno della tua vita. Perché Eva aveva mangiato la mela e perché Pandora aveva portato con sé tutti i mali, e Aphrodite sembrava proprio una bambina, con quei vestiti, così carino da far ammattire ogni uomo, e così era per le sacerdotesse, costrette a nascondere quella colpa che portavano sul volto con una maschera. Questo dicevano, le risate e gli sguardi e le restrizioni.

Ma mentre si leccava via il sangue dal labbro rotto, Aphrodite capiva che 'femmina' non era semplicemente essere Pandora; era decidere che la stoltezza di Epimeteo fosse colpa di Pandora.

Disgustoso, mormorò, e la voce gli morì in petto perché aveva la gola secca per tutte le urla di rabbia che aveva cercato di cacciare ed erano state soffocate nel palmo di una mano che Aphrodite non aveva mai voluto su di sé. Desiderò di nuovo, come lo aveva desiderato anni prima, che morissero tutti, e desiderava che Saga non lo vedesse mai così e desiderava che Saga spuntasse da dietro quel muro di mattoni rossi laggiù, che lo avvicinasse una seconda volta con la stessa cautela che si usa con un randagio fragile ed incattivito; che non lo guardasse mai come lo guardavano gli altri. Rimpianse di non aver speso quelle poche gocce di sangue che sarebbero bastate ad uccidere le reclute che l'avevano afferrato sulla via scoscesa per l'arena. Pensò, devo diventare più forte.

Aphrodite riprovò ad alzarsi, senza sapere dove andare o cosa fare, solo per sentirsi meno sconfitto, e avvertì di nuovo le ossa e i muscoli che traballavano sotto la pelle, ma questa volta, prima che potesse cadere, fu sollevato per i polsi.

Sollevò lo sguardo e DeathMask del Cancro era lì, con il suo solito ghigno sciocco sulle labbra, assieme a Shura del Capricorno, che teneva lo sguardo fisso su una colonna spezzata dietro le spalle di Aphrodite, come se si vergognasse di guardarlo negli occhi. Erano entrambi pesti e nelle mani libere stringevano gran parte dei capelli recisi di Aphrodite, quelli che le reclute avevano portato via come trofeo.

“Tieni,” gli disse DeathMask dopo che l'ebbero rimesso in piedi, e lasciò cadere i capelli tra le mani aperte di Aphrodite. A quell'epoca, l'accento siculo rendeva il suono del suo greco goffo, quasi come una buffa lingua inventata. Non se ne sarebbe mai liberato, ma con il passare degli anni la crescente aggressività nel suo atteggiamento avrebbe fatto passare quella caratteristica in secondo piano, cancellando definitivamente l'immagine di quel bambino sdentato che talvolta riusciva comico nei suoi tentativi di essere minaccioso. Gli unici a non scordarlo mai sarebbero stati Aphrodite e Shura e, da qualche parte nel suo cuore offuscato, Saga.

Shura imitò DeathMask senza dire nulla. Aphrodite osservò alcuni dei capelli fluttuare, lenti, fino al suolo, senza che gli riuscisse né di stringere le mani per evitare che continuassero a cadere, né di costringersi a gettarli tutti in terra in un gesto che significasse: non ho bisogno di aiuto—se di aiuto si poteva innanzitutto parlare. Perché quei due impiccioni si erano fatti malmenare a fatto già compiuto e cosa avrebbe dovuto fare, lui, con quei capelli tagliati? Eppure, rimase fermo.

“Andiamo,” bofonchiò DeathMask.

“Andiamo a casa,” mormorò Shura.

Stringendo forte gli occhi che minacciavano di lacrimare per la luce del mattino, Aphrodite trovò che non c'erano parole che volesse dire; forse, nulla con cui potesse rispondere, perché tutto in quella situazione era nuovo e, poco a poco, lui sentiva che persino riconoscere se stesso stava diventando sempre più difficile. Così, si lasciò condurre come una bestia addomesticata. Percorse la via per i templi sacri con lo sguardo incollato ai propri piedi, facendo attenzione di restare qualche passo indietro perché, alla fine, aveva veramente preso a piangere e temeva di doverne spiegare il motivo a se stesso o agli altri due, se l'avessero visto.

Se devo essere Pandora, allora terrò la speranza stretta tra le mie mani, solo per me, pensava Aphrodite e cercava di ignorare la flebile sensazione che forse, dopotutto, nemmeno lui era mai riuscito a bastare a se stesso.
   
 
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