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Autore: Starless City    15/05/2014    0 recensioni
La noia può costringere un individuo a dare il peggio di sé, e il gioco creato da Davide ne è a tutti gli effetti la dimostrazione più lampante.
Nove persone, scelte tra amici o semplici conoscenti, verranno incatenate tra loro dalla sua semplice e banale voglia di "nuovo", costrette a partecipare in questo gioco quasi infantile che, poco alla volta, le porterà a rimpiangere le scelte da loro fatte.
[P.S. Il titolo inganna.]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Disclaimer - Il titolo inganna: L'opera che vi apprestate a leggere non è adatta a chi desidera del puro e classico romanticismo da quattro soldi. Violenza e personaggi psicologicamente instabili potrebbero apparire da un momento all'altro per distruggere quel po' di buono che c'è in questa storia, e la citazione (della quale troverete la traduzione nelle NdA) parla chiaro. Noi vi abbiamo avvisati.

 

 

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Multi autem, qui e castris visundi aut spoliandi gratia processerant, volventes hostilia cadavera amicum alii, pars hospitem aut cognatum reperiebant; fuere item, qui inimicos suos cognoscerent. Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur.

De Catilinae coniuratione, Sallustio.



 

 

 

 

──CAPITOLO I──
Multipov
_________________________________________

 


 
Le risa di un ragazzo risuonarono nella strada ancora deserta. Il suono della sua corsa gli riempiva le orecchie e lo eccitava ancora di più. Quell’aria ghiacciata che gli entrava e usciva dai polmoni lo faceva sentire vivo come non mai, per questo non si fermava, per non lasciare che l’adrenalina lo abbandonasse. Diede una rapida occhiata all’orologio: le sei del mattino; poteva ancora farcela, sgattaiolare in camera sua, salutare con un bacio la zia e andare a prendere il treno senza che nessuno si accorgesse di nulla.
Tutto era cominciato con una festa, un bacio di troppo e lui sopra ad un tizio, a riempirlo di pugni. Per la prima volta aveva assaggiato la vita, e i sogni oscuri che gli opprimevano il petto erano volati via. Da quella festa aveva cominciato ad uscire quasi tutte le notti, a sopravvivere senza dormire; con il giorno che lo soffocava e la sera che lo accendeva dai piedi alla punta dei capelli.
Si bloccò alla vista di casa sua e con calma infilò la chiave nella toppa. Si guardò attorno circospetto e, come se si fosse appena svegliato, si sedette al tavolo della cucina a bere una tazza di latte. Terminata la colazione scrisse un biglietto per la zia, dicendole che era già partito per andare a scuola e che le augurava una buona giornata. Raccolse lo zaino che aveva buttato di fianco al frigo la sera precedente e uscì chiudendosi la porta alle spalle. E anche quella volta ce l’aveva fatta. Sospirò di sollievo.
«Elijah!» Si bloccò al suono del suo nome, si voltò lentamente e vide sua zia che si sbracciava dalla finestra. «Aspetta!», la guardò rientrare e pochi secondi dopo riapparire sulla porta. «Elijah, vieni qui.» Il ragazzo si avvicinò circospetto, la donna lo abbracciò e gli scompigliò i capelli. «Volevo solo augurarti buona fortuna per l’esame di oggi.». Elijah ringraziò, fece per andarsene, ma la zia aggiunse: «È arrivata questa ieri sera.» Le restanti parole della donna si persero: il ragazzo aveva occhi e orecchie solo per quella busta rossa.
Salutò distratto la donna e con gli occhi immersi nelle righe della lettera chiuse il cancelletto del cortile. Man mano che proseguiva nella lettura sul suo volto si stampava un sorriso malizioso.
«So che cosa farò stasera.» sussurrò.


Dal lato opposto della strada Ivonne usciva di casa a passo svelto, diretta nella stessa scuola di Elijah. Camminava con gli auricolari nelle orecchie, la musica a coprire il rombo delle macchine che percorrevano quella strada piuttosto trafficata. Era annoiata come al solito dall’immutabile routine che caratterizzava la sua vita da ormai troppo tempo, e che contro ogni previsione non era riuscita in alcun modo ad alterare: si svegliava, andava a scuola e tornava a casa il prima possibile per studiare, a giorni alterni incontrava suo padre con cui non viveva più da anni e quando tornava a casa rimetteva la testa sui libri fino ad addormentarsi con ancora le parole di qualche autore tra i denti.
Era talmente stanca di quell’esistenza piatta e fatta solo di studio che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vedere un margine di miglioramento, forse avrebbe fatto anche più del necessario.
E fu proprio per quella sua esigenza ormai divenuta indomabile che, arrivata a scuola e sedutasi al suo banco ignorando tutti, cominciò a pensare a cosa potesse far di buono per se stessa. Forse avrebbe dovuto cambiare comitiva, cercare di uscire più spesso e non passare interi pomeriggi in casa; forse le sarebbe semplicemente bastato cambiare appena qualche aspetto del suo carattere per risultare meno fredda e più sorridente. Ma questi erano pensieri che faceva ormai tutti i giorni e che servivano solo ad occuparle la testa di supposizioni che non l’avrebbero portata da nessuna parte.
Avrebbe continuato comunque a pensarci, ma quando posò una mano sotto al banco per sistemare un quaderno, si accorse accidentalmente di una piccola busta nera lasciata incustodita sulla tavola di legno. Il suo primo pensiero rimandava a un altro studente che il giorno precedente aveva avuto lezione in quell’aula e non aveva preso tutto come doveva, eppure il nome sulla busta era il suo e si sorprese scoprendo il contenuto della lettera, aperta lentamente e con fin troppa cura.
Una chiave e un foglio, nient’altro. Eppure Ivonne senza nemmeno aver letto il pezzo di carta, si convinse che sarebbe stato meglio lasciarla lì dov’era: istintivamente sapeva che qualunque cosa vi fosse scritto in quella lettera non le sarebbe piaciuto; e quando la lesse tutto d’un fiato prima che il coraggio l’abbandonasse, comprese che non si era sbagliata.


Nella stessa aula si affacciò una ragazza trafelata. Si guardò intorno e, non avendo trovato ciò che cercava, ricominciò a correre. La salutarono diversi ragazzi lungo il percorso, lei rispose a tutti sorridendo e chiedendo loro se avessero visto un borsone blu: nessuno ne sapeva nulla.
Il giorno precedente aveva dimenticato la sua sacca di ginnastica da qualche parte; se non l’avesse ritrovata sua madre l’avrebbe ammazzata, poco ma sicuro. Sbuffò dopo l’ennesimo fallimento.
«Signorina Heard!» si sentì chiamare «Venga qui immediatamente!»
Fermò la sua corsa e imprecò sottovoce per essersi fatta beccare di nuovo dalla vicepreside a “compiere una grave violazione del regolamento scolastico” e a “mettere in pericolo la sicurezza propria e altrui”. Tirò fuori il solito sorriso di circostanza.
«Oh, buongiorno!»
«Signorina Heard, quante volte le devo ricordare che correre nei corridoi è severamente vietato?» chiese irritata la donna.
«Sa perfettamente cosa ne penso di questa regola.» rispose la ragazza distratta da un improvviso flash, in cui si ricordava di aver messo la sacca nell’armadietto.
La vice preside fece per ribattere spazientita, ma venne interrotta da un ragazzo affannato: «Buongiorno! Mi scusi, ma il professore di ginnastica vuole vedere Amber con urgenza…»
«Che peccato! Discuteremo dell’ irragionevolezza di questa regola un altro giorno. Arrivederci!»
Amber, quasi ridendo, si voltò e si rimise a correre fra le parole della donna, che ammoniva il ragazzo a non comportarsi assolutamente come lei poiché era un cattivo esempio.
Nel frattempo alla lista di persone che l’avrebbero uccisa per aver perso la sacca, si era aggiunto pure il professore di ginnastica, nonché suo allenatore. Si fiondò veloce verso l’armadietto e l’aprì. Sarebbe svenuta dal sollievo quando davanti ai suoi occhi era apparsa la tela blu. Aprì la sacca per controllare che ci fosse ancora tutto, ma stranamente c’era qualcosa in più: fra le pieghe del Karategi[1] scorse una busta rossa. La prese e la soppesò fra le mani.
«Bello.» mormorò agitata e curiosa. Non perse tempo a leggere la lettera e si concentrò sulla chiave fredda e leggera, passandosela diverse volte fra le dita; in un punto era stranamente irregolare, e avvicinandosela agli occhi lesse a bassa voce: «Spica. Chissà cosa signif-».
Si interruppe di scatto vedendo passare il professore di ginnastica; nascose veloce il tutto dentro la sacca, prima di venire trascinata in malo modo verso la palestra.


Il professore di ginnastica perse quasi l’equilibrio quando una sua collega gli tagliò d’improvviso la strada.
Elizabeth camminava a passo svelto, e anche piuttosto distrattamente, verso l’uscita della scuola: aveva sempre messo il lavoro prima di sé e della famiglia, ma quel giorno si era ripromessa di comportarsi da buon genitore e far contenta sua figlia cenando con lei in non sapeva quale ristorante appena aperto. Non avrebbe potuto mantenere la promessa, ed era agitata al solo pensiero di doverlo confidare alla sua bambina che ormai tanto piccola più non era.
Uscì all'aperto e iniziò a frugare nella borsa, facendo cadere in preda all'agitazione tutto il contenuto sul terreno: rossetto, qualche altro trucco, carte varie, fazzoletti e quant'altro erano in bella mostra così come lo era anche quella lettera nera. Più la guardava, più si sentiva una stupida, soprattutto perché alla fine aveva scelto di dar retta a quelle poche righe che vi erano scritte.
Rimise lentamente tutto nella borsa, esclusi il cellulare e la chiave trovata nella busta: passava il dito sull'incisione della targhetta segnante il nome "Antares". Voleva concentrare la sua attenzione su quelle lettere in rilievo, ma riusciva solo a pensare a sua figlia, che avrebbe dovuto chiamare per raccontarle una bugia; non era una cosa che solitamente faceva poiché la sincerità era sempre stata alla base del loro rapporto, ma per quella volta le avrebbe mentito dandosi un pizzicotto sulla pancia.
Elizabeth compose il numero e sperò Monica le rispondesse prima che ci ripensasse.
«Mamma, cosa c'è?»
Le mancò un battito. Non credeva le avrebbe risposto al primo squillo.
«Tesoro, questa sera non posso cenare con te.»
Silenzio.
«Dove vai?»
«A casa di Crystal. Deve sistemare gli ultimi preparativi per il matrimonio e ha chiesto l'aiuto mio e di zia Anne.»
Ancora silenzio.
«Credevo vi sareste viste domani.»
«Abbiamo anticipato, Crystal ha un impegno.»
Sentì il rombo di una macchina, ma per la voce di Monica dovette aspettare ancora.
«Ah, va bene... Dunque rimandiamo la nostra cena.»
«Monica, ti prego...»
«Mamma, tranquilla. Non sono più una bambina, non ci resto più male. Ceneremo insieme un'altra volta.»
Elizabeth si sentì male, e pur sapendo che sua figlia aveva appena sorriso dall'altro lato del telefono perché effettivamente non ce l'aveva con lei, pensò comunque di essere una pessima madre: non riusciva mai a comportarsi come tale, non era in grado di accontentare nemmeno una richiesta così piccola per la sua amata figlia. Non ne faceva una giusta.
«Grazie per la comprensione, Monica.»
«Di nulla, mamma. Adesso attacco, sono in compagnia e devo entrare in libreria. Buon lavoro!»
Monica non aspettò una risposta e chiuse la comunicazione; ad Elizabeth scese una lacrima, ma non emise nessun suono. Non voleva finisse così, non voleva deluderla ancora, eppure non poteva fare altrimenti: la lettera parlava chiaro, quella sera aveva un impegno a cui non le era permesso mancare.


«E allora?» chiese una ragazza dai grandi occhioni blu alla figlia di Elizabeth.
«Niente cena stasera, sai che novità. Mia madre non cambierà mai.» disse sollevando gli occhi al cielo. «Ma ora concentriamoci nella nostra disperata ricerca. Quella iena della professoressa doveva proprio darci un libro introvabile? “E mi aspetto che lo leggiate entro la prossima settimana”. Ti rendi conto? Elettra, ma che università abbiamo scelto?» esclamò disperata.
Elettra non riuscì a trattenere le risa; si sorprese a ridere dopo settimane di buio. Monica si lasciò contagiare da quella gioia spontanea; la prese a braccetto e con il cuore leggero entrarono in una piccola libreria.
L’odore di carta stampata le avvolse, lasciandole a sospirare assieme dal piacere.
«Non facciamoci distrarre. Prima troviamo quel maledetto libro, prima possiamo dedicarci a tutti gli altri meravigliosi romanzi.» decretò Monica decisa.
Elettra annuì piano e si avviò a destra. Passò i primi cinque minuti a leggere e rileggere titoli con la testa inclinata, ma non riusciva a fare a meno di distrarsi e tornare con la mente a quello che le era successo quella mattina. Accarezzando con la mano i dorsi dei libri si avvicinò pian piano allo scaffale in cui stava cercando Monica.
«Cosa devi dirmi?»
Elettra sobbalzò. «C-come facevi a sapere che-»
Monica la interruppe: «Che devi dirmi qualcosa? Che dire… Ti conosco.» esclamò sorridendo. «Allora, sentiamo…»
«Beh, stamattina mi sono svegliata presto per ripassare per l’esame. E dentro al libro di matematica indovina cosa c’era? Una busta. Rossa.»
«Ah,» sospirò beata Monica «la mia Elettra ha un ammiratore!».
L’altra fece per ribattere e spiegarle che era tutt’altro che una lettera da uno spasimante, ma si trattenne. In fondo quella lettera era personale, inoltre leggendo fra quelle righe si era convinta che non avrebbe portato a nulla di buono, quindi perché coinvolgere anche l’amica? Però voleva sapere; chiedere consiglio su che cosa aprisse quella chiave e cosa significasse quella strana parola incisa.
«Bellatrix.» sillabò ad alta voce senza rendersene conto.
«Ahi, da lettrice di Harry Potter penso proprio sia un’ammiratrice, non un ammiratore. E lasciatelo dire, una ragazza alquanto strana, si firma con il nome della cattiva! Bellatrix, che scelta…»
Elettra smise di ascoltare, colta da un’ improvvisa illuminazione. Bellatrix era il nome di una stella! Si perse per alcuni istanti nei ricordi, con negli occhi il padre che le indicava le costellazioni e lei bambina che osservava incantata la volta celeste.
Si riscosse quando Monica le toccò la spalla. «Devo andare in biblioteca, devo tornare un libro. Sai, sono già in ritardo con la restituzione; hanno detto che mi tolgono la tessera se non lo porto entro le cinque…».
Elettra roteò gli occhi. «Ho capito, ho capito; resto io a cercare.»
«Grazie, ti adoro!» esclamò Monica schizzando via.
Prima di uscire dal negozio si voltò a salutare Elettra con una mano. La ragazza le rispose, poi si voltò sospirando di fronte alla montagna di libri.

 
Uscendo dalla libreria, Monica salutò distrattamente il commesso che in quel momento stava riordinando degli scaffali.
Alexander le sorrise di rimando, ma non con molto piacere: aveva altro per la testa, e pensare a Monica che più volte gli aveva chiesto di uscire insieme non l’aiutava a stare meglio. Aveva preso a riordinare i libri della sezione Scienza anche se non c’era nessuna oggettiva esigenza di farlo: svolgere quella meccanica azione di rimettere tutto al proprio posto lo calmava e gli teneva impegnata la mente, due cose di cui sentiva estremamente bisogno quel giorno.
Ripensare a quella lettera turbava il suo perenne stato di serenità apparente, facendo diventare quel sorriso poco sincero mostrato sempre a tutti una linea dura sul viso, davvero troppo insolita per la reputazione di sé che era abituato a far conoscere. Si sforzava di mutarla, di controllare la sua espressione per sembrare sempre di ottimo umore, eppure quel lunedì non ci riusciva proprio a fare nulla.
L’idea di andare a quell’anonimo punto d’incontro citato nelle poche righe della lettera gli metteva ansia, e non capire il motivo per cui fosse invitato in un posto simile lo mandava in paranoia: detestava sentire che la sua vita non era interamente sotto il suo controllo, non sopportava l’idea di non saper rispondere a tutte le domande che si stava ponendo.
Scosse la testa e tentò in quel modo di rimproverarsi: doveva concentrarsi solo sul suo lavoro, pensare solamente ai libri che tanto amava e non prendere sul serio quell’invito, restandosene a casa o uscire con gli amici. Eppure sapeva che, poco prima dell’ora fissata per l’appuntamento in quel cinema abbandonato, lui avrebbe fatto l’esatto contrario e sarebbe corso in strada per non tardare.
Alexander venne sottratto ai suoi pensieri da un “ciao” accennato da un ragazzo. Sollevò lo sguardo e vide l’amica di Monica rispondere al saluto con un sorriso allegro. Scorse quello stesso ragazzo voltarsi per uscire dal negozio, e non appena il suo viso fu invisibile alla ragazza, guardò i suoi occhi colorarsi di dolcezza. “Qualcuno ha fatto conquiste”, si disse, per poi sorridere a sua volta e tornare al suo lavoro. Era meglio non distrarsi.

 
Lo sconosciuto, varcata la porta a vetri si mise a correre con lo zaino che gli sbatacchiava sulla schiena.
«Ehilà, Dante!» si sentì salutare da un bambino.
«Ehi, Jodie!» rispose scompigliandogli i capelli «ci si vede al catechismo!» urlò prima di ricominciare a correre.
«Contaci!» esclamò entusiasta il bimbo.
Nella sua folle corsa Dante si maledisse di essersi fermato pure in libreria dopo l’allenamento, avrebbe semplicemente dovuto tornarsene a casa per cominciare il turno ed aiutare suo padre.
Percorse gli ultimi cento metri che lo separavano dal bar dei suoi genitori con un ultimo sforzo, per poi rallentare non appena sarebbe diventato visibile dall’ interno dell’edificio. Si mise a camminare con passo allegro e si dipinse un sorriso sul volto, spinse la porta d’ingresso e davanti ai suoi occhi si stagliò il bar di famiglia con le pareti di legno scuro e i tavoli rosso cupo; stranamente non era animato dalla solita confusione. Chissà dov’erano andati tutti i clienti… All’interno del locale c’erano solo una decina di persone, fra cui i suoi genitori.
Salutò suo padre, impegnato a fare un caffè e si avviò verso la stanza sul retro per prendere il grembiule.
«Dante.» si bloccò «Dante, stamattina un uomo ti cercava. Voleva darti questa».
Il ragazzo, sorpreso, prese dalle mani del padre una piccola busta rossa, fece per aprirla quando il campanello suonò ed entrarono nel locale un gruppo di turisti. Gli bastò uno sguardo di suo padre per capire che doveva correre a cambiarsi e aiutarlo con i nuovi clienti; la lettera avrebbe potuto aspettare.
Dante, fremendo dalla curiosità, si costrinse a ricordarsi che era grazie agli sforzi di suo padre se poteva studiare: tutto il loro denaro derivava da quell’attività, la busta l’avrebbe letta più tardi.
La infilò nello zaino e corse a prendere ordinazioni.



Ad assistere alla consegna di quella lettera vi era un uomo seduto in silenzio al bancone, come era solito fare ogni mattina prima di aprire il suo studio.
Andrej, uno degli psichiatri più conosciuti della città, aveva osservato la scena studiando attentamente le azioni e reazioni dei due individui: il padre era confuso e suo figlio era sorpreso, nulla di insolito. Ma Andrej conosceva il contenuto di quella lettera senza aver bisogno di aprirla poiché quella nera recapitata a lui l’aveva già ispezionata diverse ore prima. Una semplice chiave con inciso “Altair” e un foglio così piccolo da essere quasi un biglietto da visita. Non era scritto a mano, ma stampato con un carattere anonimo, nero su bianco.
Essenziale, conciso, diretto, tutte caratteristiche che Andrej aveva apprezzato pur non amando quel che vi era scritto.
Non aveva programmi per quella sera, nessun paziente da ascoltare quel pomeriggio -aveva deciso di lasciarsi libero per una volta- e andare a quell’appuntamento non lo preoccupava minimamente. Non era spaventato. Non aveva mai temuto nessuno, nemmeno i pazienti fin troppo squilibrati che avevano provato a fargli del male, figuriamoci un anonimo. Era semplicemente infastidito dal modo con cui gli era stato detto di andare in quel cinema, come se chi avesse battuto al computer quelle parole fosse sicuro che lui si sarebbe presentato.
Andrej si alzò senza terminare né il suo caffè né le omelette ordinate, lasciando delle banconote di troppo per una mancia più che sufficiente: pensare a quella lettera gli aveva chiuso lo stomaco e riempito la testa a sufficienza di ipotesi che per il momento non poteva confermare o smentire. In quel momento voleva solo ascoltare le inutili paranoie della maggior parte dei suoi pazienti, annoiarsi facendo disegni di poco conto sul taccuino che avrebbe dovuto usare in modo diverso, stancarsi di ripetere per l’ennesima volta cose stupide ed ovvie.
Era irritato da quella situazione, e uscendo non si premurò di nasconderlo a nessuno dei passanti.
Vide venire verso di lui una ragazzo dai vestiti sdruciti. Aveva gli occhi grandi e spaventati e non appena individuò Andrej fra la folla si diresse titubante verso di lui.
«Buongiorno, dottore. Io… io dovrei parlarle…»
Lo psicologo squadrò annoiato il suo paziente: non sembrava intenzionato a compiere un atto pericoloso per se stesso, o per altri. Si ritrovò quindi a rispondere pacatamente: «Non ora, Paride. Ci vediamo domani come al solito. Arrivederci».


Paride fu sul punto di controbattere, ma si bloccò; in fondo lui era il dottore, lui sapeva quello che faceva, quindi mormorò un saluto e osservò il medico sparire fra la folla.
Rabbrividiva ancora per lo sguardo attento che gli aveva rivolto il medico, a lui non piaceva essere visto; o per lo meno non così, senza nessuna barriera, come se lo psichiatra riuscisse ad entrare nei più reconditi recessi del suo cuore, ad accedere alle parti che a lui stesso erano negate. Sapeva cosa cercava. Uno sguardo più spento, o più folle del solito. Un qualsiasi segno che lo spingesse a credere che avrebbe fatto del male a se stesso. Tutto perché aveva perso il lavoro. Ma lui stava bene così, gli piaceva poter vedere il mondo ogni istante e non dover passare le giornate ad elaborare numeri. Adorava lasciarsi avvolgere dalla perfezione della natura e distrarsi ore e ore seguendo con gli occhi i raggi del sole giocare con le foglie.
Passava le giornate nei parchi e non appena veniva colto da brutti pensieri, non riusciva a rimanere a pensarci più di qualche minuto: la natura lo chiamava; tutti quei giochi di luci, quegli ingranaggi, quei meccanismi che sembravano chiedergli di essere osservati e capiti. Esiste solo l’ora, niente passato o futuro.
Suo padre, però non capiva. Non l’aveva mai capito. E visto che la città aveva messo a disposizione degli psichiatri gratuiti per chiunque volesse usufruirne ce l’aveva mandato.
Paride avrebbe tranquillamente potuto rifiutarsi, ma lui amava suo padre e avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderlo felice, almeno una volta. Aveva perfino provato a comportarsi da persona normale, come tutti volevano, ma era difficile: vedeva distrazioni ovunque e numeri e schemi che volevano essere capiti. Non gli davano pace e lui, quel che è peggio, voleva ascoltarli.
Quella mattina però era accaduta una cosa che l’aveva agitato. E non sapeva cosa fare; prendere le decisioni non era il suo forte. Un uomo gli aveva consegnato una busta rossa. Rossa come il sangue, come le lacrime e la pioggia. Non voleva aprirla. Il rosso faceva paura. Il rosso era peccato.
Però la curiosità gli aveva mosso le dita agili, che con precisione avevano aperto la busta. Una chiave. Bella. Se la passò da una mano all’altra, poi la fece cadere per vedere che rumore faceva. Strano. Suonava come se fosse fatta di un materiale leggerissimo, come la carta, però era pesante. Affascinante. La raccolse. C’era una scritta. «Shedar» sillabò con entusiasmo.
Stella. Costellazione di Cassiopea. Vicino a Caph, mano macchiata. Le informazioni lo bombardavano una dietro l’altra. Però c’era ancora qualcosa in quella busta, una lettera. Non l’entusiasmò molto, ma cominciò lo stesso a leggere: un punto di incontro, l’ora, ma per cosa? Non c’era scritto.
Indossare una maschera. Suonava bene e male al contempo. Forse era una qualche trovata pubblicitaria di un locale, si convinse.
Spiderman. Sì, avrebbe messo la sua maschera. A lui piaceva Spiderman: poteva volare, beh, più o meno. Poi era intelligente, simpatico e soprattutto era forte. Lui vinceva sempre. Lui era un eroe.
Ci sarebbe andato a quell’incontro, decise. E non appena questo pensiero lo toccò, i muscoli del suo corpo si rilassarono di scatto e i suoi occhi tornarono a perdersi nelle meraviglie del mondo.
Ci sarebbe stato da divertirsi a quell’ incontro.


 


[1] Karategi ─ Uniforme per l'allenamento utilizzata per il Karate.



NdA × Dear Gravity...
Volevamo fingerci precise, tant'è vero che nelle nostre intenzioni vi era l'idea di pubblicare l'aggiornamento alle sei e quarantaquattro in punto (orario dettato dal finto orologio del Bianconiglio, accessorio di Nitrogen), ma a causa dell'HTML poco simpatico abbiamo dovuto rimandare di un po'. Eppure un traguardo l'abbiamo raggiunto comunque perché abbiamo aggiornato esattamente un mese dopo, cosa che si spera capiti ancora (ma non metteteci il pensiero).
Lo sappiamo, abbiamo praticamente usato nove pov diversi per un solo capitolo, ma non sapevamo in che altro modo presentarvi tutti i personaggi e altre cose se non così. Promettiamo che non capiterà ancora anche se si può far affidamento solo sulle promesse di Tomboy e non dell'altra.
Speriamo questo capitolo vi piaccia, e se non vi piace... Pazienza, ce ne faremo una ragione.


Citazione tradotta: Molti poi, che erano usciti dall'accampamento per guardare o per spogliare i morti, rivoltando i cadaveri dei nemici riconoscevano chi un amico, chi un ospite, chi un parente; ci fu anche chi riconobbe i propri nemici. Così in maniera contraddittoria in tutto l'esercito si intrecciavano gioia e tristezza, lutto e contentezza.”

Starless City

   
 
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