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Autore: fourty_seven    16/05/2014    1 recensioni
Se vi state chiedendo chi io sia... beh lasciate perdere non ne vale la pena. Tuttavia per coloro che sono ugualmente interessati posso dire che sono un ragazzo con dei "problemi".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Alle cinque esatte arriviamo di fronte al solito bar, cioè il bar che io e Sarah abbiamo sempre frequentato fin da quando eravamo bambini. Questo perché qui vicino c’è un parco in cui i nostri genitori ci portavano tutti i pomeriggi a giocare e, al ritorno, ci fermavamo sempre a prendere un gelato o un succo di frutta; poi quando siamo cresciuti, nei pomeriggi in cui non sapevamo cosa fare, finivamo sempre per venire qui a prenderci qualcosa. Insomma il proprietario del bar ci ha visti crescere.
“Chissà se Bob si ricorda ancora di noi” chiede Sarah.
“Tu non sei mai tornata qui?” le chiedo a mia volta, stupito.
Si è trasferita qui da un anno e non è mai tornata a trovare Bob, che è il proprietario del locale.
“No. Tu eri... via e io non volevo tornarci da sola” risponde un po’ imbarazzata.
“Hai ragione, dopotutto nemmeno io ci sono mai tornato da quando ti sei trasferita. Non mi sembrava giusto, questo è il nostro posto; starci da solo non ha senso” le dico, sorridendo. Poi apro la porta.
“Prego prima le signore”.
“Grazie, che gentile!”.
Entriamo e al bancone delle ordinazioni chi troviamo? Bob.
Anche se sono passati sette, forse otto anni, non è cambiato per nulla; secondo me il tempo per lui non passa, perché ha sempre, sempre, avuto quest’aspetto. Andiamo verso di lui, entrambi curiosi di sapere se ci riconoscerà.
Non ci nota subito, sta pulendo un bicchiere, ci sente solo quando siamo vicini; così alza la testa e ci guarda, vedo le sue labbra muoversi, molto probabilmente per chiederci cosa desideriamo, ma dalla bocca non esce alcun suono. Sul suo volto compare prima un’espressione interrogativa, poi viene sostituita dallo stupore.
“Ragazzi! Siete proprio voi?” esclama. Io annuisco sorridendo, mentre Sarah lo saluta nello stesso modo in cui lo salutava sempre quando eravamo piccoli e ciò spazza via gli ultimi dubbi.
“Oh per la miseria, quanto siete cresciuti!” urla ancora, mentre fa il giro attorno al bancone. Ci viene in contro e ci abbraccia.
“Quanto siete cresciuti! Eh, d'altronde il tempo passa e io invecchio” dice mentre ci scruta attentamente. Per un attimo mi sembra che un lampo di tristezza gli attraversi gli occhi quando mi guarda; ma solo per un istante, poi tornano ad essere i soliti occhi ridenti. Ovviamente anche lui sa cosa mi è successo.
“Non restiamo qua in piedi. Andiamo a sederci” e ci spinge gentilmente via dal bancone, a cui si era formata una piccola fila.
Questo è sempre stato un bar abbastanza frequentato.
“Mi sembra che hai rinnovato il locale” commenta Sarah. Effettivamente ora è un po’ diverso; prima i muri erano rivestiti di pannelli di legno scuri, lo stesso legno di cui erano fatti il bancone e i tavoli, dava l’impressione di essere un locale vecchio con un bel po’ di storia interessante alle spalle. Ora invece è tutto più colorato, più chiaro, ma secondo me meno affascinante.
“Sì, è stata un’idea di mia figlia quando ha preso le redini dell’azienda. Ha sempre detto che non avrebbe mai lavorato in un posto che assomigliava ad un ricovero per nonni, così ha dato una mano di modernità”.
“Preferivo come era prima, mi sembrava più accogliente” aggiunge Sarah e io annuisco per confermare le sue parole. Bob ci sorride, poi si ferma. Abbiamo raggiunto la fine del locale, dove un tempo c’era il nostro tavolo, il tavolo in cui ci siamo sempre seduti.
“Tuttavia, anche se mi ha fatto cambiare tutto il locale, una cosa ho voluto a tutti i costi tenerla” si sposta di lato e ci mostra cosa nascondeva.
Il nostro tavolo.
“No! Hai tenuto il nostro tavolo!” esclama Sarah. Lui annuisce sorridendo.
“Sì, non me la sentivo di buttarlo, soprattutto mentre tu non eri a casa” dice rivolgendosi a me. Poi mi da un’affettuosa pacca sulla spalla, che per poco non mi strappa un gemito di dolore. Forse non ho detto che Bob è un omone di quasi due metri e non sempre riesce a controllare la sua forza.
“Coraggio ragazzi sedetevi! Fatemi indovinare, vi porto una cioccolata con panna e una senza, giusto?”.
“Ovviamente!” esclamiamo contemporaneamente io e Sarah. Sorridendo si allontana.
Questo tavolo era il nostro preferito perché si trova proprio all’estremità del grosso finestrone che occupa la maggior parte della facciata, in questo modo una volta seduti nessuno all’esterno ci poteva vedere.
Ci sediamo uno di fronte all’altro, come usavamo fare.
“Non mi hai ancora chiesto cosa mi è successo” dice Sarah.
“In che senso?” chiedo, non capendo a cosa si riferisce.
“Beh, non ci vediamo da tantissimo tempo; non sei curioso di sapere cosa ho combinato nel frattempo?”.
“Ah, ho capito. Sì, se hai voglia di raccontarmelo ti ascolto”. Forse avrebbe preferito una risposta un po’ più sentita, perché mi sembra un tantino delusa, però comincia comunque a raccontare.
Dopo qualche minuto ritorna Bob con le nostre cioccolate, alla panna per me, senza per Sarah. Si siede anche lui a sentire la storia di Sarah. Assaggio la cioccolata; ha lo stesso identico sapore di quelle che bevevo da piccolo.
Bob e Sarah ridono per un aneddoto divertente, io li guardo e rivedo i pomeriggi di tanti anni fa, quando ci sedevamo in queste identiche posizioni a chiacchierare spensierati.
Sorrido involontariamente; Sarah mi vede: “Che hai?”. Scuoto la testa: “Nulla, tranquilla. Va avanti” le dico ancora sorridendo, poi mi appoggio allo schienale della sedia e sorrido ancora ascoltandola, felice.
Per la prima volta felice, felice di essere qui.
 
Restiamo a parlare con Bob per un paio d’ore, poi lui deve andare via e anche noi ce ne andiamo.
“Adesso che facciamo?” chiede Sarah appena usciti. Io la guardo sorridendo.
“Se vuoi posso farti vedere il mio posto preferito”.
“Sì! Sì certamente!” esclama entusiasta.
“Non pensare che sia chissà che, altrimenti potresti rimanere delusa!”.
Prendiamo un autobus e dopo una decina di minuti arriviamo al parco.
“Il tuo posto preferito è questo parco?” chiede subito.
“Non proprio; il mio posto preferito è quella panchina” le rispondo indicando la mia panchina, su cui mi siedo appena la raggiungo.
“Interessante” commenta, sedendosi anche lei; “E quindi cosa fai qui?” chiede ancora.
“Nulla di particolare, me ne sto fermo a guardare il mondo che ho attorno”.
“Per tutto il pomeriggio?”.
“Per tutto il pomeriggio tutti i pomeriggi, tranne ovviamente quando piove; per quelle occasioni ho altri posti”. Lei mi guarda in un modo strano.
“Che hai?” le chiedo.
“Mi ricordo che un tempo non eri capace di stare fermo a far nulla per più di cinque minuti, e ora passi intere giornate seduto su di una panchina?” dice in modo scherzoso.
“È vero, non sapevo star fermo; ma ho avuto fin troppe possibilità di muovermi negli ultimi tempi e ho bisogno di un po’ di immobilità” le rispondo sorridendo. Tuttavia capisce a cosa mi riferisco e cambia espressione: “Scusa, io non volevo... Ho parlato senza pensare, mi dispiace”.
Le sorrido nuovamente: “Non ti preoccupare”, lei annuisce e volta lo sguardo cominciando a fissare il centro del laghetto.
Io invece guardo lei.
Improvvisamente mi torna in mente un episodio di quando eravamo bambini. Non ricordo precisamente cosa fosse accaduto alla famiglia di Sarah, è passato troppo tempo, comunque si trattava di qualcosa di spiacevole. Mi era stato detto di non dirle nulla, ci avrebbero pensato i suoi genitori quando sarebbe stato il momento; tuttavia lei ne venne comunque a conoscenza e soprattutto venne a sapere che io ne ero a conoscenza. Ricordo ancora le parole esatte che mi disse la prima volta che ci incontrammo.
“Promettimi che d’ora in poi tra di noi non ci saranno più segreti, di nessun genere” ripeto ad alta voce le parole che mi disse allora.
Lei si volta a guardarmi sorpresa.
“Ti ricordi?” le chiedo, lei annuisce, “Allora mi sa che dovrò raccontarti un po’ di cose per mantenere fede alla promessa” dico serio.
“No, non devi. Solo se vuoi”.
Sospiro e guardo il cielo, comincia ad diventare nuvolo, probabilmente domani ci sarà brutto tempo.
Voglio? Voglio davvero confidare a qualcuno tutto ciò che ho passato? No, a qualcuno no, ma a Sarah sì.
“Ti avviso che non sarà esattamente una storia a lieto fine, altrimenti non sarei qui ora, ma là, assieme a loro”. Lei come risposta mi afferra e stringe una mano, che tenevo appoggiata sulla panchina.
“Va bene. Penso che comincerò dall’inizio” mi sistemo per stare più comodo e fisso la città in lontananza, mentre inizio a raccontare.
“Era marzo, un pomeriggio di marzo in cui i miei non c’erano e sarebbero stati via anche il giorno dopo. Io stavo studiando incredibilmente, il giorno dopo avrei avuto l’ultima possibilità per evitare di buttare all’ortiche l’intero anno, così mi ero deciso ad impegnarmi per una volta. Ma evidentemente non era destino. Qualcuno bussò alla porta e quando aprii mi ritrovai di fronte un soldato con tanto di medaglie appuntate su petto. Stava cercando mio nonno, che al tempo della guerra in Iraq era colonnello, però c’erano due problemi. Innanzitutto mio nonno era morto da qualche anno e in secondo luogo io avevo il suo stesso nome e, combinazione, siamo nati nello stesso giorno dello stesso mese. Da lì a confondersi l’anno di nascita è stato facilissimo. Risultato: erano venuti per prendermi e portarmi in una certa base militare in qualche posto mai sentito nominare. Ovviamente gli ho spiegato chiaramente la situazione, ma quando ho finito di parlare ho avuto l’impressione che non avesse ascoltato una singola parola di tutto il mio discorso. Infatti l’unica cosa che mi ha detto è stato di seguirlo. Io, non sapendo cosa fare, l’ho seguito. Quello era il periodo del bum di arruolamenti volontari e in stazione era stata allestita una postazione militare a tal fine. Siamo scesi lì e il soldato ha cominciato a spingermi tra la folla, attraverso la stazione, fino ad un binario a cui era fermo un treno pieno di persone, per lo più ragazzi. A quel punto mi ha messo in mano una cartelletta e ha detto qualcosa che si è persa nella confusione. Io ero praticamente in tilt, non capivo più nulla di ciò che mi stava succedendo, ho preso la cartelletta poi qualcuno mi ha spinto dentro al treno che, qualche istante dopo, è partito. Quando si è fermato ero in un campo militare per l’addestramento delle reclute. Anche lì ho provato in tutti i modi di spiegarmi, ma non c’è stato verso; in più il fatto che i miei non fossero raggiungibili non ha migliorato la situazione. Comunque lì ci sono rimasto solo una settimana, poi hanno fatto salire tutti su un aereo e mi sono ritrovato in un altro continente nel giro di qualche ora. A quel punto non c’è stato più nulla da fare” finisco di parlare e abbasso lo sguardo su di lei.
“E i tuoi che hanno fatto?” chiede.
“Secondo quanto mi hanno raccontato loro, appena tornati, dopo che non sono riusciti in alcun modo a contattarmi, hanno denunciato la mia scomparsa alla polizia, che ovviamente non sapeva nemmeno da dove iniziare le indagini. Sono arrivati ad ipotizzare di tutto, persino che fossi stato vittima di un ipotetico serial killer. Ci sono voluti quasi tre mesi prima che il mio nome comparisse tra le reclute inviate in India a combattere; ma ormai era troppo tardi per rintracciarmi, io e la squadra a cui ero stato assegnato risultavamo dispersi già da qualche tempo. Però questa è un’altra storia” concludo, cercando di usare un tono di voce allegro per alleggerire l’atmosfera. Lei fa un sorriso, ma è evidente che non è rimasta del tutto impassibile alle mie parole.
Mi alzo e le tendo una mano, la afferra e la tiro in piedi con troppa forza, così sbattere contro di me e per poco un cadiamo a terra. “Cretino” dice ridacchiando.
Bene, le ho fatto passare la tristezza.
“Coraggio andiamo, comincio ad avere freddo”. Poi ci incamminiamo.
La accompagno a casa sua, che si trova dall’altra parte della città rispetto alla mia, dopo di che mi incammino a piedi verso casa mia.
 
Arrivo di fronte alla porta, infilo le chiavi nella serratura, le giro e la porta si spalanca con violenza. Riesco ad evitarla per un soffio e solo perché ho dei riflessi piuttosto buoni, altrimenti mi avrebbe spaccato il setto nasale. Dalla casa esce qualcosa che mi abbraccia con forza.
Riconosco mia mamma, quasi in lacrime.
Per un attimo mi chiedo il perché di una sua reazione così esagerata, poi abbasso lo sguardo sull’orologio: un quarto alle nove.
Per la miseria, è già tanto che non ha chiamato la polizia!
“Dove diamine sei stato!” mi urla contro.
“Scusa, ero con Sarah e non mi sono accorto dell’ora” rispondo.
Lei mi guarda in modo strano: “Sa... Ah, Sarah, la nostra Sarah?”.
Io annuisco: “Sì, seguiamo gli stessi corsi” le spiego.
“Ma davvero? Bene, bene” dice, mentre rientra in casa.
Crisi scongiurata per fortuna.
“Vieni, ti ho lasciato la cena in caldo”, la seguo in cucina.
“Non ci avevo pensato. Effettivamente i suoi genitori ci erano venuti a trovare un paio di volte. Beh, a questo punto possiamo riprendere le vecchie abitudini, no?” dice, più a se stessa che a me.
Il fatto è che non solo io e Sarah eravamo grandi amici ma anche i nostri genitori; infatti praticamente tutti i sabato sera andavamo a mangiare fuori e capitava molto spesso di andare in vacanza assieme d’estate.
“Sì certo” le rispondo. Lei annuisce un paio di volte assorta, probabilmente rievocando qualche episodio passato; qualche episodio divertente, perché all’improvviso sorride, per poi uscire dalla cucina.
Finisco la cena, dopo di che  vado in camera mia.
Non ho idea di cosa fare; mi siedo sul letto e faccio scorrere lo sguardo per tutta la stanza, finché non mi cadono gli occhi sullo zaino.
Senza pensarci più di tanto mi alzo, vado verso di esso, lo apro, prendo il libro di matematica, torno sul letto, mi metto comodo e comincio a studiare.
  
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