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Autore: Evander    17/05/2014    1 recensioni
«Una maschera ci dice più di un volto»
Stridenti e lamentosi gli archi sembravano cercare di scucire via la maschera dal suo volto, lentamente, con calma – come un'operazione senza anestesia, il dolore lo avvolgeva. Era come se quelle composizioni facessero appello al suo io nascosto da sempre sotto strati e strati di circostanze, di falsità, di maschere.
Drew Hamilton è un adolescente scozzese come tanti. Ma è diverso. Più vive, più si rende conto della maschera che indossa, rendendolo nient'altro che un adolescente scozzese come tanti, per compiacere la madre, che non fa che ascoltare Vivaldi, o la semplice società, che lo vuole rinchiudere nel vago stereotipo che la gente attribuisce ai ragazzi della sua età.
[Originariamente scritta per il contest "Watercolor" di "A panda piace fare le bolle di assenzio", ma non partecipante per motivi tecnici]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le Quattro Stagioni

 

Una maschera ci dice più di un volto

L'allegro motivo continuava a suonare, suonare, ripetitvo. Assieme al disco, qualcuno lo fischiettava allegramente, spesso sbagliandolo. Drew sbuffò, mentre Vivaldi continuava a suonare, suonare, ripetitivo. Che sua madre amasse le Quattro Stagioni non era mai stato un mistero per nessuno, ma che bisogno v'era di ascoltare l'Autunno all'inzio della mattina? Si rotolò più volte nel letto, tentando di riaddormentarsi, ma non gli riusciva, e nel frattempo il disco continuava a girare, e a suonare, suonare, ripetitivo. Appoggiò il piede sinistro sul pavimento freddo, mentre un gelido brivido gli attraversava l'intero corpo, abituato al calore delle coperte. Ripeté l'azione con la base destra, e si alzò finalmente in piedi, stabile sulle sue gambe. Incominciò ad avviarsi lentamente al piano di sotto, sentendosi come un involucro privo d'anima, che vagava per quella casa. E cos'era, dopo tutto? Acqua, lipidi, protidi, sali minerali e poco altro. «Drew, già sveglio?» Lo salutò sua madre. Era una domanda retorica; Drew detestava le domande retoriche. Qual è il senso di chiedere se già si sa? aveva numerose volte domandato – forse per sfoggiare la propria conoscenza? «Sì», rispose, con un sorriso. Un sorriso falso, un sorriso che era come una domanda retorica – finto. «Pensavo di studiare per la verifica di storia», aggiunse, mentre sua madre si preparava a interrogarlo sul perché della sua mattutina presenza. Lui stesso era una domanda retorica, una finzione. Era una circostanza, era una maschera che poco alla volta si era cucita sul suo volto. «Vuoi fare colazione?» domandò la madre, come da copione, ogni domenica, la stessa cosa. Drew la paragonò istintivamente a un disco rotto che suonava, e suonava, ripetitivo. «Sì, grazie». Era un attore, era lo scrittore dei suoi copioni, era il produttore, era una maschera.


Le strade innevate di Stirling parevano magiche, le strade che si vedono nei film quando nevica, con i bambini che tirano palle di neve, i ragazzi e gli adulti che spalano i vialetti. Drew camminava solo, solo in quella gigantesca coperta bianca, solo in quella città – solo in quel mondo. E fischiava, ma non era felice, e fischiava, ma non fischiava niente che gli piacesse, fischiava Vivaldi, fischiava l'Inverno perché era entrato martellante nella sua testa, e lì dentro continuava a suonare, suonare, ripetitivo. «Mamma, guarda, le maschere!» esclamò un bambino, indicando una vetrina di un negozio, una vetrina tra le tante, di un negozio tra i tanti. Un negozio che vendeva maschere, vendeva travestimenti, un negozio che vendeva tutto ciò che la gente aveva sin dal principio. Istintivamente, Drew si avvicinò alla vetrina, osservando una delle tante maschere – una maschera bianca decorata d'oro. E rimase lì, a guardare le maschere con occhi vacui, chiedendosi perché a tutti i costi l'essere umano dovesse sempre travestirsi – travestirsi per le feste, travestirsi per le circostanze, travestirsi per le persone. E Vivaldi sembrava accusarlo, mentre il motivo si faceva più forte, più pesante. E nella vetrina, insieme alle maschere, vicino a quella bianca ed oro, vedeva il suo volto riflesso, come in vendita – ma non lo era, lui non poteva separarsene, quella era la sua maschera preferita.


Un silenzio solenne alleggiava nell'aria. Gli odori di terriccio e di pioggia invadevano la zona, ma nessuno sembrava farci caso. L'unico a parlare era un prete, vestito completamente di nero, con in mano una Bibbia nera, a leggere parole che parevano anch'esse nere. E, dopo molto tempo, torno Vivaldi, allegro nella sua Primavera, a risuonare nella sua testa. Non poteva certo significare la sua allegria. Lui non sarebbe mai stato allegro al funerale di sua madre – lei non lo sarebbe stato al suo. Era una casualità – un ricordo di lei, della sua musica preferita. Probabilmente al funerale di Drew, sua madre avrebbe pianto in silenzio, ricordandosi del figlio, dei suoi interessi, avrebbe pianto senza farsi notare, e sarebbe tornata a piangere alla lapide, lasciando fiori vicino a quel pezzo di pietra - “Andrew Tristan Hamilton, amato figlio” avrebbe forse recitato la scritta. Eppure la Primavera, che si faceva ogni tanto allegra, ogni tanto malinconica, risuonava sempre più forte, mentre l'immagine nella sua testa cambiava, la scritta si distorceva, le lettere, lentamente cambiavano. “Amata maschera” recitava la lapide. Sembrava un film – con le Quattro Stagioni come colonna sonora – un film che lui non avrebbe diretto, lui non ci avrebbe recitato, non l'avrebbe scritto, lui avrebbe fatto i costumi, perché lui stesso era una maschera, ormai era soltanto finto, era una domada retorica.


Squillante, ripetitiva – come un eco – sofisticata, antica. Risuonava nella radio una melodia che avrebbe riconosciuto da sordo. Ritornava, ricordava, era sempre lì, non se n'era mai veramente andata, si era annidata, come un parassita, e si era preparata ad attaccare al momento migliore. Non era tornata – era ripartita, si era soltanto bloccata, e il disco rotto ora continuava a girare, continuava a ripetersi. Assieme ad essa, la pioggia ticchettava contro i finestrini dell'automobile, creando una fastidiosa orchestra, insopportabile. Avrebbe voluto soltanto fermarsi, e coprirsi le orecchie, aspettando la fine di tutto ciò – incurante di poter fermare l'Estate, come se non fosse possibile, per lui, semplicemente spegnere la radio, o cambiare il canale. La pioggia continuava a cadere, la musica si faceva più insistente, e lui provava sempre più fastidio, mentre all'esterno rimaneva inflessibile. Stridenti e lamentosi gli archi sembravano cercare di scucire via la maschera dal suo volto, lentamente, con calma – come un'operazione senza anestesia, il dolore lo avvolgeva. Era come se quelle composizioni facessero appello al suo io nascosto da sempre sotto strati e strati di circostanze, di falsità, di maschere. Erano un ultimo desiderio della madre defunta, che dalla morte cercava di fargli vivere la sua vita, non quella di un personaggio inventato per compiacere gli altri. Ma quegli archi, stridenti e lamentosi, non potevano farlo – non potevano comprare quella maschera, potevano prenderne altre, come quella bianca con decorazioni dorate ai lati, ma non quella, perché quella era la sua maschera preferita. Erano inseparabili, così come le composizioni di Vivaldi, che continuavano a suonare, suonare, ripetitive.


Premetto che questa storia era stata scritta per un contest bellissimo della pagina A Panda piace fare le bolle d'assenzio, ma data la mia grande conoscenza -ovviamente è sarcasmo - di tutto ciò che riguarda la tecnologia, non sono riuscita a mandarla. Comunque la storia mi è piaciuta - scriverla e un po' anche come contenuto - quindi mi sembrava giusto pubblicarla. Renderle giustizia, insomma. 
Beh, spero che piaccia anche a qualcun'altro, insomma. E spero di non aver fatto qualcosa di troppo scontato. Non ho molto altro da dire. Spero veramente che la storia si "racconti da sola", perché a me pare proprio così, e di conseguenza mi sembra non ci sia niente da specificare. Giusto. La citazione iniziale è di Oscar Wilde. E la storia è stata scritta col prompt "maschere", pacchetto "bianco", ovvero, "introspettivo, descrittivo e generale", che spero di aver utilizzato al meglio.





 

 

  
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