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Autore: LaMicheCoria    17/05/2014    2 recensioni
2011. Pari a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono addosso.
2013. “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato tu. Ci sei sempre tu.”
«Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Genere: Angst, Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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{ 569 Leaman Place ~ File 0.2 }

 

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio del Direttore Fury.
2013.

 

A Nicholas Fury non piaceva non capire. Non importava se l’oggetto della questione erano le istruzioni per montare un videoregistratore o la maniera più veloce per penetrare nel covo del terrorista di turno, in un lasso di tempo inferiore al minuto e mezzo. Non gli piaceva e basta. Non capire una questione, poi, che era a dir poco vitale lo faceva direttamente infuriare.
Non aveva ancora tolto la schermatura di sicurezza dall’Ufficio, né aveva intenzione di sciogliere il silenzio stampa in cui si era trincerato: osservava con l’unico occhio buono a disposizione –O almeno, l’unico occhio buono visibile al popolino- il display tridimensionale davanti a sé e il disappunto, misto ad una nota di sincera preoccupazione che il proprio riflesso sui vetri oscurati avrebbe custodito fino alla morte.
Non poteva accedere ai file, non poteva decriptarli e qualcuno stava giocando ad essere lui.
Nemmeno Nick Fury osava giocare ad essere Nick Fury, figurarsi il primo buontempone con manie criminali e suicide uscito da chissà quale confezione di cereali.
Perché, l’avrebbe capito anche un Agente di Livello Uno, il mancato accesso ai dati della Lemurian Star ed una palese modifica a quelli che erano da sempre i propri requisiti d’accettazione agli stessi, significava che qualcosa di innegabilmente losco e probabilmente anche piuttosto brutto stava mettendo le mani in pasta dove non avrebbe dovuto.
A meno che, certo, Fury non si fosse impiantato qualche dispositivo di memoria o ricordi fasulli, oppure modificato volontariamente ID e password. Una protezione ottima, ma cui dubitava di aver ricorso.
Il Direttore piegò le spalle in avanti ed appoggiò i palmi sulla scrivania lucida, senza distogliere lo sguardo dall’AI in paziente attesa.
Natasha gli aveva portato roba che scottava, da quell’accidenti di nave, e sentiva già i polpastrelli coprirsi di vesciche. Contro la schiena, una pressione come acqua in procinto di squarciare a metà la diga che aveva avuto la brillante e pessima idea di contenerla.
«Computer» esordì, dopo alcuni istanti di riflessione, la fronte che andava via via accartocciandosi per l’esasperazione -Ed una dolorosa presa di coscienza «Chi è l’Agente preposto alla sicurezza di Stark?»
«Agente Colin Hendrick, Livello Sei.»
La foto profilo dell’uomo in questione -Capelli biondo-castano più folti sulle tempie, barba, basette, occhi azzurri, un metro e ottanta per cento kili di peso ben distribuiti e compattati dall’addestramento militare di base- apparve sullo schermo, insieme alla sequela di informazioni riguardanti biografia precedente al reclutamento, Supervisore, abilità varie e variegate, nonché elenco di missioni e relativi rapporti.
Ventotto anni, originario del Queens, aveva iniziato come addetto alla sicurezza in un market indiano del quartiere, feedback positivi nel raggiungimento di obiettivi che tutto avevano tranne essere eclatanti o indispensabili per proteggere la sicurezza pubblica del Paese.
Insomma, il tipo perfetto da appioppare come babysitter al figlio di Howard perché non si desse a gaie sregolatezze o eccedesse in idiozie frattanto che la Virginia Potts non si rimetteva dall’incidente col tassì.
Adatto a tenere sotto controllo Stark, ma ancora troppo inesperto per missioni a più alto rischio.
In poche parole, l’uomo perfetto per far passare inosservata una patata bollente come quella che era appena capitata sul groppone del Direttore.
Davanti agli occhi di tutti è dove nessuno va mai a guardare. Se vuoi che nessuna si accorga dei tuoi traffici o delle tue macchinazioni, non dar loro peso e fingi che non abbiano importanza. La gente è come un branco di pecore e seguirà la direzione del tuo sguardo senza farsi domande.
«Accesso al database dell’aeroporto di Los Angeles.» ordinò quindi, premendo i polpastrelli sopra la radice del naso «Trova i velivoli di proprietà S.H.I.E.L.D. e circoscrivi la ricerca a quelli utilizzabili da Hendrick, in rapporto alla sua patente di volo.»
Ecco, forse il volo era l’unico ambito in cui l’Agente riusciva ad emergere: per il resto, tutto era nella norma –Secondo i parametri dell’Agenzia, ovviamente. Nulla di eclatante.
Era comunque la sola buona notizia della giornata, visto che e considerando che Fury voleva il bellimbusto di Livello Sei il più presto possibile. Avesse avuto una patente meno di spicco, avrebbe dovuto per forza chiedere di un pilota per evitare le cinque ore comuni. Il che, non era consigliato. Non tanto le cinque ore, quanto l’idea di rivolgersi ad una seconda persona e allargare il già pericoloso cerchio di sussurri e voci di corridoio che voleva evitare ad ogni costo.
Era anche per quello, in fondo, che aveva deciso di ingoiare la stizza e nutrire l’ego ipertrofico di Stark: utilizzare i terminali dell’Agenzia avrebbe significato rendere palese la scoperta di un intrigo su cui mai avrebbe dovuto mettere le mani sopra; cercare di decriptare il tutto tramite un computer esterno era meno plateale che sbandierare la cosa in pubblica piazza, nudo e con un boa di piume iridescenti al collo.
Stark era il solo, dopo lo S.H.I.E.L.D. a disporre dei mezzi adatti a far passare tutto inosservato, ogni cosa sotto silenzio. Certo, così il figlio di Howard sarebbe venuto a conoscenza di chissà quale segreto inconfessabile –Non era la prima volta, il Direttore ricordava anche fin troppo bene l’intrusione informatica di un anno prima, durante l’emergenza Loki-, ma se questo voleva dire avere un supporto in più –Molti supporti in più, magari molti supporti cromati a repulsori in più, riempiti di ogni sorta di arma possibile ed immaginabile, ancora nemmeno sognata dai tecnici dell’Agenzia-, allora Nick era disposto fargli sondare il database fino alla cronologia dell’ultimo Agente di Livello Uno appena reclutato.
«Manda un avviso all’Agente Hendrick: presentarsi per rapporto ufficiale sul soggetto Stark, Anthony Edward presso il 569 Leaman Place, Brooklyn Heights in tempo massimo tre ore.»

 

Stark Industries, Los Angeles.
Ufficio di Tony Stark.
2013.

 

Il badge di Hendrick gli spenzolò ciondolando dinanzi al naso e Tony si ritrasse di scatto, sussultando ed emettendo un singulto strozzato. Sarebbe anche caduto all’indietro, non fosse rimasto gelato dalla dondolio affascinante di alcuni fogli assolutamente importanti, Tony, per Dio che dalla guancia appiccicaticcia di sudore e sì-no-forse saliva si libravano in caduta fino alla scrivania.
Il silenzio che seguì a quella scena fu tanto spiazzante da rendere Stark incapace di intendere e di volere per una manciata di secondi. Quando fu di nuovo in grado di articolare una frase di senso compiuto che non fosse una sequela di insulti ai neuroni fedifraghi, trattenne un guaito dentro le guance e lo mutò in un sospiro roco, prima, e un pratico schiarirsi di gola, poi.
Con l’inguardabile camicia rossa con bretelle nere e cravatta bordeaux di Colin ad inseguirlo come un incubo –Dio, avrebbe preferito avere la Romanoff a fargli da segretaria sottocopertura, almeno aveva dove posare gli occhi senza provocare l’immediato suicidio del buongusto-, il magnate si sistemò sulla sedia e finse di ordinare le scartoffie. Il tutto a fronte bassa, perché l’Agente non vedesse le borse che s’allungavano fino agli zigomi e cominciasse così con una paternale degna di Pepper. Sulle ramanzine, almeno, Virginia aveva avuto ragione: Colin era valido quanto lei.
Non che fosse una palla al piede, s’intende. Al contrario, Hendrick si era dimostrato un valido elemento e parecchio utile –Mai quanto Pepper, però. Nessuno sarebbe mai stato come Pepper. Pepper era unica e Tony avrebbe voluto vedere lei, la mattina, sfilare attraverso i corridoi nell’accecante eleganza di un tailleur bianco, la coda di cavallo che le accarezzava le spalle e la linea della schiena, una cartelletta stretta al seno e gli occhi caldi di sole, le guance pizzicate dall’aria fresca e dal condizionatore già acceso. Avrebbe voluto lei, lì, accanto a sé, le sue dita tra i capelli, la sua voce a rassicurarlo, preoccupata e dolce, perché andava tutto bene, avrebbe superato ogni cosa, doveva solo stringere i denti e resistere e respirare, semplicemente respirare.
Ma Pepper non c’era e, sebbene cercasse di rendere la differenza tra lei e Hendrick sopportabile, e non rendere troppo chiaro all’altro l’abisso che lo separava da Virginia, era ovvio come Colin stesse facendo veramente di tutto per superare l’ostacolo del Non-Essere-Potts. Era puntuale, ligio ai suoi compiti, velocissimo col caffè: ogni mattina gli faceva trovare un cappuccino all’italiana preso da un bar a due isolati dalle Industries e un dolce senza glutine ogni volta diverso, preparato espressamente dal proprietario del locale ed espressamente per lui. Era, la sua, una gentilezza a tratti goffa, persino un po’ buffa, tipica di chi stesse tentando in ogni modo di non essere un intralcio, né una palla al piede.
Però, di nuovo, non era Pepper. Non sarebbe mai stato Pepper.
«Cosa devo firmare?» domandò Tony, alzando finalmente lo sguardo su di lui e dando un ultimo colpo di tosse per cancellare i residui di sonno che gli impastavano la bocca.
«Nulla, signor Stark.»
«E allora perché sei ancora qui?» continuò il magnate, perplesso, aggrottando la fronte «Non eri stato convocato con urgenza dal nostro Pirata di fiducia?»
Colin inarcò le sopracciglia e, a disagio, sfregò il palmo contro la barba bruna che marcava la linea squadrata e decisa della mascella.
«In verità, signor Stark, ero venuto a vedere dove fosse» disse Colin «Aveva un incontro con alcuni rappresentati della Roxxon…Mezz’ora fa.»
Tony spalancò le palpebre –Il desiderio di uggiolare per lo strazio rappresentato dalla riunione, come dal fatto di essere costretto alle più mirabolanti scuse e flautate leccate di terga per giustificare la propria assenza, aumentò a livelli insostenibili. Ebbe l’accortezza di trattenersi, però, e si morse la lingua.
«Va bene, va bene. Lo sapevo, lo ricordavo.» mentì e non gli piacque il guizzo che aveva attraversato gli occhi di Hendrick, solitamente immobili e privi di qualsivoglia emozione se non una professionale cortesia e stolido garbo. «Ma sai com’è, il ritardo è una tattica. Si capisce fin da subito chi è che comanda.»
Colin assottigliò le labbra –Non aveva creduto ad una sola parola di quanto gli aveva appena detto e non gli riusciva di nasconderlo.
«Naturalmente, signor Stark.» accondiscese, chinando educatamente il capo «Posso fare qualcosa per lei?»
«No, togli le tende e defilati.» negò il magnate e socchiuse le palpebre, piccato «L’ultima cosa che voglio è avere la tua testa sulla coscienza se arrivi in ritardo al randez-vous di Mace Windu.»
Un accenno di risata sorvolò la bocca di Hendrick, ammorbidendo i tratti altrimenti rigidi e donando al suo volto una luce e un’espressione completamente nuove. Non rideva spesso, forse troppo occupato a stare al proprio posto per permettersi un atteggiamento più disteso, meno improntato ai vincoli Datore di Lavoro-Segretario che la sua missione gli imponeva; quando, però, si abbandonava ad un tono più rilassato e disteso, il giovane mutava e alleggeriva l’ambiente, cancellava la tensione –Ed il guardingo sospetto cui Stark non mancava mai di sottoporlo.
«Allora arrivederci, signor Stark. Dovrei essere di ritorno in serata.»
«A stasera.» concordò Tony «Ah.» come ricordandosi di un pensiero improvviso, bloccò Colin sulla soglia con uno schiocco di dita ed indicò il badge appeso al collo «E’ inutile che cerchi di ingraziarti Happy con quello. Non ti prenderà in simpatia fino a quando non ti deciderai a guardare Downtown Abbey.»
Hendrick emise ancora quella flebile, sussurrata risata e si chiuse la porta alle spalle.
L’ufficio divenne un po’ più freddo e il figlio di Howard avvertì distintamente le pareti premergli addosso. Deglutì un ansimo e cercò di mettere ordine tra le carte per tenere le mani occupate, ma i polsi tremavano e le dita perdevano la presa, i fogli si mescolavano, frusciavano, in disordine, precipitavano giù, giù, giù –Precipitavano come lui, un anno prima, dal baratro stomachevole sopra la Tower, precipitavano e nessuno veniva a salvarli, precipitavano e si schiantavano a terra, precipitava e nessuno veniva a salvarlo, precipitava e si schiantava a terra.
Un urlo roco e Tony si spinse indietro con tale veemenza da far inclinare la sedia. Finì per rotolare sul pavimento, in mezzo al fascicolame, contro la superficie gelida delle piastrelle.
Non era vero. Non era vero, era solo una fantasia. Era solo una fantasia, niente di più. Non era a New York. New York era passata, New York era un ricordo. New York non esisteva più, New York non lo aveva ucciso. Era lì, al sicuro senza l’armatura. Non indossava l’armatura. Come poteva dirsi al sicuro, senza l’armatura? era al sicuro, non aveva bisogno dell’armatura certo che aveva bisogno dell’armatura, l’armatura era l’unica cosa in grado di proteggerlo, di tenere il pericolo lontano da sé, aveva bisogno dell’armatura, aveva bisogno di più armature, sempre più evolute, per contrastare chiunque gli si fosse parato davanti, per contrastare qualsiasi cosa, non era niente senza l’armatura, aveva bisogno dell’armatura, non poteva stare senza l’armatura era lì, era vivo, andava tutto bene, non sarebbe successo nulla, andava tutto bene l’armatura gli serviva l’armatura aveva bisogno dell’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura e i Chitauri ruggivano e si mescolavano alle nuvole e al fuoco, ai fulmini di Thor, alle frecce di Clint, alle grida animali di Hulk e il mondo si sbriciolava e andava in mille pezzi e c’era polvere e i Chitauri arrivavano e sfondavano la barriera del suono e latravano come cani e il missile, Stark, occupati del missile e lui cadeva precipitava nessuno veniva a salvarlo e franava e nessuno veniva a salvarlo e si schiantava a terra e l’impatto contro l’asfalto era un boato di fuoco nelle viscere e la morte era dolore la morte era niente Pepper e Pepper non sarebbe tornata e la morte era l’alcool aveva bisogno di alcool aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno di alcool aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno di Pepper aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura.
Sfiatando e boccheggiando, Stark premette i palmi sulle palpebre, spinse le orbite, annaspò alla ricerca di aria. Guaì una preghiera e raccolse le ginocchia al petto, la vastità dell’Universo oltre la soglia del portale che gli schiacciava il petto e gli strappava il respiro.

 

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.

 

Alexander Pierce si era versato del Bourbon e osservava Washington D.C. splendere, bianca, ai suoi piedi. Dalla cima del Triskelion dominava la città e il cielo che la circondava, i palazzi si genuflettevano al cospetto dell’imponente struttura dello S.H.I.E.L.D. e per Pierce era come trovarsi sulla cima di un faro di speranza.
Sorvola i tetti e guardava dentro le finestre dei propri concittadini, ascoltava le loro preghiere, si faceva portavoce delle loro speranze, temeva le loro paure e, le mani colme di potere e possibilità, agiva perché essi non fossero più terrorizzati dai mostri nascosti sotto il letto.
La verità era che l’arrivo di Thor, due anni prima, aveva cambiato il mondo in maniera che il mondo stesso ancora non era stato in grado di capire, tantomeno elaborare. Alieni, altre realtà, la gente doveva ancora arrendersi all’idea che quasi tutte le idee panzane di complottisti e ufologi non erano poi così folli come sembrava. L’umanità doveva ancora accettare l’idea di essere la razza dominante di un pulviscolo, quando al di sopra delle stelle vivevano divinità che evocavano fulmini con un martello o nuotavano balenottere aliene cariche di mostri poco raccomandabili e con cui era sconsigliato trovarsi faccia a faccia. Doveva capire che quanto avevano capito fino a quel momento, quanto avevano vissuto e studiato e creduto poteva benissimo essere gettato nella pattumiera o dato in pasto al trita carte.
La prospettiva di un cambio di mentalità così repentino era spaventoso e Alexander Pierce lo comprendeva. Per questo non si sarebbe dato per vinto. Le minacce si moltiplicavano, si nascondevano ovunque, sopra e sotto la terra, agli angoli delle strade, nell’aria che respiravano: la guardia doveva rimanere sempre alta, le armi costantemente cariche.
E, non fosse stato per quel ficcanaso di Stark, l’armamentario a bordo dell’Helicarrier sarebbe stato un’ottima pista di lancio. A ben pensarci, riconsiderò Pierce nell’appoggiare l’avambraccio destro sul vetro della grande finestra e portandosi il bicchiere di Bourbon alle labbra, il ficcanasare di Stark era stato un inimmaginato salto in avanti.
Costretti a ricominciare da zero con la difesa, un altro piano s’era formato, nuove direttive avevano surclassato le vecchie. Pistole e fucili potevano molto. Qualcosa di più grande poteva tutto.
Oh, un progetto caparbio e forse anche presuntuoso, Pierce ne era consapevole. Pur tuttavia, non vedeva perché la temerarietà costituisse un ostacolo. L’ordine mondiale non lo si poteva sacrificare in nome di una cosa tanto infinitesimale e soggettiva come la morale.
Che i benpensanti e i bigotti di ogni genere e forma alzassero la voce, gli gridassero contro. Pierce sapeva quale fosse l’obiettivo da raggiungere, il resto erano rumori di sottofondo da mettere a tacere premendo un semplice pulsante rosso.
«Ho appena convinto il Consiglio Mondiale Della Sicurezza a prorogare Insight» proferì Pierce e, non fosse stato per la spia luminosa sulla trasmittente che portava all’orecchio, si sarebbe detto stesse parlando da solo «Ora fa’ in modo di velocizzarne la messa in opera, intesi?»

 

Località Sconosciuta.
Cella di Sicurezza.
2011.

 
Marlowe aprì la porta della cella e fece segno al soldato che l’aveva accompagnato di chiudere e andarsene: voleva rimanere solo col soggetto, non avrebbe accettato intrusione alcuna. Il soldato provò a replicare, ma bastò l’assicurazione del dottore, il tono calmo e conciliante, perché egli si dicesse d’accordo e lo lasciasse ad un più privato colloquio.
Il soggetto, dal canto proprio, non aveva fatto una piega all’apparizione di Marlowe: era rimasto dalla parte opposta della cella, ritto dinanzi al centro della parete, il mento appena sollevato e gli occhi fissi all’angolo del soffitto. Teneva le mani sui fianchi, le dita appena flesse. Il dottore non aveva dubbi: gli avessero consegnato un paio di pantaloni dotati di cintura, il soggetto avrebbe stretto i polpastrelli alla fibbia, i gomiti piegati e le spalle un’unica linea retta che s’incrociava con la rigida perpendicolare del collo e della testa.
Invece, al soggetto non erano stati concessi non più di brache color kaki, una maglietta bianca e scarpe di tela. Classico, impersonale, il soggetto non aveva emesso verbo, né si era lamentato. A dire il vero, non aveva detto una sola parola dacché erano riusciti a bloccarlo nella sala medica.
Marlowe aveva visto il video più di una volta, ma ne sarebbe bastata una per capire come i sette soldati che gli avevano mandato contro avessero avuto la meglio su di lui in virtù della confusione e dello spaesamento creati dal risveglio inaspettato.
I sedativi non avevano avuto effetto, così come le parole che il medico capo aveva cercato invano di rivolgergli: sordo ad ogni spiegazione, il soggetto si era trincerato in un ostinato mutismo e non era più stato possibile instaurare con lui un dialogo di qualsiasi tipo. Gli occhi non dicevano nulla, la bocca era serrata e conficcata nel volto duro, marziale, i pugni costantemente chiusi, le spalle aguzze, pareva in procinto di attaccare. La rabbia di cui era preda si manifestava in improvvisi guizzi e sobbalzare di vene lungo gli avambracci, nei respiri violenti e nell’ossigeno aspirato dalle narici allargate. Non un tremito alla schiena, né ai polsi, non una bestemmia, non un grido di protesta.
Alcuni dell’equipe l’avevano considerata una resa inespressa e Marlowe, ricordando le loro espressioni esaltate, non poté reprimere un sorriso di scherno.
Stolti.
Il soggetto non si era arreso, al contrario era più combattivo che mai: studiava famelico il terreno, cercava falle e punti deboli, assorbiva ogni dettaglio dall’ambiente circostante, pronto ad usarlo contro di loro appena fosse stato possibile e quindi fuggire.
Una situazione così spinosa non permetteva test di alcun tipo ed era per questo che era stato chiesto l’intervento del dottore.
Rabbonirlo, ammansirlo, inserirlo nella realtà, chiarire chi fossero gli amici e chi i nemici, spingerlo sulla via della rettitudine e della comprensione, ecco quali erano gli “ordini” di Marlowe.
Il dottore aggiustò la cravatta nera indossata sopra una camicia bianca di ottima manifattura, passò le dita sul cranio del tutto calvo e la carnagione baluginò, balbettò di striature d’ottone sotto i neon incassati verticalmente alle congiunzioni delle pareti. Il soggetto non voltò la testa, eppure Marlowe fu in grado di intravedere il roteare veloce degli occhi dal riflesso metallico contro le mattonelle esagonali della cella.
Soddisfatto e fingendo noncuranza, il dottore s’avvicinò al tavolo al centro della stanza, afferrò lo schienale di una delle due seggiole e s’accomodò con tranquillità, pacato come un gatto ben pasciuto. Le labbra carnose modellarono un sorriso lezioso, serpentino, che non arrivò alle iridi d’ossidiana.
«Mi chiamo Edward Marlowe.» si presentò, poi, dopo aver fatto attendere il soggetto nel più completo silenzio.
Voleva renderlo non nervoso, ma guardingo, vigile. Voleva attirare la sua attenzione, voleva che l’altro si concentrasse totalmente, interamente sulle parole che stava plasmando per lui.
«Mi hanno chiamato dopo il tuo…» aggrottò la fronte, il tono divenne sardonico «Exploit con l’equipe medica. Ottimo lavoro con quelle guardie, hai dato alle Infermiere ben più di una frattura su cui lavorare.» appoggiò i polpastrelli sulla superficie del tavolo, le dita ben distanziate tra loro «Memorie riflesse?» si informò.
Il dottore inarcò le sopracciglia in un tacito invito a rispondere –Invito che, era certo, l’altro non avrebbe accolto: difatti, il soggetto continuò ostinatamente a guardare verso l’alto e non diede alcun segno di aver ascoltato. Non lo degnava di alcuna attenzione visibile, sebbene Marlowe non avesse dubbi sul fatto che l’inconscio pendesse già dalle sue labbra.
«Hai dato prova di grande preparazione, là dentro.» si complimentò il dottore, la voce ora un poco più carezzevole «Tuttavia, credo sia stato per te uno sforzo enorme, dopo tutto questo tempo. Non eri pronto, hai risposto per semplice istinto, senza pensare alle tue reali condizioni di salute. Devi essere piuttosto…stanco.»
La prima esca era stata lanciata e Marlowe notò con piacere come una ruga, seppur minima, fosse andata a disegnarsi tra le sopracciglia, proprio sopra la radice del naso.
«Decisamente stanco.» ripeté «Hai lottato e ti sei ribellato, ma sei sicuro fosse necessario? Sei sicuro ne valesse la pena? Orai hai perso ogni energia, sei sfibrato, sei stanco.» inclinò la testa su una spalla, socchiuse le palpebre «Dovresti riposarti» gli consigliò «Riposarti. Dormire. Sei così stanco…»
Il soggetto sbatté le palpebre, allargò le labbra quasi stesse annaspando e si portò la mano destra alla fronte, le dita a premere, massaggiare la pelle. Le spalle cascarono appena, qualcosa, in tutta il suo essere, cadde con un sospiro esausto.
Il dottore si adagiò meglio contro la sedia e sollevò la bocca, a mostrare i denti ed un ghigno tronfio di belva.
«C’è una branda, dalla parte opposta a cui sei tu, la vedi?» gli suggerì e il soggetto torse il collo, dando così a Marlowe la possibilità di vedere le iridi traslucide, annebbiate e opache. «Sei così stanco. Dovresti riposarti. Dormire.»
Il soggetto scosse il capo, forse in un blando tentativo di schiarirsi la testa, e ciò non fece che aumentare l’eccitazione del dottore, l’aspettativa del cacciatore dinanzi la preda sempre più vicina alla trappola ordita per catturarla.
«Non sono che pochi passi.» mormorò Marlowe e la voce era cadenzata, gradevole, una suadente cantilena di ninna nanna «Pochi passi. Solo pochi passi. Pochi passi per il riposo.»
Ed Edward continuò, sinuoso, ad insinuare sussurri nell’anima del soggetto. Non si sostituiva a lui, non prendeva il posto della sua coscienza, un simile comportamento avrebbe scatenato una repulsione immediata da parte dell’altro. Invece, agiva e mormorava perché fosse il soggetto stesso a dargli il permesso di entrare nella mente ottenebrata, più vuota ad ogni respiro, più immota ad ogni passo. La riempiva di suoni con cui contrastare un fangoso silenzio, ruscellava e gli cantava nello spirito, gli bisbigliava all’orecchio che la scelta di muoversi in direzione della branda era frutto della sua volontà, non una suggestione del dottore; che la stanchezza era una conseguenza ragionevole dell’attacco nella stanza medica; che sì, le palpebre si appesantivano davvero più si avvicinava ai cuscini ruvidi e alla coperta ammonticchiata sopra di essi; che era stanco, oh, così stanco, e presto avrebbe avuto il riposo di cui aveva bisogno, che avrebbe finalmente chiuso gli occhi e il sonno sarebbe giunto, doveva solo avanzare in direzione della branda e tutto sarebbe andato per il meglio, rilassarsi e avanzare, ecco, così. Passo dopo passo. Le palpebre pesanti. Il corpo pesante. Il respiro pesante. Rilassato. Assopito. Pesante. Passo. Dopo. Passo.
Marlowe congiunse i polpastrelli dinanzi al volto.
«Siediti sulla branda» flautò, mellifluo «Manca poco, davvero poco, siediti e presto chiuderai gli occhi e dormirai e tutto andrò per il meglio.» s’umettò il labbro superiore «Siediti sulla branda e rilassati.»
Le braccia lungo i fianchi, il corpo gravato da una stanchezza che faceva male al cuore solo a guardarla, il soggetto s’accomodò e appoggiò i palmi alle ginocchia. Il capo ciondolò in avanti. Le palpebre sbattevano sempre meno frequentemente, i lassi di tempo in cui le teneva chiuse erano di volta in volta più lunghi; l’iride vitrea s’intravedeva ormai appena in mezzo alle ciglia cascanti, i muscoli del volto molli, la bocca schiusa a liberare respiri profondi, di quella profondità di chi è sul punto di abbandonarsi completamente al sonno.
«Lasciati andare» il dottore soffiò le ultime parole verso di lui «Lasciati andare. Puoi chiedere gli occhi, ora. Chiudi gli occhi. Lasciati andare. Dormi
Il soggetto fece un ultimo, disperato tentativo di mantenersi sveglio.
Emise un roco mugolio di protesta, protese la schiena in avanti, spalancò le palpebre con sofferenza…Ma esse, traditrici, ricaddero subito a rendere vane volontà e ribellione. Le dita scivolarono sulle cosce, le spalle franarono all’indietro, la nuca affondò nei cuscini –La coscienza sprofondò in un baratro dove non esisteva nulla, se non la voce di Marlowe. Doveva non importava nulla, se non la voce di Marlowe. Dove nessuno avrebbe potuto dargli ordini, tranne la voce di Marlowe.
Edward sospirò, appagato, accavallò le gambe ed estrasse una sigaretta dall’interno della giacca scura. La impostò sul bocchino finemente lavorato e l’accese, aspirando una grossa boccata di fumo. Si godette ogni singolo istante dell’armonia creatasi tra i fili di nicotina a rigagnolare nei polmoni, ed il respiro ovattato del soggetto.
Finì con calma, non si mise fretta, mormorando di tanto in tanto un Così, bene, molto bene o Sempre più in profondità e compiacendosi dell’effetto che avevano le suggestioni sul volto dell’altro.
Quando, infine, ebbe schiacciato la sigaretta nel posacenere ed ebbe riposto il bocchino al proprio posto, Marlowe lisciò il petto della camicia e appoggiò le mani sul ventre.
«Parliamo, ora.» esordì «Raccontami tutto. Non nascondermi nulla dei tuoi ricordi.»

 

 

Brooklyn Heights, New York.
569 Leaman Place
2013

 

Il sangue sgroppò nel torace.
Fury pressò la mano contro lo sterno, piegò le spalle, sputò imprecazioni e saliva. Merda. Boccheggiò, ingoiò aria a grandi sorsate e le costole gemettero, scricchiolarono, graffiarono petto e polmoni. A costo di sembrare ripetitivo, il Direttore digrignò i denti e smozzicò, ancora e di nuovo, merda.
Serrò le dita viscose attorno al salvifico cilindretto laser che gli aveva permesso di aprirsi una via d’uscita sotto l’asfalto –Sotto l’asfalto e attraverso le fogne, aggiunse una voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico. Considerate le prospettive prese in esame dentro le lamiere contorte del SUV distrutto, Fury ringraziò i laboratori dello S.H.I.E.L.D. per avere ancora una voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico cui inveire contro. Tornato alla base, avrebbe dato un aumento di stipendio ai due capaci inglesini. L’Agente May aveva scelto bene nello stilare la lista dei componenti per la squadra da affiancare a Coulson, bisognava ammetterlo.
Nick emise un gemito di dolore mentre tentava di assumere una posizione più composta e meno da condannato a morte. Schiacciò il laser dentro una tasca del pastrano ed estrasse la chiavetta USB da un’altra: la mantenne sul palmo sinistro per alcuni secondi, prima di richiudere le dita a pugno e serrare le palpebre per un’ulteriore stilettata di dolore esplosa da tempia a tempia. Il sangue stava già coagulando e le ferite, le lacerazioni sulla fronte, allo zigomo prudevano e pizzicavano, impastando di rosso la visuale già minima dell’occhio buono.
Non seppe se considerare una fortuna o meno che Brooklyn Heights fosse deserta. Non era tardi, un’ora dopo il tramonto al massimo, eppure per le strade e dietro ai vetri delle case non si vedeva anima viva: paranoia o istinto che fosse, Nick si ritirò nell’ombra e si chiuse nelle pieghe del lungo soprabito nero, incassando la testa e appoggiando la spalla contro il muro lercio del vicolo in cui era riemerso.
Si aspettava una rappresaglia di qualche tipo, non era stupido e non era a capo dello S.H.I.E.L.D. per congiunzione astrale, ma di sicuro non se la aspettava così presto. E, soprattutto, non se la aspettava a New York.
Lo smacco irridente di Loki era nulla, adesso, di fronte alla prospettiva dell’Agenzia compromessa, della sicurezza mondiale fottuta.
Sapevano che aveva la chiavetta, sapevano cosa c’era dentro e sapevano e di sicuro non gli avrebbero permesso di decriptare quei file.
Lo avevano seguito e gli avevano spedito contro un soldato non meglio identificato, ma la cui sola vista, nel mezzo dei frammenti di vetro e dietro al rigurgito fumoso dell’esplosione, aveva fatto capire a Fury come non fosse un mercenario esaltato, disposto a tutto e del tutto privo di disciplina e qualsivoglia abilità, o conoscenza, tattica.
Un dannato killer, ecco cos’era, un dannato killer con una dannatissima mira ed una dannatissima precisione per cui lo stesso Barton si sarebbe morso le mani, fosse stato ancora nel giro dello S.H.I.E.L.D. e non si fosse dato all’eremitismo penitente.
L’essersi salvato dall’assalto in pieno centro a Manhattan non era un’assicurazione sulla vita, ma soltanto un paio di chance in più di consegnare la chiavetta ad Hendrick e portare il marcio a galla. Peccato che Hendrick non si fosse ancora fatto vedere e Brooklyn Heights non desse segno di essere abitata: al Direttore pareva di essere in un maledetto film dell’orrore. La cosa che più lo disturbava non era tanto il contesto, quanto la consapevolezza di non essere lui ad avere il telecomando dalla parte del manico. Se c’era qualcuno, al momento, in grado di decidere fra acceso e spento, fra On e Off era il simpatico killer di cui sopra.
Fantastico. Oh, ma non si sarebbe arreso. Fury non era tipo da farsi fregare e non era uomo da morire neanche se lo ammazzavano. Peccato che la gente avesse la pessima abitudine di pretendere una prova tangibile dell’ultimo fatto.
Reprimendo uno spasimo, Nick nascose la chiavetta, afferrò il cellulare e digitò velocemente alcune cifre, seguite da un’unica parola.
Maria stava lavorando secondo la direttiva Ombra Profonda e, per eccezionale che fosse, non poteva occuparsi proprio di tutto. Troppe informazioni, poi, sarebbero state deleterie in caso di sfascio, di arresto e conseguente interrogatorio.
Le persone di cui Fury si fidava erano in numero di eseguo, ma ad esse il Direttore avrebbe affidato se non la vita perlomeno qualche arto –Che poi, era esattamente quello che stava facendo. Delle tre cui aveva appena inviato il messaggio, due, dopo averlo ricevuto, avrebbero agito oltre ogni ragionevole dubbio. Riguardo alla terza…
Un dolore lancinante al centro esatto della fronte. Un lampo improvviso, una deflagrazione bianca che lasciò Nick inebetito per una manciata di secondi. Poi la sensazione di avere il naso ed il mento caldi, stranamente ed inspiegabilmente caldi, e così, fulminee, le dita e le mani.
Fury abbassò l’occhio appannato e si chiese per quale accidenti di motivo ci fosse del sangue sullo schermo. Le ginocchia cedettero e il corpo piombò in avanti.
Dietro la nuca, diede mostra di sé un perfetto foro circolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

Ringrazio quelle sante donne di Alley e Naima ~

   
 
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