11.
Well, this is our last embrace,
Must I dream and always see your
face?
Non capisco se sia più
grande il disgusto, la paura o il dolore.
Eppure, i miei occhi non
riescono a staccarsi dall’orrida immagine di fronte a me.
Grace, il suo volto
perfetto, il suo sorriso, completamente deformati, la mascella
riversata da un
lato, rotta, il volto completamente insanguinato, esattamente come i
capelli,
uno occhio gonfio e nero, ormai chiuso.
- Ci siamo Jimmy. –
sussurra, ma senza muovere le labbra ormai diventate viola, io che
prendo a
tremare – Ora sei pronto. Chiudi gli occhi.
- Grace?
- Sì?
- Tutto questo. – mi
ritrovo a piangere e a fremere, un bambino impaurito abbandonato in una
città
sconosciuta – Quello che vedo e vivo, è vero?
Sorride, alzando l’angolo
della bocca in cui l’integrità della mascella non
è stata compromessa, in un
ghigno che mette i brividi.
- Chiudi gli occhi, Jim.
E lo faccio.
*
L’aria mi riempie i
polmoni, pura. Sul volto e le palpebre chiuse, avverto il calore tipico
del
sole primaverile, mentre il suono della pioggia incessante è
sostituito da un
lieve cinguettio, la durezza dell’asfalto dalla dolcezza e il
profumo dell’erba
fresca.
- Grace?
- Puoi aprire gli occhi,
James. – consiglia teneramente, leggendomi nel pensiero.
- Ho paura.
- Allora siamo in due. –
ride – Ma dobbiamo alzarci. Coraggio.
Ammesso che ne abbia
ancora. Eppure sento che non ho nulla da perdere, nulla da temere
ormai. Ho
guardato il fondo dritto negli occhi, trovandolo in quelli di Grace.
Riapro i
miei. Sta volta, sorrido.
- Ciao Grace.
- Ciao Jim – il suo labbro
superiore che i solleva, finte rughe attorno agli occhi sorridenti.
Mi alzo, proprio come mi
aveva consigliato, sentendomi improvvisamente agile. Mi guardo intorno
e,
nonostante il sole cocente, un brivido corre lungo la schiena.
- Sembra inquietante, vero?
– chiede, apparendo accanto a me.
- Già. – sussurro,
deglutendo pesantemente alla vista di una serie di croci di marmo
piantate nel
terreno e nell’erba – Dobbiamo proprio? –
faccio, guardandola con fare
supplichevole.
- Sì, James. – sospira,
una nota amara attraversa la sua voce.
- Perché? – chiedo,
tornando a guardarmi intorno con un filo d’ansia.
Non risponde.
Semplicemente si avvicina, mi prende per mano, guardandomi
intensamente. Una
luce limpida, che traspare purezza, le attraversa le iridi celesti. Il
cielo
d’Agosto. Ad avercela accanto per una vita intera, potrei
guardarlo anche in
pieno inverno e sentirne il calore del sole che lo attraversa. Ma
Grace, che
mai mi aveva preso per mani, è lontana, lo sento.
È qui, ma in realtà è
distante miglia e miglia da me, mentre io sento come se una parte di me
sia
rimasta incollata all’asfalto umido di pioggia di New York,
lì dove, in un
giorno d’afa come questo, la mia Grace ha
perso tutto.
- Ti riferivi a quello,
vero? – dico, aggrottando la fronte.
Lei annuisce, si morde le
labbra, poi osserva le nostre mani congiunte.
- Però – continuo, la
voce che trema – Mi dicesti anche che avevi perso tutto per me. – continuo, i miei
occhi che saettano sul suo volto rimasto
impassibile – Cosa c’entro io? È
… è stato un incidente … io
…
- Abbracciami, Jim.
Il fiato si blocca.
- Cosa?
- Abbracciami. – fa lei,
quasi sull’orlo del pianto, tendendo la mano libera dalla mia.
La fisso, cercando il
perché nei suoi occhi, ma ciò che trovo
è solo un’infinita tristezza.
- Cristo, va bene! –
impreco, e in un lampo faccio passare una mano dietro la sua schiena
esile e
perfetta, il mio petto che si scontra contro il suo seno, mentre il mio
naso
affonda tra i suoi capelli. Il tempo di richiudere gli occhi ed ecco
che torno
a vedere la cinquantaseiesima strada, immersa in una serata senza
pioggia,
dipinta con colori vividi, psichedelici, tipici di un sogno o di un
ricordo fin
troppo vivido.
Il ricordo di Grace. Coi suoi occhi, in lontananza, vedo il Drake
stagliarsi in tutta la sua altezza. Dentro al cuore, in ogni fibra del
mio (suo) essere, sento vibrare la
felicità,
mista al fremito dell’attesa e al morso allo stomaco della
paura. Ad ogni passo
che mi avvicina al Drake, le mani (Dio,
così sottili, così sudate) tremano.
Poi, un’auto tirata a lucido, accosta
esattamente all’entrata.
- Sono loro!
Le mie labbra sussurrano
con una voce che non è la mia, la voce di Grace carica di
emozione, la stessa
che mi fa (le fa) tremare le gambe,
scaldandole fin nell’intimo, quello che fino a quel momento
era rimasto
nascosto, segreto, lontano da qualsiasi carezza o piacere. Poi, si
muovono, i
piedi che abbandonano il marciapiede e incontrano l’asfalto.
Dall’altra parte
della strada, una copia di me stesso, sudato e sfiancato, esce
dall’auto,
guardandosi intorno.
Il cuore, dentro il petto
di Grace, ha sussultato.
Un altro passo, le auto
che sfrecciano veloci.
- Jimmy!
– urla Grace, ma il me stesso dall’altra parte
della strada
ha appena avvertito le braccia di Lori attorno al suo collo e scambiato
la voce
di una sconosciuta per quella della ragazzina che all’epoca
si sbatteva senza
pudore.
- Jim …
- sussurro, la voce di Grace che fuoriesce debole, pregna di
delusione e incertezza. Poi, i pensieri di Grace si annebbiano, la sua
immaginazione che prende il posto della lucidità, ricreando
la sensazione
perfetta delle mie mani sulla sua pelle, il desiderio di donare la
propria
innocenza ad un’artista pericoloso e praticamente folle, che
del suo gesto ne
avrebbe fatto l’ennesimo trofeo da ricordare e lucidare per
il resto dei suoi
giorni.
Ed ecco la
determinazione, un sorriso determinato sulle labbra,
l’intenzione di far sapere
a quella meraviglia di ragazzo che al mondo esiste una ragazzina che lo
desidera più chiunque altro al mondo, più di
quella che lo sta volgarmente
baciando nel bel mezzo della strada, quella che Grace ha preso ad
attraversare
con sicurezza.
Poi, il dolore. Una lama
che attraversa il fianco destro.
Il buio.
Una lacrima che supera le
ciglia.
- Grace! – mi ritrovo ad
urlare. Apro gli occhi e trovo le mie braccia che stringono le spalle
minute
della ragazzina che un giorno, per un desiderio fino ad allora
immaginato, ha
perso la vita. Ha perso tutto. Per me.
- Grace, piccola mia. –
piango, tento di respirare, le dita che si perdono tra i suoi capelli,
le
labbra che li attraversano con devozione – Perché?
Si scosta per guardarmi
in faccia, il volto rigato di lacrime.
- Doveva essere così,
almeno credo. – sussurra – Ma non ti sei ancora
chiesto una cosa.
Alla sua affermazione
sento la mente aprirsi, la realtà che mi si presenta
così com’è.
- Sono morto? – sussurro,
un groppo alla gola, le mie mani che si aggrappano a lei come
disperate. Grace
non risponde, il suo volto che si avvicina dolcemente al mio, il suo
naso che
sfiora il mio, i suoi occhi piantati nei miei.
- Non ancora, Jim. –
sorride – Non ancora. – abbassa gli occhi,
mordendosi un labbro – Ma devi
decidere tu. In questo momento sei su una barella, diretto al Roosevelt
Hospital, con Robert che ti chiede di restare. Col mondo che ti chiede
di
restare. Con tua figlia ignara di tutto e che ti aspetta, stretta al
suo
orsacchiotto, accoccolata nel suo lettino.
Alle sue parole, una
nuova ondata di pianto mi contorce il viso e mi scuote il petto di
singhiozzi
forti come pugni.
- Io sono qui solo per
farti capire cosa stai lasciando. – dice, carezzandomi una
guancia – Ciò che ti
stai facendo. – sospira, il suo respiro che mi sfiora le
guance – Io ti venivo
incontro quel giorno e, credimi, ti avrei amato. Molto più
di me stessa. –
confessa, le labbra che tremano – Ma ho fatto molto di
più. Quando sono
arrivata su quell’asfalto, ero felice. Il mio ultimo pensiero
sei stato tu. Morivo per te e non
m’importava
niente, nemmeno del desiderio di averti che mi divorava, della
felicità che mi
avrebbe dato il solo incontrarti dopo tanto tempo passato a sognarti,
ad
ascoltarti parlare attraverso la tua chitarra e le tue canzoni.
- Eri solo una ragazzina.
– sussurro, portandomi la sua testa al petto, cullandola come
per farla
addormentare – Avevi tutta la vita davanti e l’hai
persa per nulla.
- Questo dipende solo da
te.
Allontano il suo capo dal
mio cuore, tornando a guardarla negli occhi.
- Avevo un conto in
sospeso, Jim. Finalmente l’ho chiuso. Ma se tu superi questa
soglia, se invece
di tornare indietro, resti qui, seguirti sarà stato inutile.
Ed io sarò morta
per una persona vigliacca, capace di buttarsi via, restando fermamente
convinta
di essere onnipotente.
- A volte credo che
starei meglio qui. – e quasi a conferma, ritorna forte il
profumo inebriante
dell’erba fresa, misto a quello di qualche fiore nascosto.
Lei fa di no con la
testa, guardandomi severa.
- Accompagnami a casa,
Jim. – fa, per poi aggrapparsi al mio braccio – E
poi torna indietro. –
aggiunge, mentre ci muoviamo tra le varie tombe, arrivando al cospetto
di una
che ha una croce bianca come la neve. Al suo fianco, cresce una
splendida
pianta di rose bianche.
- Qui? – chiedo balbettando,
tremando al pensiero che il suo corpo si trovi sotto i miei piedi.
- Sì. – sospira, un
accenno di sorriso sulle labbra – Jim?
- Sì?
Non dice nulla,
semplicemente vola tra le mie braccia che si chiudono attorno alla sua
vita
esile. Il mio cuore sussulta,
incapace di restare tranquillo.
Ti avrei amata
anch’io Grace. Profondamente.
- L’ultimo addio, vero? –
sussurro tra i suoi capelli, le mie labbra che trovano la sua fronte
fredda.
Sembra più concreta, ora, come se la sua anima stesse
recuperando la consistenza
del corpo sepolto sottoterra.
Lei annuisce, mordendosi
le labbra. Poi torna a guardarmi negli occhi. Di nuovo quella
malinconia, quell’amore
e quella vita mancati, tutto concentrato nelle sue iridi.
- Baciami Jimmy. –
chiede, quasi mi prega – Baciami e poi torna indietro.
Non me lo faccio
ripetere. Non ora.
Così, le mie dita
scivolano dietro la sua nuca, le mie labbra che si combaciano
perfettamente con
le sue, dolci. Se un giorno dovessero chiedermi che sapore ha la morte,
risponderei
che è dolce. Un miele proibito. Ti basta un bacio per
restarne sazio in eterno.
E così la pelle di Grace, il suo sapore, si fanno spazio
dentro di me fino a
farmi sentire completo, al limite, come se la mia anima riuscisse a
stento a
stare nei confini del mio corpo.
- Abbi cura di te. –
sussurra sulle mie labbra.
- Te lo prometto.
- Lo spero. – sorride –
Ho visto la tua vita, la prima volta che ti ho toccato a Birmingham.
Sarai più
bello di quanto tu possa immaginare, James.
- Lo dici per
convincermi? – rido, carezzando la sua guancia con un pollice.
Lei fa di no con la
testa, sorridendo – Chiudi gli occhi James.
Appoggio la fronte contro
la sua e lo faccio.
- Chiudi gli occhi e poi …
- un vento improvviso, una luce fredda che supera la barriera delle
palpebre,
un urlo – Svegliati, Jimmy!
*
Oakland, California, 24
Luglio 1977
Mordo il filtro della
sigaretta per non farlo scivolare dalle labbra. Dall’ultima
volta che queste hanno
incontrato quelle di Grace sembra passata
un’eternità. Non l’ho vista
più,
abbandonata in un cimitero di New York, lontana come il giorno in cui
la
incontrerò di nuovo.
Il sole di Oakland
brucia. Non mancano i problemi, i soliti casini, ma è bello
rivedere gli altri
sorridere. Soprattutto Robert. Anche la sua espressione addolorata,
corrucciata
sopra i miei occhi sembra essere svanita, lasciata dentro
un’ambulanza a sirene
spiegate che mi portava al Roosevelt Hospital. Sorride, ammicca,
accanto a me è
di nuovo quel ragazzo spensierato che cantando sembra voler sedurre
ogni
singola cosa sulla faccia della terra.
Non riusciva a credere
alla mia storia, a quella di Grace (oh,
sì, l’incidente!), mi guardava come se
fossi impazzito. Lo ha pensato, lo
so. E come ogni buon amico, ha aspettato che mi passasse
“questa fissa”, che mi
liberassi delle mie fantasie.
Leggi troppi libri
strani, disse.
Peccato che l’immaginazione
non abbia niente a che vedere con ciò che ho vissuto.
Ma ho lasciato correre,
non pretendevo che qualcuno capisse, anche se ogni tanto mi sembrava
che Bonzo,
guardandomi da lontano, provasse una certa compassione, nascosta alla
perfezione col suo fare burbero, ma simpatico, e la sua inesistente
sobrietà.
Lui l’ha
vista, mi ripetevo, forse perché beve come
una spugna.
Fortunatamente, però,
sembra non l’abbia vista più.
Non ho mai avuto coraggio
di confessare, a nessuno di loro, che sono riuscito a vedere Grace solo
perché
in parte ero ormai andato via, proprio come lei. Una piccola omissione,
per
renderli più tranquilli, sicuri che la faccenda della magia
nera, dell’occultismo
o dell’eroina non mi abbia definitivamente fottuto il
cervello.
Eppure, ogni tanto
(mentre suono, sorrido, mi svesto e mi metto a letto), sento una morsa
allo
stomaco. E so perché.
La promessa fatta a Grace
è stata la più grande che io abbia formulato.
Non l’ho mantenuta.
Prenditi cura di te.
Troppo difficile,
impegnativo, soprattutto in tour, quando la stanchezza è
più forte e risveglia
i demoni.
- Oakland! Goodnight!
La sera scende sulla
California. Le ombre si rialzano.
*
New Orleans, Louisiana,
26 Luglio
1977
- Cristo, quella fottuta
cella puzzava di merda. – dice John, portando la sigaretta
alla bocca, mentre
restiamo davanti all’entrata del French Quarter Hotel, in
attesa che gli altri,
restati indietro, arrivino alla reception.
- Ma non m’importa. Se
l’è
meritato, quel figlio di puttana. – fa, sputando fuori una
boccata di fumo
- Non si toccano i
bambini. Mai.
- Ha avuto quello che si
merita. – annuisco, ficcandomi le mani nelle tasche dei
pantaloni e voltandomi
verso la strada. Un’auto si avvicina e John e Robert ne
escono sorridenti.
- Ho bisogno di una
dormita! – fa Robert sbadigliando, lasciandomi una pacca
sulla spalla, per poi
dirigersi verso l’ascensore, ma la voce della receptionist lo
ferma.
- Mr. Plant?
- Sì?
- Una telefonata per lei,
dall’Inghilterra. – fa lei con tono monocorde
– Dicono che è importante.
- Arrivo. – e mentre si
avvicina, mi volto a guardare distrattamente la strada e subito sembra
che un
pugno mi sia arrivato allo stomaco.
Grace.
Oltre la strada, sul
marciapiede di fronte.
In piedi, un’espressione
di disgusto.
- Cosa? – sussurro tra me
e me.
- Cosa?
– la voce di Robert, dietro di me, dall’altra parte
della
stanza.
Poi, il suo urlo.
Straziante.
I miei occhi abbandonano
quelli di Grace e quando mi volto, Bonzo sta già
abbracciando le spalle di
Robert, inginocchiato, il telefono che pende dal tavolo della
reception, in
lacrime, i pugni conficcati nel ventre.
No. Non può
essere. Karac.
Sento gli occhi
allargarsi, il corpo irrigidirsi.
- Perché?
Perché??? –
urla, la sua voce che rimbalza sulle pareti, prima che lui si rialzi,
diretto
alla porta. Verso di me.
- Robert, calmati, fermo!
– esclama Bonzo, stringendogli le spalle.
- Il mio bambino! Fatemi
andare dal mio bambino o vi ammazzo tutti quant’è
vero Iddio! – urla, divincolandosi, ma inutilmente
– E tu! – fa,
puntandomi un indice tremante di rabbia e disperazione
– Pagherai per quello che hai
fatto,
Page, e prima o poi te ne andrai all’inferno, figlio di
puttana!
Mi ritrovo a piangere,
incapace di dire qualsiasi cosa.
Vorrei morire, penso, e riporterei
indietro quell’angelo
se potessi, Percy!
Ma lo tengo per me,
mentre Robert mi volta le larghe spalle scosse dal pianto. Sembra
così fragile
visto da qui.
Nemmeno mi accorgo che
John è venuto da me.
- Jim?
Mi volto a guardarlo in
silenzio. Nei suoi occhi vedo il mio riflesso. Un folle.
- Andiamo. – fa,
passandomi un braccio attorno alle spalle – Nessuno ce
l’ha con te.
- Robert … - è tutto
ciò
che riesco a dire.
- Capirà. – sospira
–
Dagli tempo.
Già, tempo.
*
Clewer, Windsor, alba del 26
settembre 1980
Anche il tempo se n’è andato.
Angolo della matta.
T__T
Ciao.
Il finale è questo. Ed è una merda, I know.
Volevo provare a dare un senso a tutta questa storia che potrebbe essere ri-intitolata "Come Jimmy Page sia convinto che sia stata colpa sua".
La verità è che la colpa non è di nessuno, ma ho provato ad immedesimarmi in Jimmy e credo che tutte queste paranoie mi sarebbero venute.
Arrivata alla fine, non so nemmeno io chi sia Grace.
Volevo che fosse il fantasma di una ragazza innamorata che però aveva un conto in sospeso.
La verità è che ho reso così ignoto il suo personaggio, che nemmeno io saprei più definirlo.
Ergo, dategli voi un senso, qualsiasi esso sia.
Per quanto riguarda ciò che dice Bonzo riguardo "la cella" ovviamente mi riferisco all'episodio del figlioletto di Grant avvenuto ad Oakland. Per chi non sa a cosa mi riferisco, trova tutto su Wiki. Mentre, le parole che sputa fuori Robert, vengono da un'antica leggenda, secondo la quale lui avrebbe accusato Jimmy della morte di Karac per via della sua mania della magia nera. Quanto ciò sia vero, non lo so, ma ho voluto comunque inserirlo.
Arrivati alla fine di questa storia (anche se manca l'epilogo) spero davvero che il tentativo di scrivere "qualcosa di diverso" mi sia riuscito. Ero partita con l'intenzione di creare una favola romantica, di quelle che si chiudono con un sorriso, ma la realtà dei fatti ha avuto il sopravvento, trasformandola in un incubo paranormale, di quelli in cui ti risvegli in lacrime.
Niente, non so davvero cosa dire. Avevo tutt'altro finale in mente all'inizio ed ora mi ritrovo a leggere le ultime parole col groppo alla gola.
Spero non mi detesterete, ecco.
Vi aspetto al prossimo capitolo.
Lì vi ringrazierò tutti quanti a dovere e vi fornirò un'elenco completo della "colonna sonora", che puntualmente non s'incula (♥) nessuno, anche sotto il titolo ho voluto lasciarvi il titolo-link della canzone a cui si ispira questo capitolo.
Vi abbraccio forte, sia che stiate piangendo o vi stiate pentendo amaramente di aver incontrato questa storia.
A presto,
Franny