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Autore: DK in a Madow    18/05/2014    4 recensioni
[Completa!]
...mi obbligo a guardare il cielo ormai buio sotto il manto della notte, ricacciando indietro le lacrime che spingono tra le ciglia. Non un bagliore, nessun segno, solo un grande buco nero sopra le nostre teste.
Il cielo delle città non ha stelle.

*
- Ah sì? – chiedo, ostentando una sicurezza che non posseggo solo per non mostrarmi vile di fronte alla sua sfacciataggine – Ma tu chi sei?
Abbassa la testa, come presa alla sprovvista, le sue mani che afferrano la gonna del vestito stringendola nervosamente. Poi i suoi occhi tornano sui miei, così vivi, così irreali.
- Grace. – risponde in un soffio.
Accenno a un sorriso senza denti, le labbra serrate che danno forma ad un ghigno.
- Strano. – dico, dando un tiro alla mia sigaretta – Da come parli si direbbe il contrario.

*
Imparare a vedere con gli occhi del cuore e scoprire che la paura d'amare è grande quanto quella di morire, così forte da impazzire, ma capace di farti rinascere.
Una breve long nata quasi dal nulla e che è cresciuta tra le note di The Rain Song.
Come sempre, nessuna pretesa.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jimmy Page, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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11.

Well, this is our last embrace,
Must I dream and always see your face?

 Jeff Buckley - Last Goodbye

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non capisco se sia più grande il disgusto, la paura o il dolore.

Eppure, i miei occhi non riescono a staccarsi dall’orrida immagine di fronte a me. Grace, il suo volto perfetto, il suo sorriso, completamente deformati, la mascella riversata da un lato, rotta, il volto completamente insanguinato, esattamente come i capelli, uno occhio gonfio e nero, ormai chiuso.

- Ci siamo Jimmy. – sussurra, ma senza muovere le labbra ormai diventate viola, io che prendo a tremare – Ora sei pronto. Chiudi gli occhi.

- Grace?

- Sì?

- Tutto questo. – mi ritrovo a piangere e a fremere, un bambino impaurito abbandonato in una città sconosciuta – Quello che vedo e vivo, è vero?

Sorride, alzando l’angolo della bocca in cui l’integrità della mascella non è stata compromessa, in un ghigno che mette i brividi.

- Chiudi gli occhi, Jim.

E lo faccio.

 

 

*

 

 

L’aria mi riempie i polmoni, pura. Sul volto e le palpebre chiuse, avverto il calore tipico del sole primaverile, mentre il suono della pioggia incessante è sostituito da un lieve cinguettio, la durezza dell’asfalto dalla dolcezza e il profumo dell’erba fresca.

- Grace?

- Puoi aprire gli occhi, James. – consiglia teneramente, leggendomi nel pensiero.

- Ho paura.

- Allora siamo in due. – ride – Ma dobbiamo alzarci. Coraggio.

Ammesso che ne abbia ancora. Eppure sento che non ho nulla da perdere, nulla da temere ormai. Ho guardato il fondo dritto negli occhi, trovandolo in quelli di Grace. Riapro i miei. Sta volta, sorrido.

- Ciao Grace.

- Ciao Jim – il suo labbro superiore che i solleva, finte rughe attorno agli occhi sorridenti.

Mi alzo, proprio come mi aveva consigliato, sentendomi improvvisamente agile. Mi guardo intorno e, nonostante il sole cocente, un brivido corre lungo la schiena.

- Sembra inquietante, vero? – chiede, apparendo accanto a me.

- Già. – sussurro, deglutendo pesantemente alla vista di una serie di croci di marmo piantate nel terreno e nell’erba – Dobbiamo proprio? – faccio, guardandola con fare supplichevole.

- Sì, James. – sospira, una nota amara attraversa la sua voce.

- Perché? – chiedo, tornando a guardarmi intorno con un filo d’ansia.

Non risponde. Semplicemente si avvicina, mi prende per mano, guardandomi intensamente. Una luce limpida, che traspare purezza, le attraversa le iridi celesti. Il cielo d’Agosto. Ad avercela accanto per una vita intera, potrei guardarlo anche in pieno inverno e sentirne il calore del sole che lo attraversa. Ma Grace, che mai mi aveva preso per mani, è lontana, lo sento. È qui, ma in realtà è distante miglia e miglia da me, mentre io sento come se una parte di me sia rimasta incollata all’asfalto umido di pioggia di New York, lì dove, in un giorno d’afa come questo, la mia Grace ha perso tutto.

- Ti riferivi a quello, vero? – dico, aggrottando la fronte.

Lei annuisce, si morde le labbra, poi osserva le nostre mani congiunte.

- Però – continuo, la voce che trema – Mi dicesti anche che avevi perso tutto per me. – continuo, i miei occhi che saettano sul suo volto rimasto impassibile – Cosa c’entro io? È … è stato un incidente … io …

- Abbracciami, Jim.

Il fiato si blocca.

- Cosa?

- Abbracciami. – fa lei, quasi sull’orlo del pianto, tendendo la mano libera dalla mia.

La fisso, cercando il perché nei suoi occhi, ma ciò che trovo è solo un’infinita tristezza.

- Cristo, va bene! – impreco, e in un lampo faccio passare una mano dietro la sua schiena esile e perfetta, il mio petto che si scontra contro il suo seno, mentre il mio naso affonda tra i suoi capelli. Il tempo di richiudere gli occhi ed ecco che torno a vedere la cinquantaseiesima strada, immersa in una serata senza pioggia, dipinta con colori vividi, psichedelici, tipici di un sogno o di un ricordo fin troppo vivido.

Il ricordo di Grace. Coi suoi occhi, in lontananza, vedo il Drake stagliarsi in tutta la sua altezza. Dentro al cuore, in ogni fibra del mio (suo) essere, sento vibrare la felicità, mista al fremito dell’attesa e al morso allo stomaco della paura. Ad ogni passo che mi avvicina al Drake, le mani (Dio, così sottili, così sudate) tremano. Poi, un’auto tirata a lucido, accosta esattamente all’entrata.

- Sono loro!

Le mie labbra sussurrano con una voce che non è la mia, la voce di Grace carica di emozione, la stessa che mi fa (le fa) tremare le gambe, scaldandole fin nell’intimo, quello che fino a quel momento era rimasto nascosto, segreto, lontano da qualsiasi carezza o piacere. Poi, si muovono, i piedi che abbandonano il marciapiede e incontrano l’asfalto. Dall’altra parte della strada, una copia di me stesso, sudato e sfiancato, esce dall’auto, guardandosi intorno.

Il cuore, dentro il petto di Grace, ha sussultato.

Un altro passo, le auto che sfrecciano veloci.

- Jimmy! – urla Grace, ma il me stesso dall’altra parte della strada ha appena avvertito le braccia di Lori attorno al suo collo e scambiato la voce di una sconosciuta per quella della ragazzina che all’epoca si sbatteva senza pudore.

- Jim … - sussurro, la voce di Grace che fuoriesce debole, pregna di delusione e incertezza. Poi, i pensieri di Grace si annebbiano, la sua immaginazione che prende il posto della lucidità, ricreando la sensazione perfetta delle mie mani sulla sua pelle, il desiderio di donare la propria innocenza ad un’artista pericoloso e praticamente folle, che del suo gesto ne avrebbe fatto l’ennesimo trofeo da ricordare e lucidare per il resto dei suoi giorni.

Ed ecco la determinazione, un sorriso determinato sulle labbra, l’intenzione di far sapere a quella meraviglia di ragazzo che al mondo esiste una ragazzina che lo desidera più chiunque altro al mondo, più di quella che lo sta volgarmente baciando nel bel mezzo della strada, quella che Grace ha preso ad attraversare con sicurezza.

Poi, il dolore. Una lama che attraversa il fianco destro.

Il buio.

Una lacrima che supera le ciglia.

- Grace! – mi ritrovo ad urlare. Apro gli occhi e trovo le mie braccia che stringono le spalle minute della ragazzina che un giorno, per un desiderio fino ad allora immaginato, ha perso la vita. Ha perso tutto. Per me.

- Grace, piccola mia. – piango, tento di respirare, le dita che si perdono tra i suoi capelli, le labbra che li attraversano con devozione – Perché?

Si scosta per guardarmi in faccia, il volto rigato di lacrime.

- Doveva essere così, almeno credo. – sussurra – Ma non ti sei ancora chiesto una cosa.

Alla sua affermazione sento la mente aprirsi, la realtà che mi si presenta così com’è.

- Sono morto? – sussurro, un groppo alla gola, le mie mani che si aggrappano a lei come disperate. Grace non risponde, il suo volto che si avvicina dolcemente al mio, il suo naso che sfiora il mio, i suoi occhi piantati nei miei.

- Non ancora, Jim. – sorride – Non ancora. – abbassa gli occhi, mordendosi un labbro – Ma devi decidere tu. In questo momento sei su una barella, diretto al Roosevelt Hospital, con Robert che ti chiede di restare. Col mondo che ti chiede di restare. Con tua figlia ignara di tutto e che ti aspetta, stretta al suo orsacchiotto, accoccolata nel suo lettino.

Alle sue parole, una nuova ondata di pianto mi contorce il viso e mi scuote il petto di singhiozzi forti come pugni.

- Io sono qui solo per farti capire cosa stai lasciando. – dice, carezzandomi una guancia – Ciò che ti stai facendo. – sospira, il suo respiro che mi sfiora le guance – Io ti venivo incontro quel giorno e, credimi, ti avrei amato. Molto più di me stessa. – confessa, le labbra che tremano – Ma ho fatto molto di più. Quando sono arrivata su quell’asfalto, ero felice. Il mio ultimo pensiero sei stato tu. Morivo per te e non m’importava niente, nemmeno del desiderio di averti che mi divorava, della felicità che mi avrebbe dato il solo incontrarti dopo tanto tempo passato a sognarti, ad ascoltarti parlare attraverso la tua chitarra e le tue canzoni.

- Eri solo una ragazzina. – sussurro, portandomi la sua testa al petto, cullandola come per farla addormentare – Avevi tutta la vita davanti e l’hai persa per nulla.

- Questo dipende solo da te.

Allontano il suo capo dal mio cuore, tornando a guardarla negli occhi.

- Avevo un conto in sospeso, Jim. Finalmente l’ho chiuso. Ma se tu superi questa soglia, se invece di tornare indietro, resti qui, seguirti sarà stato inutile. Ed io sarò morta per una persona vigliacca, capace di buttarsi via, restando fermamente convinta di essere onnipotente.

- A volte credo che starei meglio qui. – e quasi a conferma, ritorna forte il profumo inebriante dell’erba fresa, misto a quello di qualche fiore nascosto. Lei fa di no con la testa, guardandomi severa.

- Accompagnami a casa, Jim. – fa, per poi aggrapparsi al mio braccio – E poi torna indietro. – aggiunge, mentre ci muoviamo tra le varie tombe, arrivando al cospetto di una che ha una croce bianca come la neve. Al suo fianco, cresce una splendida pianta di rose bianche.

- Qui? – chiedo balbettando, tremando al pensiero che il suo corpo si trovi sotto i miei piedi.

- Sì. – sospira, un accenno di sorriso sulle labbra – Jim?

- Sì?

Non dice nulla, semplicemente vola tra le mie braccia che si chiudono attorno alla sua vita esile. Il mio cuore sussulta, incapace di restare tranquillo.

Ti avrei amata anch’io Grace. Profondamente.

- L’ultimo addio, vero? – sussurro tra i suoi capelli, le mie labbra che trovano la sua fronte fredda. Sembra più concreta, ora, come se la sua anima stesse recuperando la consistenza del corpo sepolto sottoterra.

Lei annuisce, mordendosi le labbra. Poi torna a guardarmi negli occhi. Di nuovo quella malinconia, quell’amore e quella vita mancati, tutto concentrato nelle sue iridi.

- Baciami Jimmy. – chiede, quasi mi prega – Baciami e poi torna indietro.

Non me lo faccio ripetere. Non ora.

Così, le mie dita scivolano dietro la sua nuca, le mie labbra che si combaciano perfettamente con le sue, dolci. Se un giorno dovessero chiedermi che sapore ha la morte, risponderei che è dolce. Un miele proibito. Ti basta un bacio per restarne sazio in eterno. E così la pelle di Grace, il suo sapore, si fanno spazio dentro di me fino a farmi sentire completo, al limite, come se la mia anima riuscisse a stento a stare nei confini del mio corpo.

- Abbi cura di te. – sussurra sulle mie labbra.

- Te lo prometto.

- Lo spero. – sorride – Ho visto la tua vita, la prima volta che ti ho toccato a Birmingham. Sarai più bello di quanto tu possa immaginare, James.

- Lo dici per convincermi? – rido, carezzando la sua guancia con un pollice.

Lei fa di no con la testa, sorridendo – Chiudi gli occhi James.

Appoggio la fronte contro la sua e lo faccio.

- Chiudi gli occhi e poi … - un vento improvviso, una luce fredda che supera la barriera delle palpebre, un urlo – Svegliati, Jimmy!

 

 

*

 

 

Oakland, California, 24 Luglio 1977

 

Mordo il filtro della sigaretta per non farlo scivolare dalle labbra. Dall’ultima volta che queste hanno incontrato quelle di Grace sembra passata un’eternità. Non l’ho vista più, abbandonata in un cimitero di New York, lontana come il giorno in cui la incontrerò di nuovo.

Il sole di Oakland brucia. Non mancano i problemi, i soliti casini, ma è bello rivedere gli altri sorridere. Soprattutto Robert. Anche la sua espressione addolorata, corrucciata sopra i miei occhi sembra essere svanita, lasciata dentro un’ambulanza a sirene spiegate che mi portava al Roosevelt Hospital. Sorride, ammicca, accanto a me è di nuovo quel ragazzo spensierato che cantando sembra voler sedurre ogni singola cosa sulla faccia della terra.

Non riusciva a credere alla mia storia, a quella di Grace (oh, sì, l’incidente!), mi guardava come se fossi impazzito. Lo ha pensato, lo so. E come ogni buon amico, ha aspettato che mi passasse “questa fissa”, che mi liberassi delle mie fantasie.

Leggi troppi libri strani, disse.

Peccato che l’immaginazione non abbia niente a che vedere con ciò che ho vissuto.

Ma ho lasciato correre, non pretendevo che qualcuno capisse, anche se ogni tanto mi sembrava che Bonzo, guardandomi da lontano, provasse una certa compassione, nascosta alla perfezione col suo fare burbero, ma simpatico, e la sua inesistente sobrietà.

Lui l’ha vista, mi ripetevo, forse perché beve come una spugna.

Fortunatamente, però, sembra non l’abbia vista più.

Non ho mai avuto coraggio di confessare, a nessuno di loro, che sono riuscito a vedere Grace solo perché in parte ero ormai andato via, proprio come lei. Una piccola omissione, per renderli più tranquilli, sicuri che la faccenda della magia nera, dell’occultismo o dell’eroina non mi abbia definitivamente fottuto il cervello.

Eppure, ogni tanto (mentre suono, sorrido, mi svesto e mi metto a letto), sento una morsa allo stomaco. E so perché.

La promessa fatta a Grace è stata la più grande che io abbia formulato.

Non l’ho mantenuta.

Prenditi cura di te.

Troppo difficile, impegnativo, soprattutto in tour, quando la stanchezza è più forte e risveglia i demoni.

- Oakland! Goodnight!

La sera scende sulla California. Le ombre si rialzano.

 

 

*

 

 

New Orleans, Louisiana, 26 Luglio 1977

 

- Cristo, quella fottuta cella puzzava di merda. – dice John, portando la sigaretta alla bocca, mentre restiamo davanti all’entrata del French Quarter Hotel, in attesa che gli altri, restati indietro, arrivino alla reception.

- Ma non m’importa. Se l’è meritato, quel figlio di puttana. – fa, sputando fuori una boccata di fumo -  Non si toccano i bambini. Mai.

- Ha avuto quello che si merita. – annuisco, ficcandomi le mani nelle tasche dei pantaloni e voltandomi verso la strada. Un’auto si avvicina e John e Robert ne escono sorridenti.

- Ho bisogno di una dormita! – fa Robert sbadigliando, lasciandomi una pacca sulla spalla, per poi dirigersi verso l’ascensore, ma la voce della receptionist lo ferma.

- Mr. Plant?

- Sì?

- Una telefonata per lei, dall’Inghilterra. – fa lei con tono monocorde – Dicono che è importante.

- Arrivo. – e mentre si avvicina, mi volto a guardare distrattamente la strada e subito sembra che un pugno mi sia arrivato allo stomaco.

Grace.

Oltre la strada, sul marciapiede di fronte.

In piedi, un’espressione di disgusto.

- Cosa? – sussurro tra me e me.

- Cosa? – la voce di Robert, dietro di me, dall’altra parte della stanza.

Poi, il suo urlo. Straziante.

I miei occhi abbandonano quelli di Grace e quando mi volto, Bonzo sta già abbracciando le spalle di Robert, inginocchiato, il telefono che pende dal tavolo della reception, in lacrime, i pugni conficcati nel ventre.

No. Non può essere. Karac.

Sento gli occhi allargarsi, il corpo irrigidirsi.

- Perché? Perché??? – urla, la sua voce che rimbalza sulle pareti, prima che lui si rialzi, diretto alla porta. Verso di me.

- Robert, calmati, fermo! – esclama Bonzo, stringendogli le spalle.

- Il mio bambino! Fatemi andare dal mio bambino o vi ammazzo tutti quant’è vero Iddio! – urla, divincolandosi, ma inutilmente – E tu! – fa, puntandomi un indice tremante di rabbia e disperazione – Pagherai per quello che hai fatto, Page, e prima o poi te ne andrai all’inferno, figlio di puttana!

Mi ritrovo a piangere, incapace di dire qualsiasi cosa.

Vorrei morire, penso, e riporterei indietro quell’angelo se potessi, Percy!

Ma lo tengo per me, mentre Robert mi volta le larghe spalle scosse dal pianto. Sembra così fragile visto da qui.

Nemmeno mi accorgo che John è venuto da me.

- Jim?

Mi volto a guardarlo in silenzio. Nei suoi occhi vedo il mio riflesso. Un folle.

- Andiamo. – fa, passandomi un braccio attorno alle spalle – Nessuno ce l’ha con te.

- Robert … - è tutto ciò che riesco a dire.

- Capirà. – sospira – Dagli tempo.

Già, tempo.

 

 

*

 

 

Clewer, Windsor, alba del 26 settembre 1980

 

Anche il tempo se n’è andato.


















Angolo della matta.
T__T
Ciao.
Il finale è questo. Ed è una merda, I know.
Volevo provare a dare un senso a tutta questa storia che potrebbe essere ri-intitolata "Come Jimmy Page sia convinto che sia stata colpa sua".
La verità è che la colpa non è di nessuno, ma ho provato ad immedesimarmi in Jimmy e credo che tutte queste paranoie mi sarebbero venute.
Arrivata alla fine, non so nemmeno io chi sia Grace.
Volevo che fosse il fantasma di una ragazza innamorata che però aveva un conto in sospeso.
La verità è che ho reso così ignoto il suo personaggio, che nemmeno io saprei più definirlo.
Ergo, dategli voi un senso, qualsiasi esso sia.
Per quanto riguarda ciò che dice Bonzo riguardo "la cella" ovviamente mi riferisco all'episodio del figlioletto di Grant avvenuto ad Oakland. Per chi non sa a cosa mi riferisco, trova tutto su Wiki. Mentre, le parole che sputa fuori Robert, vengono da un'antica leggenda, secondo la quale lui avrebbe accusato Jimmy della morte di Karac per via della sua mania della magia nera. Quanto ciò sia vero, non lo so, ma ho voluto comunque inserirlo.
Arrivati alla fine di questa storia (anche se manca l'epilogo) spero davvero che il tentativo di scrivere "qualcosa di diverso" mi sia riuscito. Ero partita con l'intenzione di creare una favola romantica, di quelle che si chiudono con un sorriso, ma la realtà dei fatti ha avuto il sopravvento, trasformandola in un incubo paranormale, di quelli in cui ti risvegli in lacrime.
Niente, non so davvero cosa dire. Avevo tutt'altro finale in mente all'inizio ed ora mi ritrovo a leggere le ultime parole col groppo alla gola.
Spero non mi detesterete, ecco.
Vi aspetto al prossimo capitolo.
Lì vi ringrazierò tutti quanti a dovere e vi fornirò un'elenco completo della "colonna sonora", che puntualmente non s'incula (♥) nessuno, anche sotto il titolo ho voluto lasciarvi il titolo-link della canzone a cui si ispira questo capitolo.
Vi abbraccio forte, sia che stiate piangendo o vi stiate pentendo amaramente di aver incontrato questa storia.
A presto,
Franny
   
 
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