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Autore: HuGmyShadoW    30/07/2008    3 recensioni
E' una vita davvero fantastica, quella dei Tokio Hotel... Fra concerti, interviste, passaggi da un albergo all'altro, non hanno quasi il momento di riposare. Ma ecco che un giorno, proprio a Bill Kaulitz càpita l'incontro più importante della sua vita, che da quel momento, non sarà più fantastica: sarà meravigliosa, unica ed inimmaginabile. Non mancheranno però gli intrighi, le cospirazioni, le passioni e le gelosie... Perchè la vita, in fondo, non è mai solo rose e fiori....
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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-E su!-.
-No!-.
-Ti prego!-.
-Nooo!-.
-Daaai!-.
-Per la centesima volta, no!-.
-Che ti costa?-.
-Bill, è una questione di principio, no!-.
-Vorresti dire che non lo faresti nemmeno per me?-.
Bill giunse le mani a preghiera e sbatté teneramente le ciglia. Era adorabile! Jade alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Sapeva di stare per arrendersi da un momento all’altro.
-Per favore...-.
La moretta digrignò i denti. No, il labbro tremolante no! A quello non poteva resistere!
-E va bene...-, sbuffò scocciata.
Il ragazzo si mise praticamente a saltellare come un folletto irlandese per tutto il fast food e dopo averle dato un lieve bacio sulla guancia trotterellò soddisfatto al tavolo con gli altri Tokio Hotel. Jade rimase a fissarlo trucemente, poi afferrò un vassoio e si mise in coda ad una cassa. Un tabellone colorato raffigurava chiaramente tutti i tipi di hamburger presenti nel ristorante, e dietro un lungo bancone, una cassiera si affannava con panini e bibite e patatine fritte. Che lavoraccio! Servire clienti tutto il giorno, spesso di fretta e scorbutici, sudare sopra una friggitrice, vedere passarsi davanti tutto quel cibo, rimanendo poco a poco disgustata da tutto... Inclinò la testa di lato, riflettendo. No, lei non si vedeva proprio a...
-Buh!-.
Per poco la ragazza non fece volare via il vassoio.
-Bill! Porca... Mi hai fatto prendere un colpo! Che ci fai qua? Vai al tuo posto con gli altri, su!-, lo sgridò Jade con ancora il cuore in gola.
Bill tratteneva a stento le risate dietro una mano premuta sulla bocca e fissava in un modo così buffo sotto gli occhiali scuri la povera ragazza che alla fine perfino lei sorrise. Tornando serio, le si avvicinò.
-Mi sono dimenticato di dirti di chiedere anche il peluche! Ce n’è sempre uno nelle patatine, non vorrei facessero i furbi! Glielo chiedi, per piacere?-.
-Bill, è già tanto che tu mi faccia ordinare il menu per bimbi al tuo posto, non mettere a prova la mia pazienza, ok?-, sussurrò furiosamente la ragazza. Commise l’errore di voltarsi e quel dolce sguardo nocciola le liquefece la mente in un nanosecondo. Incatenandola a quel caramello ipnotico, lui appoggiò una guancia alla sua spalla rotonda, abbracciandola da dietro, e cominciò a morderle sensualmente la pelle più tenera sul collo. Jade chiuse gli occhi, rabbrividendo.
-Bill... C’è un mucchio di gente...-.
-Chiedi anche il peluche, va bene? Un piccolo... tenero... peluche... per me...-.  
La voglia della ragazza di saltargli addosso era incontenibile, ma miracolosamente riuscì a scuotere debolmente la testa e nascondersi il più possibile dietro un grosso signore prima di lei in coda.
Bill rise piano dietro il suo orecchio, facendola andare praticamente in estasi.
-Io dico che glielo chiederai...-.
-No...-.
-Vedremo...-.
-No, no...-.
All’improvviso, il sussurro caldo di Bill le carezzò l’orecchio.
-Attenta, non distrarti...-.
Quel tocco delicato le venne improvvisamente a mancare e Jade si risvegliò di soprassalto da quel dolce limbo. Era arrivata alla cassa, e la ragazza dietro il bancone la guardava con gli occhi fuori dalle orbite. Immediatamente, diventò color peperone, intonata perfettamente col vassoio che le tremava in mano.
Dietro di lei, più lontano, una risata familiare. Jade si voltò e fissò con odio Bill seduto placidamente al tavolo che la salutava con la manina, un’aureola di plastica in testa.
-Desidera...?-, chiese la cassiera un po’ titubante, trascinandola alla realtà.
-Ehm...-. La ragazza esitava. Poi, il ghigno di Bill nella sua mente le diede improvvisamente coraggio. Deglutì. –Vorrei... il menu per bambini, grazie-.
La donna dietro il bancone la guardò, chiedendosi se la stesse prendendo in giro o no. Alla fine scrollò le spalle e cominciò a trafficare con pane e carne.
Jade sospirò. Era andata.
La cassiera le porse un sacchettino.   
-C’è anche il giocattolo dentro, vero?-, domandò.
-S-sì, certo...-, rispose la donna, sempre più sbalordita. – Sono 5.20 euro...-.
La ragazza pagò velocemente.
-Grazie e arrivederci!-, salutò allontanandosi. La donna fece appena in tempo ad agitare flebilmente una mano che subito un uomo in giacca e cravatta, chiaramente di fretta, le si parò davanti con la sua prepotente ordinazione.

-Ce ne hai messo, eh?-.
Jade si sedette in malo modo al tavolo e con le orecchie fumanti lanciò al ragazzo al suo fianco il vassoio, rischiando di farlo cadere.  
-Non dire niente, non so cosa potrei farti...-, disse a denti stretti cominciando a scartare il suo panino vegetariano.
Bill sghignazzò mettendosi in bocca una patatina oliata e fumante.
-Addirittura? Devo aver paura? Senti, facciamo così, avvertimi un po’ prima, fammi uno squillo, così mi preparo, ok?-.
Jade gli tirò un pizzicotto sul braccio.
-Ahia!-.
-Oh, scusa! Dovevo avvertirti anche di questo? Mi sembravi pronto...-.
-Vuoi la guerra?-.
E inevitabilmente scoppiò una battaglia all’ultimo ketchup. Pezzi di patatine e semi di sesamo volavano da tutte le parti, centrando la testa pelata di un signore sulla sinistra o il bicchiere pieno di una ragazza troppo truccata dietro di loro.
E in mezzo a tutto quel salato, spiccavano come neve su un foglio nero quei piccoli dolci baci rappacificatori di scuse e rivincita.

*

“Che palle...”.
Tom era adagiato rigidamente su un bitorzoluto cuscino bianco a braccia incrociate. Il suo sguardo vagava prigioniero oltre la finestra chiusa. Seguendo con gli occhi una nuvoletta passare spensierata si grattò il braccio: la flebo gli dava incredibilmente fastidio.
Si era svegliato quella notte, solo e in un luogo sconosciuto, ed era andato a vomitare anche l’anima. Si sentiva di merda, debole e affamato. I dottori però gli avevano assolutamente proibito di ingerire alcunché, e così lui se ne stava con lo stomaco brontolante ad aspettare... Ma aspettare cosa? Suo fratello e gli altri non si erano fatti vedere per tutto il giorno, non gli erano nemmeno rimasti accanto durante la notte. In realtà, Tom sapeva che il mattino dopo avevano un’intervista, ma se non avesse dato la colpa a qualcuno si sarebbe messo ad urlare per la frustrazione. Abbandonò la testa e chiuse gli occhi. Odiava quel posto. Le pareti bianche, i lamenti in ogni stanza, quell’odore di alcol impregnato in tutto gli davano la nausea. Non poteva uscire, doveva farsi sempre un miliardo di controlli, non poteva mangiare... Eh no, adesso basta!
Il fiero leone nel suo petto ruggì e diede una zampata al suo orgoglio.
Gettò lontano le coperte e atterrò sul pavimento ghiacciato. Si strappò con rabbia la flebo dalla carne e marciò nel piccolo bagno collegato alla sua stanza trascinandosi dietro i jeans e la maglia. In pochi minuti si cambiò. Ormai, non sarebbe più tornato indietro.

Il corridoio era deserto. Tom diede una rapida occhiata a destra e a sinistra, poi uscì e si chiuse la porta cigolante alle spalle. Probabilmente era la pausa pranzo. Il più silenzioso possibile, sfrecciò fra stanza chiuse e aperte, vuote o piene, ostentando un’indifferenza quasi reale, salutando qualche vecchia signora intenta a fare la calza e calcandosi il cappello in testa quando vedeva qualche lembo di camice bianco.
Ecco l’uscita, ecco la sua libertà. Tom era attento, vigile. Era tutto troppo facile, troppo semplice. Eppure, le porte a vetri si separarono placidamente al suo passaggio e nessuno lo afferrò per le braccia tentando di riportarlo in quel carcere al disinfettante.
L’ampio parcheggio gli si aprì davanti. Bene, tutto quello che gli serviva era un mezzo. Prese a girare fra tutte quelle auto allineate, vecchie e nuove, che popolavano quella strana metropoli di metallo.
All’improvviso, una macchina dal muso familiare, parcheggiata di traverso su tre spazi, attirò la sua attenzione. Trattenne il respiro.
-Cillaaa!-.
Se avesse potuto, l’auto avrebbe fatto i fanali e scodinzolata alla vista del suo padrone.
Il ragazzo barcollò verso la parte anteriore della sua amata e le diede delle pacchette affettuose sul cofano lustro.
-Amore mio! Che coincidenza! Che ci fai qua?-.
Un flash. Nella sua semi-incoscienza ricordava di aver sentito il morbido dondolio di sedili profumanti di nuovo sotto di lui, prima di arrivare in ospedale. E così lo avevano portato là con la sua Cilla... Un pensiero lo colpì forte come un pestone sull’alluce. Si frugò freneticamente in tutte le tasche. No, non c’erano.
-Scheisse!-.
Gli avevano fottuto le chiavi. E adesso come se ne tornava in albergo?
Per la rabbia prese a girare attorno all’auto, meditando e strofinandosi la piccola ferita sul braccio dovuta alla flebo. Il suo sguardo precipitò sul parafango posteriore. Qualcosa cadde e si ruppe dentro di lui. Una scheggia gli si conficcò in gola, non riusciva più a parlare.
-L-la... m-mia ma-a-acchina...-.
Con un dito tremante sfiorò l’ammaccatura più che evidente che deturpava la sua creatura.
-Cosa ti hanno fatto...-.
Ricacciò indietro le lacrime e strinse i pugni. Una vena prese a pulsare sul suo collo.
Accecato dalla furia, alzò le braccia verso il cielo e prese a sbraitare:
-Bill, maledetto bastardo, ovunque tu sia, giuro che non appena torneremo a casa brucerò il tuo fottuto beautycase e le tue dannate matite! È una promessaaaa!-.
Un’altra nuvoletta veleggiò sopra il tetto dell’ospedale, scandalizzata da quel giovane coi rasta, in quel parcheggio. Ben presto lo sorpassò, cancellandolo automaticamente dai suoi candidi pensieri. Si rivolse al sole, invece, assaporandone il frizzante calore.
Era una bella, tranquilla giornata di Dicembre.


    
   
 
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