Quello che
gli occhi vogliono vedere
Severus
Piton odiava profondamente le città babbane. Odiava le automobili puzzolenti e
rumorose, il ciarlare delle donne -non che quello delle streghe fosse meno
fastidioso- gli uomini che si avviavano impettiti al loro posto di lavoro. Nonostante
quella in cui si trovava fosse soltanto una piccola cittadina, con le villette
tutte uguali che si susseguivano incorniciando la strada e non una caotica e
affollata metropoli, non riusciva comunque a reprimere il proprio disgusto. Era
più forte di lui, avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi, in quel momento,
nel suo tranquillo e soprattutto deserto laboratorio di Pozioni, sprofondato
nei sotterranei del castello di Hogwarts. Ma naturalmente non era possibile, il
desiderio che lui si recasse lì era stato espresso nientemeno che da Albus
Silente in persona, e Severus Piton non era così sciocco da non assecondare il
vecchio mago. Almeno per il momento. Dopotutto, la sua posizione era ancora
troppo precaria, non poteva permettersi di venir meno a un ordine, erano
trascorsi solamente quattro anni dalla notte in cui…
Severus si costrinse a concentrare la propria
attenzione sulla strada che doveva percorrere. Aveva ormai dolorosamente
imparato a non far volgere i propri pensieri in una certa direzione. Tutto
quello che ne avrebbe ricavato sarebbe stato sofferenza, e quel genere di
sofferenza era inutile. Fine a se stessa. E poi, gli piaceva illudersi di
riuscire a non pensarci. Così come gli piaceva illudersi che la sua obbedienza
a Silente fosse dovuta esclusivamente al bisogno di mantenere salda la propria
posizione, al proprio tornaconto. Non al senso di ammirazione e gratitudine che
tentava con tutte le forze di reprimere, ma che era sempre lì, appena sotto la
superficie, non visibile ma impossibile da cancellare.
Ma tutto
ciò non aveva importanza. Qualunque fosse il motivo che lo spingesse a
rispettare il volere di Albus Silente, quello che contava era che adesso Severus
Piton si trovava a Little Whinging, nel Surrey, ed era davvero l’ultimo posto nel
quale avrebbe voluto trascorrere uno dei suoi pomeriggi estivi. Digrignò i
denti al ricordo delle parole di Albus e allo scintillio divertito dei suoi
occhi azzurri.
Mi farebbe piacere che tu andassi a vedere come sta il
nostro caro ragazzo, Severus. Vorrei avere sue notizie.
Di certo,
Albus sapeva bene come impartire un ordine senza farlo sembrare tale.
Il nostro caro ragazzo.
E come vuoi che stia, Albus? Come un caro, piccolo
principe, amato e vezzeggiato fino alla nausea.
Con una
smorfia, Severus scorse finalmente la sua meta, il numero 4 di Privet Drive. Una
villetta esattamente identica alle altre, col suo giardinetto ben tenuto e l’auto
posteggiata nel vialetto.
Mi viene da vomitare.
Ovviamente,
non aveva alcuna intenzione di rivelare la sua presenza, né ai babbani che
abitavano quella casa né tantomeno al piccolo principino Potter. No, avrebbe
dato soltanto un’occhiata veloce, giusto per poter riferire ad Albus che il suo
piccolo eroe non poteva stare meglio, e avrebbe immediatamente levato le tende
per far ritorno al suo laboratorio solitario.
Con
cautela, estrasse la bacchetta e utilizzò un incantesimo di disillusione su se
stesso. Quindi si avvicinò ulteriormente alla casa.
Come mi sono ridotto. Sbirciare dalla finestra le case
babbane.
Anche l’interno
della casa era assolutamente ordinario, ogni oggetto sembrava urlare babbano, agli occhi di Severus. Sul tappeto
del salotto, seduto sulle gambe tozze e grassocce, un bambino giocava
rumorosamente con strani aggeggi elettronici, facendo un chiasso infernale. Eppure,
l’uomo spaparanzato sul divano davanti alla tv, altrettanto grasso, non
sembrava infastidito, anzi di tanto in tanto spostava gli occhietti dallo
schermo per lanciare un’occhiata affettuosa a quel mocciosetto.
Evidentemente non è lui il nostro piccolo prezioso
eroe. Non è assolutamente un Potter.
Severus si guardò attorno, ma non c’era
traccia di altri bambini. Magari si trovava nella sua cameretta, sommerso di
giocattoli.
Non sembra proprio che a questi babbani manchi il
denaro.
Mentre l’umore
del giovane insegnante precipitava sempre di più, un’altra persona entrò nel
salotto di quella casa. Una persona che Severus sapeva avrebbe rischiato di
vedere, fin dal momento in cui aveva accettato di malavoglia di recarsi a
Privet Drive, ma che assieme al bambino Potter era l’ultima persona che avrebbe
desiderato trovarsi davanti. Senza nemmeno rendersene conto, dimentico dell’incantesimo
di disillusione e colto dall’irrazionale paura di essere visto, Severus si allontanò
di qualche passo dalla finestra che lo separava solo di qualche metro da
Petunia Evans.
Dursley. Petunia Dursley. Quel cognome non esiste più.
Non lo porta più nessuno.
Deglutire era
diventato improvvisamente faticoso. Aveva creduto, dopo tutto quel tempo, di
aver rimosso l’immagine della sorella di… lei,
dalla propria mente. Invece era esattamente come la ricordava. Magra, il volto
cavallino, la puzza sotto il naso, lo sguardo antipatico. Sempre pronta a
giudicare, a condannare.
Giudicare un bambino per i suoi vestiti malandati.
Condannare una sorella per la sua stupida invidia.
Fece ancora
un passo indietro. La proverbiale freddezza di Severus rischiava di vacillare
di fronte a quella donna, che rappresentava tutto un mondo di ricordi contro cui
il giovane uomo lottava giorno dopo giorno, perché non lo sopraffacessero
facendogli perdere per sempre quella parvenza di vita normale che faticosamente Albus Silente aveva costruito per lui.
Rischiava che
la collera prendesse il sopravvento.
Quella donna… ha fatto soffrire così tanto la mia…
lei.
Non devo pensare il suo nome. Non devo farlo. Fa
soltanto male.
Strinse i
pugni, mentre un’altra consapevolezza, ancora più dolorosa, si faceva strada
dentro di lui.
Posso davvero biasimare Petunia? Che diritto ho di
giudicarla, io che ho fatto soffrire così tanto sua sorella? L’ho messa in
secondo piano, ho ignorato i suoi consigli e le sue preghiere. L’ho insultata,
l’ho perduta. E l’ho uccisa.
Non direttamente. Ma le mie mani sono macchiate del
suo sangue. Irrimediabilmente.
Non aveva
alcun diritto di provare rabbia nei confronti di Petunia per il comportamento
che aveva avuto da bambina. Lui aveva colpe ben più gravi, dalle conseguenze
disastrose, e delle quali si era macchiato in un tempo in cui l’età non poteva
più essere considerata una giustificazione sufficiente.
Petunia era
stata una sorella degenere. Lui era un assassino.
E poi, la
donna stava facendo ammenda. Aveva accolto nella sua casa tutto quello che
rimaneva della sorella perduta. Allevava il suo bambino, come un figlio. O
perlomeno, così immaginava Severus. O così gli piaceva credere.
La voce
della donna, più matura e adulta rispetto all’ultima volta che aveva avuto la
possibilità di udirla, arrivò alle sue orecchie solo parzialmente attutita dal
vetro della finestra.
“Dobbiamo
andare, o faremo tardi, Vernon.”
“Certo,
tesoro.”
L’uomo si
alzò, tentò di lisciarsi addosso, con scarsi risultati, la camicia, prese per
mano il bambino che era balzato in piedi e si avviò verso la porta. Petunia li
seguì dopo pochi istanti, giusto il tempo di mettere in ordine i cuscini sul
divano.
Stanno uscendo. Ora verrà fuori Potter.
Eppure,
dell’altro bambino che abitava in quella casa ancora nessuna traccia. La famiglia
Dursley aprì la porta e, quando i tre si trovavano già sul vialetto, Petunia
disse, voltandosi verso l’ingresso dell’abitazione, con la voce che vibrava di
irritazione:
“Cerca di
non mandare a fuoco la casa, mentre siamo via!”
Severus rimase
interdetto per qualche secondo, mentre i tre Dursley chiudevano le portiere
dell’auto ed essa usciva in retromarcia dal vialetto del numero quattro. Ma recuperò
immediatamente il proprio contegno.
Evidentemente il moccioso è in punizione. Di certo
avrà ereditato l’indole ribelle e il disprezzo delle regole dal padre, e questi
inutili babbani non hanno il polso sufficientemente fermo per inculcare un po’
di disciplina a un piccolo arrogante Potter.
Sventato il
pericolo Dursley, Severus decise che dopotutto poteva anche concedersi di
entrare in quella casa. Del resto non aveva alcuna intenzione di trascorrere il
resto del pomeriggio a sbirciare dalla finestra nell’attesa che il moccioso si
degnasse di farsi vedere, meglio fare un piccolo sforzo, trovarlo e farla
finita. Un semplice Alohomora gli
permise di entrare, ma si fermò udendo un cigolio improvviso. Guardò in
direzione del rumore e vide aprirsi, dall’interno, la piccola porta del
ripostiglio sotto le scale, da dove fece capolino una testa nera e spettinata.
Potter. Che stupido posto per giocare a nascondino.
Il bambino,
completamente ignaro della presenza del mago che era ancora avvolto dall’incantesimo
di disillusione, dandogli le spalle si avviò verso il salotto, dove si lasciò
cadere sul divano, distruggendo in un secondo l’ordine che la zia aveva imposto
tra i cuscini. Cautamente, Severus lo seguì, osservando incuriosito i vestiti
deformi che indossava.
Ecco perché non voleva farsi vedere. Deve aver preso i
vestiti dello zio di nascosto. Razza di bambino ingrato. Identico a suo padre,
già a cinque anni.
Ormai semidisteso
sul divano, il bambino sembrava completamente assorbito nella contemplazione
dei giocattoli sparsi sul pavimento ai suoi piedi, ma Severus notò che non
allungò nemmeno una mano per prenderli. Avrebbe potuto sembrare un
comportamento strano, se non fosse che il cinico insegnante di Pozioni riuscì a
trovare una spiegazione plausibile, dal suo punto di vista, anche per quello.
Non vuole mettere in ordine. Probabilmente spera che
il cugino venga rimproverato dai genitori.
Improvvisamente
Severus cambiò idea rispetto a quello che era il suo piano iniziale. Fin da
quando aveva accettato di venire a Privet Drive aveva deciso che non si sarebbe
fatto vedere, men che meno dal bambino, ma adesso… perché non prendersi un po’
di divertimento? Era suo diritto, si trovava in quel luogo contro la sua
volontà, e quel bambino, di cui ancora non era riuscito a scorgere bene il
volto, dalla posizione in cui si trovava, somigliava così tanto a James Potter…
Sì,
meritava di divertirsi un po’ con lui.
Senza
pensarci due volte estrasse nuovamente la bacchetta, rimosse l’incantesimo di
Disillusione e si portò di fronte al bambino, che sollevò il volto spaventato e
lo guardò dritto negli occhi.
E com’era
prevedibile, per Severus il mondo smise di girare mentre il sole si oscurava e
l’aria attorno a lui e al bambino diveniva immobile e irrespirabile. E il nome
che non aveva nemmeno voluto pensare
durante quegli anni esplodeva nella sua mente con la potenza di un urlo
lacerante, l’urlo di una bestia agonizzante che invocava pietà, che invocava il
colpo di grazia e l’oblio dal dolore che soltanto la morte poteva concedere.
Lily.
Era lì.
Dopo tanti anni era di nuovo lì, davanti a lui, i suoi intensi occhi verdi lo
fissavano, ed erano esattamente come li ricordava. Meravigliosi. Profondi. Ma…
spaventati. Sgranati fino all’inverosimile.
L’urlo di
paura infantile del piccolo Harry riportò Severus alla realtà, strappandolo a
quell’istante così doloroso, angosciante e glorioso al tempo stesso, mentre il
bambino scattava in piedi e correva, malfermo sulle gambe, lontano da quella
improvvisa e minacciosa apparizione.
Severus ,
recuperato il proprio sangue freddo, afferrò il bambino per le braccia e
sollevandolo senza sforzo lo rimise a sedere sul divano, tenendolo fermo mentre
il piccolo si contorceva e gli occhi verdi si riempivano di lacrime.
“Chi- chi
sei? Sei un ladro, sei un mostro? Vattene via!”
Disperato,
non avendo idea di cosa fare e rimproverandosi mentalmente per il suo
comportamento sconsiderato, Severus diede uno scossone al piccolo e gli si
rivolse con tono autoritario:
“Calmati,
calmati Potter. Non sono un ladro.”
Un mostro sì, quello non posso negarlo. Né a te,
figlio di… Lily, né a me stesso.
Ormai in
collera con se stesso per la propria debolezza, Severus proseguì, mentre il
bambino aveva smesso di agitarsi e adesso lo fissava stupefatto:
“Non sono
qui per farti del male. Sono soltanto passato per vederti, e adesso sto andando
via.”
Harry spalancò
la bocca, la richiuse e poi finalmente riuscì a parlare:
“Come… come
fai a sapere che mi chiamo Potter? E perché sei venuto a vedermi? Che cosa vuoi
da me?”
Bella domanda. Ma è solo un bambino di cinque anni. Dimenticherà
presto di avermi visto.
“Questi non
sono affari tuoi, Potter. Non devi dire ai tuoi zii che sono stato qui, chiaro?
Io adesso me ne vado, e non tornerò mai più”.
Come spiegazione non sta proprio in piedi. Non se la
berrà mai. Non costringermi ad Obliviarti, moccioso.
“Non dirò
niente. Se la prenderebbero con me, direbbero che ho immaginato tutto.”
Stavolta fu
Severus a spalancare la bocca, sicuramente non si aspettava una risposta del
genere.
Ma che significa?
Di sicuro
non era niente di cui preoccuparsi. Ai bambini piaceva inventarsi delle strane
storie, e certo questo bambino, il figlio di James Potter, doveva provare un
piacere particolare nel trovarsi al centro dell’attenzione. Se anche avesse
parlato, i suoi zii avrebbero probabilmente ignorato le sue fantasie infantili,
ricoprendolo di attenzioni perché forse si comportava in quel modo perché si
sentiva trascurato.
Disgustoso.
Severus
lasciò andare la presa sulle braccia di Potter e si rimise in piedi, pronto a
lasciare quella casa, quando la manina del bambino si aggrappò alla sua veste
e, irritato, si voltò nella sua direzione. Gli occhi di Lily lo fissavano
esprimendo un desiderio, una speranza, talmente potente da essere straziante,
ma che Severus non poteva scorgere, troppo distratto dalla vista per lui
sconcertante di quegli occhi, proprio quegli
occhi, sul volto di un piccolo James Potter in miniatura. La vocina del
bimbo era debole e incerta.
“Ti hanno
mandato loro?”.
“Loro chi?”
il tono di Severus lasciava trapelare chiaramente la sua impazienza di
allontanarsi da quel luogo.
Un
debolissimo sussurro.
“Mamma e
papà”.
Mamma e papà.
Severus
fece un passo indietro, costringendo Harry a lasciare la presa, mentre una
smorfia contorceva il suo volto e invano cercava le parole per rispondere. Trovando
quelle meno appropriate.
“Che cosa
dici, moccioso? Loro sono morti.”
Harry abbassò
lo sguardo, mentre gli occhi si riempivano nuovamente di lacrime. Severus, con
passo spedito, si avviò verso la porta d’ingresso e lasciò quella casa il più
velocemente possibile, come se ciò potesse essere sufficiente a lasciarsi alle
spalle anche la morsa che gli serrava il petto.
Quella sera,
con tono annoiato, riferì a un Albus Silente stranamente serio che tutto andava
per il meglio e che il suo adorato Bambino Sopravvissuto non avrebbe potuto
essere più fortunato di quanto già non fosse. Albus lo fissò solo per qualche
istante, prima di distogliere lo sguardo e congedarlo con una freddezza che
poco gli si addiceva, senza offrirgli nemmeno uno dei suoi proverbiali
dolciumi.
FINE
Nota dell’autrice: spero vi
sia piaciuta questa semplice one-shot! Avevo in mente di scriverla già da un po’
(adoro scrivere di Harry e Severus) e finalmente ho trovato il tempo per farlo.
Se lascerete un cenno del vostro passaggio nello spazio recensioni, tra qualche
giorno troverete risposte/ringraziamenti sul forum, sul mio topic autore, a
questo link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=1286045
Nel
frattempo, per chi non le conoscesse e se vi piacciono le storie angst che trattano
di Harry e Severus, date un’occhiata alle mie long-fic “Sono qui con te”
(completa) e “Il Debito di un Mago” (ancora in corso). E grazie per essere
arrivati fin qui! Alla prossima. Sonsimo.