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Autore: blackhina    24/05/2014    4 recensioni
Il liceo è finito, ed è ora di andare al college. La vita autonoma sta per cominciare, con nuove scoperte e nuove amicizie; tutto avrà inizio in una nuova casa, con l'inseparabile compagna delle superiori e due nuovi coinquilini. Ma la calma e la tranquillità previste dalla protagonista saranno solo un sogno lontano, dato che il carattere di uno dei due ragazzi le renderà tutto più difficile, o almeno così lei crederà...
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Promessa da marinaio… avevo detto avrei pubblicato presto capitolo ed invece ne è passato più di prima.
Ma ora eccovi il nono capitolo!! Spero vivamente vi piaccia, anche perché ci ho messo molto impegno…
Vi anticipo che qui ci saranno due Pov: uno di Connie e uno di Khaled, e molto probabilmente sarà così anche nel prossimo capitolo.
Ora non mi resta che augurarvi buona lettura!



Pov Connie.

La ramanzina che mi beccai al posto di Erin fu lunga e dolorosa. Alla fine avrei voluto morsicarmi il braccio per staccarmelo, dato che ce l’avevo attaccato alla maniglia della porta sotto le grinfie di quel Jimmie, e scappare via. Ero sicura che i miei occhi stessero scivolando pericolosamente fuori dalle orbite. 
“ Ma come si fa a spengere questo qui?” 
Mi stavo esasperando. Dio, se non ce la facevo più.
Nella mia testa cominciò il concerto dei Beach Boys. Musica folk del piffero. Neanche a dire che ne ero appassionata, anzi li avevo sentiti solamente due volte alla radio. In effetti non sapevo perché si chiamassero così: forse erano ragazzi abbronzati e alti e belli, con la pelle bronzea e gli occhi color del mare.
Khaled…
Perché doveva farmi quel discorso, fermarmi e dirmi cose che, detto francamente, risultavano piuttosto squallide.
Mah. Io proprio non capivo il verso del mondo. Insomma, che cazzo, dovevamo avercela tutti con me? Mr. ‘Non lasciare in giro calzini, altrimenti li uso per frustare la tua sensibilità e strozzare le tue arterie, per poi sbarazzarmene’ provocava troppi danni, come distruggermi l’emotività o polverizzare i calzini. 
Lo odiavo. Lo avrei odiato. Ma alcuni dubbi mi rendevano impossibile esserne sicura.

Dopo una qualche eternità Jimmie finì di parlare. Solo che non avevo capito una mazza. Speravo vivamente che non mi dedicasse un interrogatorio. Lo speravo tanto tanto.
- Allora ciao, e salutami Erin- pronunciò il suo nome con una smorfia, anche se lui stesso era un’enorme, gigantesca smorfia umana. 
Mi sbattè letteralmente la porta in faccia. Non dovevo stargli troppo simpatica… tutta colpa di Erin. Si era decisamente colpa sua. Colpa dell’odio di Jimmie (non che me ne fregasse particolarmente), colpa della mia testardaggine che, tra l’altro, mi aveva resa nota, colpa della forzata convivenza con due perfetti sconosciuti, e colpa, soprattutto, di avermi costretto a conoscere fin troppo bene una grandissima faccia di culo che rende afosa l’aria in cui respira. 
Mi tremavano le mani. E non era un tremolio di freddo. No, non lo era affatto, proprio per nulla.
Non era colpa sua.
Sorrisi.
“Erin… ti do sempre la colpa” ridacchiai.
Ero rimasta davanti alla porta laccata di rosso, che detto francamente faceva proprio schifo. Mi scossi e mi girai, intenta a tornare a casa.
Passai fuori dal giardino, dalla strada più lunga: volevo riflettere, non so su cosa di preciso, ma volevo pensare e chiacchierare con me stessa… pazzia portami via.

Ero stata fuori per almeno quaranta minuti se non un’ora. 
La porta fece clock, cercai di fare il meno rumore possibile, ma quando sentii un urletto capii che erano ancora svegli.
- CONNIE! Vieni qui! C’è una sorpresina!!- che tono elettrizzato per una ragazza che appena calava il buio diventava una specie di tasso in pieno letargo.
“La mia piccola tassina” Sghignazzai. 
Attraversai il salotto, grattandomi l’anca, sollevando leggermente la maglia. Uno spiraglino freddo mi solleticò. Svoltai l’arco della cucina e mi gustai per un attimo Wayne che tentava di nascondere la ingozzata di nutella, senza però ottenere un gran risultato.
- Via… illustrami la sorpresina-
- Guarda che la so cogliere l’ironia quando la usi- era offesa.
- Mmm mmm. Su su che devo andare a leggere-
- Ecco a proposito di questo…- si spostò di poco, lasciando una completa visuale sul tavolo e su, oggetto misterioso, uno scatolone che sembrava piuttosto sofferente ai viaggi.
- Cos’è?- 
- La sorpresa- Erin sfoderò un bellissimo sorriso, e con la coda dell’occhio vidi Wayne sull’orlo dello sbavìo osservandola.
- Ma che bello! Cosa c’è esattamente dentro?-
- Libri- la parola pronunciata con il più nonchalance dell’ultimo mese mi colpì.
- Libri? LIBRI?! –
- Ah ah- 
Mi girai verso Wayne, che nel frattempo s’era ripreso dalla fulminante bellezza di mia sorella, rischiante di ridere come un pazzoide rinchiuso. 
- Way… ti fa così tanto ridere la sua passione da topo di biblioteca?- era abbastanza sconvolta, non era abituata alle persone estranee al mio amore per i libri.
- Way? Non dici sul serio, Erin? Prima Derry e ora Way?! Oddio, aiutatemi-
Ridemmo tutti insieme. Mi accorsi che Khaled non c’era, non era nel suo solito anfratto buio a spiare i miei movimenti. Sai cosa? Non me ne fragava nulla.
Tornai nell’ingresso, portandomi dietro lo scatolone dei libri.
- Erin i tuoi te li lascio in camera. Prendo i miei e poi scarico la tua roba sul tuo letto- stavo semi urlando, alle 10 di sera.
- Va bene!-
Salii le scale e andai in camera. La finestra era socchiusa: mia sorella mi conosceva, molto bene direi. 
Mi chiusi la porta dietro e sospirai. Ero stanca, ma volevo leggere. Quella sera avrei cominciato un nuovo libro. Poggiai lo scatolone sul letto e frugai delicatamente all’interno. Tirai fuori due pile di libri e le posai, con rimbalzo in allegato, accanto alla scatola. 
Cercando Alaska, John Green.
- Colpito e affondato- sussurrai.
Acchiappai la scatola ormai semi vuota, e la portai in camera di Erin. La appoggiai sul suo letto. 
Quella stanza era particolarmente calda, l’esatto opposto della mia. Era illuminata, cosa che la mia non era affatto se non dalla luna. Era anche colorata di sfumature accese, diversamente dalla tavolozza dei miei mobili.
Chiaro e scuro. Bianco e nero. Erin ed io. Dio quanto mi piaceva il nostro essere opposte.
Feci retro front e tornai in camera, chiudendomi nuovamente la porta dietro. Divisi le pile dei libri in pile più piccole, tanto per evitare il crollo definitivo della torre di Pisa.
Acchiappai Cercando Alaska, ma subito dopo lo riposai: mi sarei prima messa il pigiama. Mi cambiai alla svelta e finalmente mi diressi verso la finestra col libro in mano.
Spalancai le grandi ante di vetro e un venticello leggero e piacevole mi pizzicò dolcemente la pelle, scoperta sul decolté e sulle anche. 
Mi sedetti sul davanzale, tenendomi in equilibrio sul braccio e gamba destri. Distesi la gamba sinistra fino a toccare, con la pianta del piede lo stipite della finestra, appoggiandomi con la schiena su quello opposto. L’altra gamba la abbandonai dolcemente, facendola scivolare piano piano lungo il muro esterno.
Aprii il libro e cominciai a leggere.
“Alla mia famiglia:
Sydney Green, Mike Green e Hank Green
‘ Ce l’ho messa tutta per far bene’
(le ultime parole del Presidente Grover Cleveland)”
Altro sospiro.
Passai minuti, ore a leggere. Non sapevo come i miei occhi erano riusciti a rimanere aperti per così tanto tempo. Le palpebre si appesantivano e cadevano lentamente, coprendo più della metà della pupilla.
Ero arrivata ad un buon punto col libro, così decisi di smettere. Anzi, per dirla tutta non decisi: furono i miei occhi a cadere vittime del sonno.

Sentivo caldo. Oddio si. Lo sentivo davvero tanto.
Detta francamente, non sapevo esattamente in quale posizione fosse il mio corpo, sapevo soltanto che stavo bene e che il palmo della mia mano era appoggiato a qualcosa di morbido, caldo, resistente e…
… e vivo.
Porca di quella miseria.
Aprii gli occhi, quasi di scatto.
Anche la mia testa era appoggiata a qualcosa di uguale. Si muoveva. Mi muovevo. Ci stavamo muovendo.
Strinsi lentamente il pugno, chiudendo con esso anche un qualche materiale soffice e sottile. Stoffa. Si era decisamente stoffa. Cotone per l’esattezza, con un profumo di salsedine e aria notturna. 
Sollevai lo sguardo verso l’alto e osservai la figura che stava sopra di me, o meglio che mi teneva in braccio.
Ebbi un sussulto.
- Sei sveglia. Di solito dormi sempre quando ti metto a letto- un suo bisbiglio.
Di solito? Quando ti metto a letto?
- Khaled? Cosa… cosa fai?- avevo una voce assonnata.
Era lui che ogni sera mi metteva nel letto. Era lui quello che ogni sera mi prendeva in collo, appoggiando accuratamente il libro col suo segnalibro sul comodino e che evitava che io cascassi giù dal davanzale.
- Ti metto a letto. Mi sembrava di averlo già chiarito- nella penombra notturna lo vidi sorridere.
Il mio corpo si staccò dal suo, quando mi posò dolcemente sul letto, e il suo calore che fino a quel momento si era irradiato in me, scomparve.
Prima che la mia mano cascasse a peso morto sul letto, la feci correre sulla sua nuca e lo tirai a me prima che riuscisse a tirarsi su.
La sua testa sul mio petto. Il mio battito troppo veloce per essere quello di una mezza addormentata che troneggiava nel suo orecchio. La pelle d’oca.
Cosa stavo facendo? 
Impulsiva. Ero impulsiva, e mi piaceva.
- Non smetti mai di sorprendermi- altro bisbiglio.
- Se rovini tutto con le tue frasi da idiota, ti azzanno- sorrisi e lui se ne accorse.
- Ok, scricciola-
Scricciola. Scricciola. Scricciola.
Scricciola.
- Mi sei mancato- 
Aprì la bocca, ma lo zittii. Mi sentivo la padrona, una volta ogni tanto, e non avrei sprecato quella occasione.
Rimanemmo così per qualche minuto, fino a quando capii che la schiena di Khaled era troppo vertebrata per stare ancora in quella posizione. Lo liberai dalla mia stretta e lui si tirò su, facendo risuonare nella camera silenziosa un piccolo scrocchio della colonna vertebrale.
Alzai le coperte e mi ci infilai sotto: erano calde, e piacevoli.
Fece un quarto giro intorno al mio letto, rimanendo davanti a esso, con le spalle rivolte verso la porta e l’ipotetico sguardo nascosto dalle ombre su di me.
Stava aspettando.
- Rimani qui- la mia voce uscii delicata e leggera.
- Non ho mai avuto l’intenzione di andarmene- mi sorrise, ancora una volta.
Fece l’altro quarto di giro e raggiunse l’altra parte del letto. Si infilò sotto le coperte e si sfilò la maglia.
Dio, com’era bello. 
I miei occhi scivolarono lungo il suo corpo, scoperto dalle lenzuola mentre sistemava la maglia sull’attaccapanni.
Anche con le ombre notturne che lo oscuravano, riuscivo a distinguere ogni sua curva, ogni suo centimetro di pelle. 
Girò la testa e si soffermò, con le braccia a mezz’aria a fissarmi. Il mio sguardo incatenato al suo addome e al suo petto. 
Mi sentivo un’idiota. Una grandissima, fottutissima idiota.
- Ti è mancato anche questo?- 
- Si… cioè no! No. Assolutamente no- alzai di colpo lo sguardo. Dio, ma che imbecille. Annotai mentalmente di prendere lezioni di autocontrollo.
Si avvicinò lentamente, facendomi scivolare addosso il suo respiro caldo. 
Socchiusi la bocca, e continuai a immergermi e perdermi nei suoi occhi. 
Il suo petto sfiorò il mio e la sua mano scorse dietro la mia nuca. Un brivido saltellò velocemente lungo la spina dorsale, e riuscii ad intravedere la pelle d’oca sulle sue braccia.
Avvicinò il suo viso al mio, facendo sfiorare i nostri nasi. 
Socchiusi anche gli occhi. Spinsi la mia bocca verso la sua e le nostre labbra si scontrarono delicatamente.
La mano sulla mia nuca si strinse lentamente e chiuse in un pugno allentato qualche ciocca di capelli.
Abbassai del tutto le palpebre, lasciandomi trasportare dalle sue carezze. 
Sentii l’altro suo braccio avvolgermi la vita e stringermi ancora di più, facendomi sfuggire un piccolo gemito.
Lo sentii sorridere.
Mi baciò ancora e ancora e ancora. Portai le miei mani intorno al suo collo abbracciandolo, facendogli scorrere le labbra umide sulla mia gola.
Stringendomi, si girò e si tirò su a sedere, facendomi accomodare in mezzo alle sue gambe. Misi le mie a cavalcioni del suo busto e serrai di più la mia stretta.
Sentii qualcosa di diverso dal solito, qualcosa di più grande.
Un altro gemito corse fuori dalla mia gola. Stavolta era di piacere, oltre che di sorpresa.
Sorrise ancora emettendo un sospiro più caldo degli altri, che mi bruciò la pelle del collo.
Strinsi gli occhi. Era così piacevole stare con lui. Mi aveva fatto male, molto male, ma avevo voglia di dimenticare il dolore almeno per quella sera.
Sentii le sue dita scorrere lungo i fianchi alimentando ancora di più la pelle d’oca; agganciò i pantaloni del pigiama e li trascinò via, sfilandomeli e portandosi dietro anche gli slip.
Ero per metà nuda. Lo era anche lui e quella sua parte ancora coperta sembrava voler spuntare fuori e dire ‘Bum Baby!’
Avevo davvero pensato ad un pene parlante? 
Porca miseria, ero messa proprio male.
Sorrisi, divertita e la sua mano destra, che fino a quel momento era rimasta a solleticare la mia coscia denudata di quei pochi veli notturni, salì fino al seno.
Una vampata di vergogna mi si arrampicò dentro le vene, lungo tutto il corpo: mi stava toccando e io ero a sedere a cavalcioni sopra di lui e la sua prorompente zona bassa, con la mia completamente al vento, nel vero senso della parola, dato che la finestra era aperta.
Decisi che non m’importava nulla. Lo imposi alla mia parte logica e razionale. 
Lo baciai con impeto. La sua lingua bussò alla mia porta e la lasciai entrare. 
Lo sentii sfilarsi quello che rimaneva dell’abbigliamento di quel giorno. La tensione aumentava e sentivo il suo respiro uscire furioso dalla sua bocca.
Era eccitante. Dio se lo era.
Una fitta. Una fitta lunga, calda, erotica.
Mi accorsi solo in quel momento che stavo graffiando la sua schiena e che lui stava ringhiando sotto voce. Era sensuale, e mi piaceva quel verso emesso in preda all’eccitazione.
Cominciò a muoversi ed io con lui. Ad ogni movimento la fitta aumentava e diminuiva ad intermittenza e la furia dentro di me aumentava.
Il suo petto si gonfiava come le vele spinte dal vento. La sua stretta intorno ai miei seni.
Quella notte sarebbe stata il mio piccolo sogno, e avevo la piena intenzione di godermelo.

[…]

Pov Khaled.

Quella mattina fu particolarmente felice. Mi svegliai  con il busto avvolto dalla pelle fredda di Connie: era così piacevole. Il suo viso era diventato parte integrante del mio petto, e potevo tranquillamente dire che il mio capezzolo sinistro era andato a farsi benedire. 
Le sue dita si muovevano a scatti ogni tanto, probabilmente scosse dai sogni. Mi faceva il solletico, ed era maledettamente eccitante.
La mattina era tradizione che anche qualcosa di intimamente familiare si svegliasse. Ma quella mattina c’era Connie sopra di me, e farle trovare una sorpresa del genere appena sveglia, prima di andare a lezione, era decisamente una pessima idea, anche se mi attirava.
Le dita che fino a quel momento avevano solleticato la mia pelle nuda, si strinsero in un debole pugno.
Abbassai lo sguardo, verso il suo viso in fase di risveglio-stiracchiamento: portai le mie mani intorno alla sua testolina, ed infilai le dita nella chioma scompigliata.
Era buffa, ma incredibilmente meravigliosa.
Le vidi spuntare un enorme sorriso sotto gli occhi verdi scuri ancora assonnati. Il loro sguardo poco attento era del tutto dedicato al mio addome. 
- Ti amo…- la mia voce uscii sotto forma di sussurro.
Si stropicciò gli occhi. Poi biascicò un qualcosa:
- Cos… che hai detto?- sorrise di nuovo. La sua voce era bassa e confusa- ho le orecchie ovattate- ridacchiò.
- Nulla…- le sorrisi anch’io.
- ‘Giorno- si avvicinò al mio viso, appoggiando le mani sulle mie spalle e facendoci leva. Mi diede un morsetto sulla punta del naso, ma io volevo la sua bocca. La volevo da impazzire. 
- Buongiorno scricciola- la tirai verso le mie labbra e la baciai appassionatamente. Aveva quel sapore di mela e the, che le invadeva vestiti e pelle.
Avrei voluto rimanere lì, sul suo letto, con la finestra aperta e i suoi capelli che mi facevano il pizzicorino al petto, ma il college ci ordinava di andare a lezione, e noi dovevamo ubbidire.

[…]

Pov Connie.

Quella giornata era sfumata in poco tempo: durante medicina i miei pensieri erano rivolti a tutt’altro che al prof Foster. Avevamo deciso che quella notte in biblioteca doveva rimanere passato e che in nessun modo avrebbe influito sui voti, ma  saremmo rimasti amici.
Khaled quel giorno era in ospedale a fare tirocinio in sala operatoria. Fico. Era decisamente fico.
Erin, Wayne ed io eravamo fuori e stavamo attraversando i grandi prati ricoperti di brina di inizio inverno. Erin rischiò di scivolare. Anzi, fece un vero e proprio scivolone, battendo una tronata pazzesca. Non avrei voluto batterne anch’io una. Ma invece, quella fottutissima geniaccia di mia sorella, mi si aggrappò alla spalla e mi trascinò inesorabilmente giù con lei.
Addio natica destra, anche se dopotutto quella sinistra non era poi messa così bene. 
Arrivai al marciapiede con il fondoschiena dolorante. Wayne era piegato in due dalle risate da più o meno quaranta minuti, tempo necessario per andare al chioschetto delle bevande calde Pink’s Drinks, berci una cioccolata e partire alla volta di casa.
La risata dell’ormai ragazzo di mia sorella mi contagiò. Attaccai a sghignazzare sputacchiando e cercando di trattenermi: ero arrabbiata e dovevo fare l’arrabbiata.
Cominciai a correre verso il ciglio della strada, e misi il piede destro giù dal marciapiede, sulle strisce pedonali.
Sentivo le risatine di Erin alternate allo sbaciucchio con Wayne.
Mi girai in avanti e mi avviai a passo svelto, seguita dagli altri, verso l’altro lato della strada. 
Guardai attentamente prima a sinistra e poi a destra.
Sentii uno rumore acuto e trapanante, il rumore della gomma frenare e strusciare sull’asfalto gelato.
La mia testa si girò di scatto verso sinistra.
Avevo guardato attentamente, lo avevo fatto, e quella macchina non c’era.
Non c’erano quei fari abbaglianti, non c’era la carrozzeria nera metallizzata dalle curve sinuose.
Non c’era.
Quella macchina non era là quando mi sono girata prima di attraversare.
Un urlo. La voce era sconosciuta.
Ruotai ancora la testa, in cerca degli occhi di mia sorella. La trovai, trovai il suo sguardo gelato, come l’aria che mi traforava la gola, i suoi occhi spalancati, tele su cui si era dipinto il terrore.
La vidi socchiudere la bocca, con il rossore delle guance solcate da una lacrima cristallina.
Poi una fitta. Non era in una parte ben definita del corpo, ma c’era. Sentii anche un qualcosa di appuntito e tagliente lacerarmi la pancia all’altezza del rene destro. 
Mi sentii sbalzare in aria, senza peso, senza gravità. Poi toccai il suolo, probabilmente. Era duro, l’asfalto era dannatamente duro e ruvido.
Chiusi gli occhi, sicura che con il buio avrei trovato pace da quel mondo pieno di rumori, striduli e urla.
Ero distesa, rilassata. O forse ero paralizzata. Avrei voluto sbuffare, ma sentivo il torace schiacciato, pressato a terra da un peso invisibile.
Basta. Basta pensieri. Volevo rimanere in silenzio, con la mente vuota.
Khaled.
Il suo nome riecheggiò per la strada, poi nella mia testa.
Lui non mi aveva salvata, non era stato lì per tirarmi via dalla strada. 
Immaginai il sapore della sua bocca che aveva quella mattina: frittelle di Erin.
Un sussulto. 
Freddo. Sentivo freddo, e per la prima volta non avrei voluto provarlo.




Eccovi il nono capitolo! Siamo andati parecchio in là… vi annuncio che molto probabilmente questo è il penultimo capitolo della mia storia, e beh, i ringraziamenti li lascerò alla fine 
È successa una cosa abbastanza brutta, insomma, la protagonista è stata investita e non c’era Khaled ad evitarlo, come ha fatto già in passato.
Se devo essere franca, non so ancora come finire tutta questa avventura. Dilemma.
Ma per ora mi limito ad aspettare i vostri commenti o critiche (se ne avete)!
Grazie per aver letto e speso un po’ del vostro tempo per questa penultima tappa del mio primo viaggio!
Un grande abbraccio a tutti e a presto, 
Tex
  
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