Serie TV > Da Vinci's Demons
Segui la storia  |       
Autore: RLandH    27/05/2014    3 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DVD

Volevo aspettare che finisse la serie per non sentirmi condizionata, ma  … alla fine …

Ci tenevo a ringraziare tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente e quello prima ancora. Davvero vi adoro,  ogni vostra recensione mi riempie il cuore di gioia, anche perché dite cose troppo dolci e poco veritiere.

Il titolo è sempre tratto dalla genesi, si non è un granché, ma è quello …

Allora il capitolo presenta una scena Slash, la prima che scrivo e quindi prendetela con le pinze, non che con la scena Het me la sia cavata meglio, dovrei tornare a scrivere di morti ammazzati, mi viene molto, molto, meglio.

E questo capitolo doveva avere molto Verrocchio, ma mi faceva troppo male scrivere di lui, rimedierò con il prossimo D: O ANDREA PERCHÉ? * Va a piangere in un angolino*

Buona Lettura, RLandH

Ps- Ha vinto Lorenzo!

 

 

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

 

Atto III: Che hai fatto?

 

 

 

 (1471)

Si sentiva così incredibilmente piccola in quelle stanze. Gli appartamenti cardinalizi erano antichi, finalmente decorati con opere di incredibile bellezza e raffinatezza, molto più eleganti di quanto era mai state le sue camere. Ed erano meravigliose, da lasciarla con l’aria spezzata in gola. Era vestita di tutto punto, con l’avvento dell’inverno e l’arrivo della celebrazione del natale, aveva commissionato alle sarte abiti precisi, curati e magnifici. Era quell’anno speciale, era finalmente venuto il loro momento. Una serva le aveva portato del vino caldo speziato con estrema reverenza, s’era accomodata lei su una poltrona di velluto rosso ed aveva aspettato con ansia la porta. Non vedeva l’ora che i suoi fratelli arrivassero,  erano passati solo pochi mesi dal loro ultimo incontro, ma lei parevano anni. Si ricordava ancora quel giorno, nel giardino, quando sua madre le aveva promesso che se si sarebbe presa cura dei suoi fratelli un giorno loro avrebbero fatto lo stesso. Ed ora erano grandi, erano forti, e lei si sentiva il cuore colmo di fierezza per loro. Era già passato il tempo in cui solo lei si occupava di loro, ma in quel particolare giorno, aveva come la sensazione di liberarsi d’una trave infuocata dal petto.  Il primo ad arrivare fu il minore, ed era un uomo, con un filo di barba ed i capelli scuri, portati lunghi fino alle spalle e disordinati, ma lei lo vedeva come un bambino con le dita insozzate di miele. Sorrise nel vederlo, si sollevò, lasciando cadere la coppa di vino disinteressata, correndo verso di lui, stringendosi in quelle braccia forti che non avevano più nulla delle molli carni del piccolo arto che si tendeva verso di lei. “Non trovi, mi doni questo colore?” aveva domandato con orgoglio, esibendo soddisfatto, la lunga veste carminia. Lei annui, sentendo premere sulle palpebre lacrime di gioia e d’orgoglio.

 

(1479)

“Alla fine ho vinto io” ruggì Lorenzo, baciandoli le labbra, poi passò alla mascella e scese lungo il collo, fermandosi un attimo alla clavicola, “Sei stato più convincente” aveva concesso l’altro, mentre il più piccolo ricominciava la sua discesa di baci lungo il petto nudo, assicurandosi di lasciare anche qualche morso, arrivato al cavallo era tornato su. “Ho piegato dunque alla mia volontà Leonardo Da Vinci” aveva detto con voce grossa, posandoli un altro bacio umido sulle labbra, quello aveva ghignato, prima di ribaltare le posizioni, rotolandosi tra le lenzuola, ponendosi poi sopra, “Ora, giovane Lorenzo, non esagererei” aveva commentato, baciandolo con foga, infilandoli le mani tra i capelli. Il più piccolo s’era allontanato, sorridendo sornione, prima che con uno slancio ribaltasse ancora le posizioni e nella loro ruzzolata quasi non erano caduti giù dal letto di Di Credi, “Ha comandato per due notti di fila lei, maestro” notò il ragazzo, posandoli una dito sulle labbra, prima d’avvicinarsi al lobo e succhiarlo, “Ora comando io” soffiò suadente. “Non ti facevo così attivo” commento smaliziato Leonardo. Lorenzo rise fresco e cristallino,  “Sono un artista io, devo essere versatile” aggiunse, mettendosi a cavalcioni e strusciando il suo bacino su quello dell’altro. Da Vinci rise compiaciuto, mentre sentiva ancora le labbra di quello sul suo corpo, “Ma devi sapere …” gli disse, sollevandoli appena il viso, “Che io non amo i limiti” aveva sussurrato, sollevandosi e portando evidentemente anche l’altro a fare lo stesso. Lorenzo si credi si morse le labbra in maniera pudica ed innocente, per quanto un ragazzo nudo con un accenno d’erezione potesse esserlo, “O maestro, non l’avevo notato” scherzò.

 

S’era svegliato dal suo torpore, con ancora la luna alta nel cielo, aveva sentito il respiro di qualcuno sul suo collo,  aveva voltato lo sguardo, osservando le labbra di Lorenzo non distanti dalla sua clavicola, aveva un espressione serena d’un sogno che doveva piacergli molto o forse il ricordo di ciò che era appena avvenuto. Ed una visione così candida, fu quasi inevitabile ricordargli chi di candido non lo era, vide Lucrezia Donati sorridere in quella maniera sbarazzina, maliziosa ed intrigante, che amava. Avrebbe voluto toccarsi il collo e sentire il suo pegno, ma sarebbe stato forse troppo doloroso. La odiava e l’amava insieme, l’avrebbe voluta stringere tra le sue braccia e soffocare il suo fiato con le sue stesse mani. Non vedeva Lucrezia da più di un anno, non ne aveva avuto alcuna sua notizia, sarebbe potuta essere morta … E no! Non era così, se lo fosse stato, lui l’avrebbe saputo in qualche modo, nel profondo. “Leonardo” la voce del Turco venne improvvisa, come d’una folata d’aria gelata in una calda estate, si era voltato ed ancora una volta se era trovato steso in un luogo diverso rispetto il letto, sulla nuda terra, circondando da alte pareti di pietra bianca, deturpate da rampicanti appassite. Il Turco era davanti a lui, con un candela, altre mille ombre si muovevano nella notte. “Dove?” domandò, sperando che questa volta non fosse quando la risposta, “Nel labirinto” aveva spiegato con voce calma Al-Rhaim, il fuoco era ondulato, come scosso da un forte vento, ma non un solo filo d’aria animava il luogo.  “Seguimi, Leonardo” disse, allungando verso di lui la cera. L’artista s’era sollevata dalla posizione supina e s’era messo in piedi, trovando il Turco porgerli ancora la candela. La prese un attimo, sentendo sui polpastrelli un gelo inspiegabile. “Il Libro delle Lamine è qui?” domandò Leonardo, affiancando il Turco, “Non ne abbiamo cognizione” aveva risposto l’uomo, svoltando in un corridoio che lo aveva inghiottito in un oscurità così profonda da sembrare una tela, Leonardo lo seguì, non trovandolo,  rischiando di precipitare giù, lui era sull’orlo d’un precipizio, che s’apriva sulla montagna della Volta. Lui era tornato nel Nuovo Mondo? “Oh mio sognatore” aveva sentito Ima chiamarlo, ma non aveva avuto il coraggio di voltarsi, aveva sentito il respiro della donna sul collo, “Ci hai uccisi tutti” la sua voce era bassa, velenosa, le sue mani si erano posate sulla sua schiena e l’avevano spinto giù, con una forza inumana.

Era rotolato sul suolo, aveva sentito un dolore allo sterno e alle costole, sulla superficie cui era atterrato, s’era steso con la schiena al suolo ed aveva provata a respirare, trovandolo incredibilmente faticoso. “Spesso è complicato tenere separati i luoghi ed i tempi” aveva sussurrato una voce, Leonardo l’aveva cercata, intorno a lui, cominciava a disegnarsi una struttura e quando con fatica si era sistemato sulle ginocchia, aveva notato trovarsi in un lungo corridoio, sia a destra che a sinistra c’erano sbarre, era in una prigione, o almeno l’aveva pensato all’inizio, si era poi reso conto fossero gabbie. Adatte agli animali, non agli uomini. “Chi ha parlato?” domandò, la fiamma della candela sembrò farsi più vibrante, più maestosa e per un attimo, Leonardò ebbe l’impressione di vedere tutti quelli che erano nascosti nelle gabbie, era salito anche un vociare, ombre che s’erano rifuggiate per nascondersi dalla luce. “La tua sete di conoscenza ragazzo è forte” la voce che aveva parlato era stata la stessa di prima, l’aveva seguito e s’era avvicinato ad una gabbia, dove una figura sotto un manto nero era emersa, “Ma la Luce non appartiene a questo luogo” aveva sussurrato, la fiamma s’era assopita, diventato nulla più che una scintilla, ed allora la figura s’era avvicinata alle sbarre, non era che un vecchio, come tanti altri, con i capelli canuti ed i solchi sul viso. La schiena era curva, causa la piccolezza della gabbia. Leonardo aveva cominciato a cercare una serratura da poter scassinare, ma si era accorto, poi, fosse assente. “Sono sbarre di ignoranza ed oscurità” era stato l’amaro commento dell’uomo, “Non hai ancora la sapienza per spezzarle” aveva spiegato calmo il vecchio. L’artista l’aveva guardato, “Non posso aiutarti?” aveva domandato il giovane, l’uomo aveva mosso il capo in segno di diniego, prima di sorridere vagamente amichevole, “Non ora, almeno” aveva tentato di rassicurarlo, ma la cosa non aiutò, anche l’abissino l’aveva rassicurato, dicendogli che l’avrebbe salvato, eppure non era stato così. Non voleva che succedesse ancora, non voleva che i suoi limiti costassero la vita a qualcun altro.

“Quello che ti sta per accadere giovane, è ciò che ne sarà il tuo destino” aveva ripreso l’uomo, “In passato hai dovuto scegliere tra la Volta e Firenze” aveva ripreso l’anziano, Leonardo aveva annuito, quella volta, lui aveva cambiato il destino, era riuscito ad ottenere entrambe le cose, sia la Volta sia Firenze. Nessuno lo aveva predetto, ma Leonardo era riuscito a torcere il suo futuro, come aveva ampiamente capito i figli di Mitra erano in grado di convertire il tempo al loro piacere e poi, quando era entrato nel regno dei morti, il suo alterego li aveva fatto promettere di farlo ancora, di cambiare ancora il destino e non fallire. Leonardo annuì, “Ci salverai tutti, giovane, puoi star tranquillo” aveva sussurrato l’uomo, con un sorriso, “Devi però trovare il libro” aveva spiegato con voce distante, “E questo deve essere la tua sola ragione di vita” aveva ripreso, l’artista aveva annuito, “Senza quel sapere, neanche la tua intelligenza potrà essere luce nel labirinto” aveva spiegato. Il labirinto, a quella parola, Leonardo tremò,  nel labirinto risiedevano i nemici dell’uomo, quelli che mai avrebbero dovuto trovare il libro, sembrò per un attimo vedere una creatura amorfa, ma scomparve nel buio. “Come …?” provò a parlare, ma il vecchio lo mise a tacere, “La Cripta è il prossimo passo. Trova la Cripta, trova il libro, affronta il labirinto” aveva detto l’uomo, “Spezza le catene dell’ignoranza” aveva aggiunto, “Il tempo delle titubanze è cessato” la voce dell’uomo sembrò perdersi, la fiamma della candela si illuminò come raggi del sole, tanto da costringerlo a chiudere gli occhi. Quando si riprese era in un giardino.

Vide la stessa donna del sogno precedente, era una ragazzina, aggrappata alla corteccia d’un albero, con le unghia scarnificate, i suoi capelli erano annodati, pendii di foglie ed il viso era sporco di terra bruna e sangue, il suo viso era segnato da una profonda disperazione, “Fermatevi” aveva urlato, con lacrime salate a stritolarle le guance arrossate, raschiava il tronco continuando a ferirsi. Da Vinci cercò con lo sguardo ciò che stava implorando finisse, ma non trovò che il Turco nello stesso luogo dove l’aveva conosciuto la prima volta. Aveva ripreso la candela e la fiamma s’era aizzata un'altra volta, “Da quando sei uscito dalla Volta, il tempo è furioso” aveva detto spettrale, prima di condurrò lungo il corridoio coperto d’erba marcia, fino ad incontrare un bivio: alla sua sinistra c’era un corridoio lugubre spettrale, ma ciò che Leonardo scorgeva nel fondo era l’interno della cripta in cui era stato; alla sua destra c’era una prigione ed una donna dietro essa, aveva ricci castani e mani strette sulle sbarre, “Lucrezia” aveva  sussurrato.

Il tempo delle titubanze è cessato.

 

Quando aveva aperto gli occhi, Leonardo s’era accorto d’esser nudo in solitudine sul letto di Credi, Lorenzo era sorprendentemente sveglio, che nudo dalla cintola in su, era seduto su uno sgabello di legno e disegnava su una tela, con quello che sembrava un tratto leggero di grafite. “Ben sveglio, maestro” disse con una risata allegra, “Hai trovato un soggetto?” domandò Leonardo sollevandosi dalla posizione supina, il ragazzo sorrise appena, tornando alla sua arte. I suoi occhi ardevano più di passione in quel momento, di quanto non fosse stato nelle notti precedenti, se Da Vinci definiva se stesso un artista ed un inventore, Di Credi doveva annoverarsi solo nella prima categoria. Leonardo dovette combattere l’impulso di arraffare un foglio e ritrarlo in quello stato, era d’una bellezza sopraffina,  ampiamente più bello di chiunque altro avesse visto  nella vita, forse più di Lucrezia. Ed il pensiero di quella fanciulla, lo fece ripiombare nei sogni.

Si alzò, baciandoli la nuca, tra i capelli,  sentì il ragazzo ridacchiare, “Oggi mi accompagnerai al Cane Abbaiante?” domandò, Lorenzo si voltò, i suoi occhi sembravano essersi spenti del fuoco della passione, ma animati da altro, “Certo Maestro” disse mesto, sorridendo in maniera innocente, Leonardo sorrise, accarezzò il ragazzo tra i capelli, sotto l’orecchio, si chinò e diede un altro bacio, osservando il quadro, sulla tela vi erano tre figure senza dettagli, tratti distintivi. Il vecchio aveva ragione: il tempo delle titubanze era cessato, aveva imboccato la strada a sinistra, nonostante il suo cuore puntasse a destra, aveva come l’impressione che questa volta non sarebbe riuscita a salvare tutti. “Cos’è?” domandò, “L’ho sognato questa notte” rispose il più piccolo divertito, “Hai anche trovato il tempo di sognare?” lo prese in giro il più grande scompigliandoli i capelli, confinando in un angolo della testa la sua esperienza onirica, “Devo solo trovare un viso, per la mia signora”  aveva ripreso con una certa inquietudine, “Se fosse donna, sarebbe lei, maestro” aggiunse. Leonardo sorrise un ultima volta, prima di raccattare i suoi vestiti sparsi per la stanza ed uscire. Adesso aveva da fare alcune cose decisamente più importanti che godersi la gentile compagnia di Lorenzo, prima tra queste scoprire perché Vespucci, Yana e Verrocchio non avessero detto nulla della moneta.

 

 

Dall’ultima volta che aveva visto Carola Norsa, Girolamo Riario era cosciente fossero passati troppi anni, perché potesse esserci anche solo un accenno di memoria in quel viso. La donna era piccola, delicata, più giovane di lui, aveva la carnagione chiara come la polvere di luna, un fisico così esile da sembrare cristallo, aveva capelli castani, con una scriminatura nel mezzo, che scendeva lungo le spalle fino alle anche, sul petto si mostrava una spilla dalla forma d’una stella di Davide. Li accolse lì in un silenzio tombale, aveva occhi verdi d’un morto, vacui, senza espressione. Vestita d’un abito morbido, non pregiato, d’uno spettrale pallido, era sembrata nulla più d’uno spirito dietro la porta di legno, aveva guardato Girolamo come se non lo vedesse veramente, il Conte s’era goduto solo metà di quel viso, Carola aveva meccanicamente spostato lo sguardo verso l’abissina. Aveva poi aperto la porta e s’era fatta da parte lasciandoli entrare.

Girolamo e Zita s’erano allontanati dal Palazzo Orsini, un ora prima che sorgesse il sole. L’avevano fatto stretti in cappe scure, con cappucci che ne coprivano il capo, a piedi, premunendosi di non farsi scoprire dai due cugini cardinali di Girolamo, Giuliano e Raffaele. Non c’era stata nessuna guardia con loro,  non che Riario ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto eliminare qualsiasi uomo avesse intralciato il suo cammino. Avevano attraversato Roma con la costante paura d’esser seguiti, tormentati dalle più indicibili timori, avevano percorso le vie più malfamate, con nient’altro che coltellacci nascosti sotto i vestiti ed un vaso antico, con dei fiori tra le mani. Fino al Ghetto la strada non era stata difficile, ma come da anni a quella parte, nei quartieri giudei Girolamo aveva sentito la vertigine nel percorrere quelle strade ed un forte senso di disgusto, aveva fatto salire la bile fino a percepirne il sapore sulla lingua, ma aveva tirato dritto fino alla casa dove erano diretti, quella dove viveva Carola Norsa, dove giusto un paio di giorni prima aveva accolto la sua serva. Così in quella dimora, erano stati ricevuti dalla fanciulla, la signora e seconda moglie del padrone della casa, noto come l’uomo che erano venuti ad incontrare.  .

Forse era stato proprio il signore che dovevano incontrare, un buon decennio prima, a dirgli che Carola Norsa non parlava, non che Girolamo fosse mai stato particolarmente interessato a qualsivoglia donna ebrea, ma era rimasto ugualmente inquietato dal silenzio che aleggiava per il corridoio dalle pareti di legno rovinato, lungo le scale  scricchiolanti. Riario era stato abituato alle urla, ai singhiozzi, non c’era nulla che lo inquietasse più del silenzio. Forse perché la così tanta abitudine, l’aveva portato a soffocarsene.  Forse perché lo faceva sentire morto e gli ricordava quanto Dio fosse armai sordo ai suoi appelli. Guardò ancora la donna, tra Carola ed un morto, v’era il respiro come differenza. Zita aveva allungato la mano ed aveva afferrato la sua, Girolamo l’aveva guardata e senza controllarlo un sorriso era sorto sul viso. Carola aveva bussato delicatamente ad una porta di legno scheggiato, dopo aver sentito il permesso d’entrare, l’aveva aperta, dopo aver voltato lo sguardo ancora una volta verso Girolamo, s’era fatto da parte. Riario era entrato, Zita aveva provato a seguirlo,  ma Carola aveva posto il braccio delicatamente sul ventre di Zita, quasi ad invitarla di non procedere. “Tranquilla” le disse lapidario, guardandole la gonna, dove la schiava teneva un coltello per necessità, poi entrò, sentendo la porta chiudersi alle spalle.

Carola Norsa era la seconda moglie d’un uomo, che era stato figlio d’un allibratore, non era  però mai stato tanto bravo – differentemente dal padre – in tale ignobile lavoro, ciò era stato purtroppo la condanna del vecchio che s’era ritrovato unicamente lui tra tutti i suoi figli a veder un età maggior a dispetto da quella della fanciullezza. Ed era tale uomo un grand’amante d’oggetti misterici o talvolta semplicemente singolari. Non servivano monete per comprare il suo tempo, per certe questioni. Un ebreo fuori dalle righe, Girolamo non faticava ad ammetterlo. L’uomo lo guardò, aveva una carnagione bronzea e capelli remeggianti, vestiva di blu scuro e se ne stava chino su una sedia, mentre leggeva un libro con estremo interesse. “Eliseo” disse richiamandolo dai suoi comodi, l’uomo sollevò gli occhi e guardò l’uomo, nelle iridi scure scintillava qualcosa di perverso che l’aveva sempre caratterizzato anche da bambino. “Conte!” esclamò con voce carica d’affetto, che non nascondeva una menzogna all’apparenza. Sollevandosi per accoglierlo come si deve, sul farsetto blu, scintillava cucita in argento una piccola effige d’un fiore. Eliseo non fece commenti sul tale motivo per cui Girolamo si fosse presentato due giorni dopo la data concordata con l’abissina, perché Riario sapeva, l’uomo conoscerlo bene.

Girolamo non disse nulla, allungò all’uomo il vaso che s’era portato dietro dalle sue stanze, un anfora antica, dipinta con l’accurata scena d’una battaglia antica, ricolma di terra, cui uscivano due fiori dagli ampi petali bianchi ed un bocciolo giallo dal centro; erano fiori che aveva trovato nel Nuovo Mondo. Eliseo sembrò studiarli un po’, decisamente colpito, mordendosi un labbro, “Grazie del pensiero” aveva aggiunto raggiante, cogliendo il vaso dalle mani dell’uomo e sistemandolo su un tavolo di legno e ferro dipinto d’oro, assieme ad altri di quel genere. Eliseo era l’unico ebreo che avesse mai conosciuto che non provava interesse nell’oro ed era così da quando erano ragazzi, dopo aver lasciato Savona a quindici anni, l’uomo che aveva al suo fianco era stata la prima persona che avesse conosciuto a Roma e senza di lui non avrebbe mai scoperto dove erano le due chiavi.

“Un giorno mi racconterai dove l’hai trovata?” domandò, carezzando i petali pallidi dei fiori, “No” rispose secco Girolamo, non aveva voglia di far sapere al mondo del suo fallimento nel trovare il libro delle Lamine, l’uomo lo guardò con quella verve di cattiveria e malizia che il Conte aveva imparato ad ignorare. Eliseo aveva fatto strada attraverso il ciarpame fino ad una scrivania di legno scheggiato, cui erano presenti due sedie ai lati opposti ed una serie di registri con molti numeri ed una candela ormai usurata. Era lì che s’occupava di prestiti e pegni l’ebreo, nello stesso posto in cui lo aveva fatto suo padre prima di lui e Girolamo ricordava ancora il giorno in cui avesse di fatto conosciuto l’allibratore, erano già quattro anni che conosceva Eliseo, ma non era mai entrato in casa sua ne mai aveva pensato l’avrebbe fatto, per quale ragione di fatto un signorino cristiano sarebbe mai dovuto entrare nella casa d’un ebreo allibratore? Ma era abitudine di  Violante non stare alle regole e quando le aveva chiesto di recarsi con lei dall’uomo per una sua necessità, s’era sentito in dovere – quasi costretto – ad accettare. Aveva solamente diciannove anni e non ricordava poi molto di quel momento, se non che l’uomo aveva sorriso, dietro folti baffi sale e pepe e l’aveva invitato a restare fuori, assieme ad Eliseo, dove ora sostavano Zita e Carola. “La tua deliziosa serva l’altro giorno, mi ha riferito dei sogni che ti tormentano”  aveva cominciato Eliseo, spostando con accuratezza le carte da lavoro, in una zona ai margini del tavolo, assieme ad altri vecchi registri impolverati.  “Si, sei l’unica persona che conosco che pratica arti occulte” disse il conte rigido, quasi sputando quell’ultima parola, l’altro sorrise arcigno, “Certo in qualità di nipote del papa, temerebbero tutti una condanna al rogo” aveva detto sfrontato. Eliseo era sicuro, certo d’aver quella sua pellaccia ebra sicura, ma doveva ricordarsi di non giocar troppo con il fuoco, di non esser così indispensabile o il rogo l’avrebbe visto lo stesso, solo che invece della piazza legata ad un palo, Girolamo si sarebbe assicurato di bruciarlo nel suo stesso letto, con la sua donna muta e tutta quella paccottiglia di misterici oggetti.

Eliseo aveva aperto un cassetto, ed aveva estratto un oggetto di ferro da un cassetto, aveva quatro piedi che culminavano in un anello, c’erano delle foglie finamente lavorate in rame a decorarlo, lo aveva posato su un piatto di terra cotta, cui vi era l’immagine d’una tauromachia. Aveva infilato le mani nel farsetto e ne aveva estratto una chiave, pallida come le ossa, era semplice l’unga, con due denti ed un anello a fondo, aveva mosso alcuni oggetti sinistri dal tavolo, poi aveva pigiato le mani fino a spostare un quadrato di legno, da questo aveva visto una zona di pietra, con una fessura, sistemata la chiave, la pietra s’era sollevata da sola, mostrando una scatola, Girolamo era stupefatto come nella stessa Volta, Eliseo aveva rimosso il coperchio e ne aveva estratto una candela cocciniglia, che aveva sistemato nel quattropiedi, aveva accesso un fiammifero ed aveva donato alla cera la fiamma. Non era una candela come le altre, Girolamo l’aveva capito subito, c’era qualcosa di profondamente conturbante nell’ondulato movimento del fuoco,  per un attimo lì parve di vedere due ombre nere accucciate parlare. “Raccontami cosa hai sognato, amico mio” disse amichevole Eliseo. Ed il conte raccontò tutto.

“Il giardino rappresenta la stabilità e la fertilità in una donna” aveva spiegato l’ebreo, “Ma un giardino tetro ed incolto, l’esatto opposto, la confusione” aveva aggiunto, “Dunque o tu sei molto confuso o presto avremo piccoli Riario scorrazzare per il Palazzo Orsini” aveva scherzato Eliseo forse per alleggerire la tensione dopo il racconto di Girolamo. Il conte quasi si sentì male all’idea di esser padre e che una donna come Caterina potesse avere un loro figlio di lì a poco o in un prossimo futuro, ma poi pensò a Zita e si chiese se non avesse potuto inconsapevolmente avere un bastardo in ventre e quel pensiero lo fece sorridere. “Non ricordi come era il giardino?” chiese Eliseo, ma ottenne una negazione, per quanto si fosse sforzato di ricordare i più minimi dettagli, anche scrivendoli, il sogno era scemato poco a poco dalla sua memoria. L’ebreo andò oltre, “L’essere inseguiti, vuol dire invece la consapevolezza della fuga” aveva continuato,  “Nel tuo passato c’è qualcosa che devi risolvere, qualcosa che ti sta opprimendo” aveva aggiunto. C’erano così tante cose che avrebbero dovuto soffocarlo per quanto si sforzasse di nasconderle, vedeva il sorriso perverso d’Eliseo ed era conosco che lui sapeva. Perché una creatura maligna come lui sapeva sempre, forse era stato il diavolo a prenderlo da bambino,  quando una volta a sedici anni aveva raccontato che da infante aveva rischiato di morir d’un male senza nome, forse per la sua salute il demonio s’era preso lui. “Trovarsi un nemico di fronte, rappresenta l’immediato pericolo” aveva aggiunto Eliseo, “Temi per la tua vita?” aveva domandato, guardando il rosso fuoco ballare. “La donna urlante?” domandò Girolamo, “Non è ovvio?” aveva chiesto divertito l’ebreo, “Esiste una donna da qualche parte cui tu desideri l’assoluzione” aveva detto, con occhi malefici. Troppi visi erano comparsi.

“Con onesta, Girolamo, i sogni sono solo sogni” aveva detto Eliseo, “La gente che viene qui, spera che nei suoi sogni ci sia il futuro” aveva aggiunto, “Ma per lo più cercano solo ciò che vogliono o solo ciò che temono” aveva bisbigliato, con un sorriso di sfinge sul viso, “Forse sei solo preoccupato per il tuo passato, sai di dover fare qualcosa e questo minaccia il tuo futuro” aveva bisbigliato, posandosi su un palmo su una guancia e pressando il peso su un gomito. Girolamo aveva annuito, “Ma a volte le cose non vanno così” aveva bisbigliato, “Nel momento in cui mi hai detto che desideravi trovare Il Libro delle Lamine, Girolamo” aveva bisbigliato Eliseo, “Ho capito che il mondo degli uomini non ti bastava più” aveva esposto.  Per un attimo Girolamo s’era ritrovato adolescente, quando per la prima volta Francesco Della Rovere – quand’era ancora cardinale – aveva parlato del libro delle Lamine. Ricordava quanto aveva fremuto Giuliano, ma era stato Riario a farne la sua ragione di vita. “Quindi?” chiese Girolamo, “Da Vinci è la domanda e la risposta” aveva detto enigmatico Eliseo, spegnendo la candela con  un fiato. Il Conte aveva annuito, mentre osservava l’ebreo con movimenti misurati rimuovere la candela, ma invece di inserirla di nuovo nel meccanismo l’aveva allungata a quello, “Una luce nell’oscurità serve sempre” aveva detto amichevole. Girolamo aveva preso la candela sospettoso.

S’era alzato dalla sedia e diretto alla porta, “Sei stato seguito” aveva detto Eliseo, bloccandolo con la mano sul pomello della porta, Girolamo l’aveva guardato, “Da un nemico prossimo” aveva spiegato disinteressato, con quel sorriso malato e perverso, il conte aveva forzato un sorriso, “Un giorno t’aprirò un sorriso da orecchio ad orecchio” disse divertito, pensato che sarebbe stato l’unico sorriso che avesse tollerato ancora su quel viso. “No” aveva risposto  l’ebreo, “Io posso vedere molte cose, ti ricordo” aveva cantilenato. Girolamo s’era voltato verso di lui, perché non dire le cose tutte insieme divertiva troppo l’uomo e dopo anni, Riario aveva imparato il gioco, “C’è altro che desideri dirmi?” aveva domandato sospettoso, Eliseo aveva passato la mano sul tavolo con estremo divertimento, “Questa scrivania nasconde molti misteri” aveva commentato, “L’ha progettata e costruita una donna che tornava da una terra lontana” aveva detto divertito, battendo tre dita sul legno. La madre di Leonardo! Era stato il suo primo pensiero, “L’ha costruita per mio padre in cambio d’un libro e d’un nome” aveva risposto con voce seria, “Non ricordo il titolo del libro” aveva commentato con voce tetra, quasi disgustato dal suo fallimento, “Ma ti consiglierei d’andare dal Macellaio fuori dalle porte del ghetto, il buon Bartolo, ha un tale apprendista che potrebbe sapere qualcosa” aveva commentato divertito. Girolamo rimase per un attimo senza fiato, un apprendista d’un macellaio vicino il ghetto? Giuliano! L’amante! Uscì di fretta dalla stanza, afferrando Zita per un polso e trascinandola da via, da qualche parte nei suoi ricordi una donna urlava, con il viso arso dalle lacrime.

 

Filippa aveva versato l’ultimo secchio d’acqua nel catino, mentre osservava con sguardo imbarazzato la sua madonna spogliarsi degli abiti maschili che aveva portato tutta la giornata, senza particolare vergogna, sebbene la serva sapesse la donna non usasse mai farsi vedere nuda, se non da messer Antonio e Betta, una delle cameriere impiegate nel servizio della dimora da più anni, Filippa aveva sentito fosse venuta al servizio di quella casata assieme alla madonna quando aveva sposato il signore. La greca rimase senza fiato, quando la madonna si voltò verso di lei, il ventre con un filo di grasso, era attraversato da una linea bianca, che risaltava mortalmente tra la pelle bronzata, da sotto il seno all’ombelico. I capelli neri erano ondulanti lungo la schiena, anziché lisci come la seta, dovuti alla treccia che aveva portato negli ultimi giorni.  Lo fissò con gli occhi scuri, neri come quelli d’un satanasso, duri e levigati come le pietre focaie. Aveva sempre sospettato la sua signora non stesse a nessuna regola. Ma ora non poteva che chiedersi, nonostante le fosse stato insegnato a non farlo, cosa nascondesse veramente: le cicatrici, le arti combattive, la segretezza del viaggio ed i figli di Mitra.  Il pensiero di questi ultimi, le fecero correre brividi lungo la schiena, suo padre non aveva mai avuto buone parole per i membri di quella setta, ma uno degli ultimi discorsi con sua madre erano virati per quella direzione, le aveva sempre detto di starci lontana. E lei lo aveva fatto,  fino a che la sua stessa signora, di cui aveva imparato a non discutere mai ordine, la aveva condotta proprio da loro.

A svegliarla fu il rumore dell’acqua spostata e voltandosi aveva trovato la donna, con le ginocchia al petto dentro il catino, Filippa aveva preso il sapone e con delicatezza dopo averlo bagnato aveva cominciato a passarlo sulle braccia della signora. Aclima aveva gli occhi serrati, quasi fosse in uno stato di dormiveglia; la serva s’accorse che tra i seni spiccava la croce argentata l’unico oggetto che si era lasciato, quando era passata con il sapone lì.  Era passata alla schiena, poi quando la donna s’era sollevata aveva insaponato le gambe ed il basso ventre, cercando di non distrarsi nel guardare la cicatrice, poi quando era tornata nella posizione accucciata, aveva passato oli profumati tra i capelli scuri. Riempito un'altra bacinella d’acqua e rovesciato sul capo della donna che da sola s’era massaggiata la cute. “Ti stai chiedendo della cicatrice, vero?” aveva domandato la signora, posando la schiena sulla superficie ed i gomiti  sull’orlo laterale, con un sorriso sardonico sul viso, con gli occhi scuri pieni di rabbia. Filippa mosse il capo in senso di negazione, “Non mettermi” aveva detto sterile la donna, “Avevi la stessa espressione di Antonio quando m’ha veduta gnuda alla prima istanza” aveva risposto con voce piena di rammarico. Che nessun’altra persona avesse visionato la nudità della signora oltre lei, Antonio e Betta? Che dietro quella cicatrice vi fosse altro? “Puoi uscire Ippa, finisco da sola” disse la madonna poi, dopo un lungo sospiro. Filippa annui ed eseguì il comando, quasi priva d’una sua volontà.

Uscì dalla sala da bagno, ma s’arresto appena fuori l’uscio, posando la schiena sul legno della porta, timorosa di compiere i passi che mancavano alla loro camera, con le vertigine alle gambe, perché una cameriera doveva sempre essere a disposizione della sua signora. Alzò lo sguardo e trovò Lele, con gli indisciplinati capelli scuri lunghi fino alle spalle, lasciati liberi, privo del soliti abiti scuri o dell’armatura grigio salgemma, ma con null’altro che una maglia morbida chiara di lino ed i calzoni scuri , era un uomo alto, impostato, dai muscoli marcati, dalla mascella marcata, coperta da peluria, e gli occhi caldi, sebbene una cicatrice attraversasse il viso e lo sfregiasse, aveva sui quarant’anni, il doppio di quelli di Filippa, eppure era a modo suo attraente. Era sistemato dall’altro lato del corridoio rispetto lei, aveva la schiena contro il muro,  le braccia conserte al petto, il piede destro era piantato sul legno del pavimento, il sinistro sulla calce del muro. Il viso era costretto in un espressione boriosa e gli occhi a mezza palpebra, aveva l’aria assente ma se qualcuno si fosse lanciato contro di loro con un coltellaccio, avrebbe perso la mano prima che Filippa avesse trovato la voce nella sua gola per urlare. “Mi piace Firenze, Ippa, sai?” disse gentile, cogliendola anche un po’ di sorpresa, con quella voce cavernosa che lo contraddistingueva, “Voluttuosa, libertina e peccaminosa” aveva ripreso, con un sorriso di sufficienza sulle labbra, “Eppure mi sembra autentica”” aveva bisbigliato, eppure sembrava parlasse d’altro.  Filippa annui, con un sorriso divertenti, eppure contemporaneamente amaro di consapevolezza. O certo che era vera! Firenze non si nascondeva! Non era marcia, come il luogo dove vivevano loro, dove uomini e donne nascondevano la loro ipocrisia dietro polveri, ori, oli e merletti. Dove si elogiava la purezza ed il candore, ma i piaceri del corpo erano sovrani. L’Urbe quello era, l’ossimoro per eccellenza. “Da quanto tempo vivi a Roma, Lele?” aveva chiesto, osando per la prima volta dar sfogo alle sue curiosità, sentendosi frizzante e vagamente divertita da quella trasgressione;certo Lele non era un nobile, ne un padrone, era una guardia, un servitore, nulla di diverso da lei infondo. L’uomo sollevò gli occhi castani, stupito dal fato che lei avesse formulato una questione, abituato ai suoi lunghi silenzi, “Due decadi” rispose, incrociando le braccia al petto, “Venti lunghissimi anni” aveva aggiunto seccato, “Da dove vieni?” aveva continuato lei, elettrizzata da tutta quella confidenza che nessuno le aveva mai permesso, Lele poi alla fine non era neanche un signore, era concesso far domande, “Da un paesino di montagna, m’ero stufato di far il montanaro a vent’anni sono venuto a Roma per veder i miei servigi” aveva commentato con voce triste. Filippa sorrise, “Non hai una famiglia da qualche parte?” chiese innocente, osando forse troppo, Lele sembrò bruciarla con gli occhi. “Un fratello” aveva risposto, “È rimasto a fare il pecoraio” aveva risposto, “Se sposato con una donna riccioluta ed hanno una figlia poco più grande di te” confesso gentile, sorridendo, con gli occhi lucidi a quel pensiero. Forse aver fatto la guardia non doveva esser stato ciò che aveva sempre desideravo, forse s’era pentito di non esser rimasto sulle montagne e non averla sposata lui la donna riccioluta.

“Tu?” aveva domandato Lele, “Da dove vieni?” aveva chiesto, Filippa aveva sentito i brividi lungo la schiena, rendendosi conto che per la prima volta da tanto tempo  qualcuno le aveva chiesto qualcosa di lei, era capitato che il Signor Antonio, le chiedesse se per caso conoscesse qualche preghiera, perché ne era profondamente divertito dalle culture straniere. “Sono nata a Zacinto” aveva confessato, cercando di ricordare qualcosa di quella terra lontana, ricordava il tavolo di legno d’acero su cui sua madre sbucciava le pere, la capretta che avevano, che le mordicchiava sempre i riccioli, quando da bambina lei s’appendeva alle orecchie flosce e la spiaggia, chiara, da cui s’estendeva una distanza d’azzurro brillante, che per quanto spingesse gli occhi lontani, Filippa non distingueva il mare dal cielo. “Ma quando avevo sette anni siamo andati via” aveva aggiunto, malinconica. L’immagine di quel grande mare s’era liquefatto nella sua mente, come la neve al primo sole. Non ricordava nulla dell’ultimo giorno a Zacinto, ricordava le lacrime sulle guance. Nessuna tomba e nessun resto era rimasto per celebrare e ricordare coloro che non c’erano più, sua madre aveva portato via lei ed i suoi fratelli più grandi, dopo la morte di suo padre e del fratello maggiore.  Represse un singhiozzò, avrebbe volentieri voluto continuare a parlare della sua vita, perché finalmente potesse parlare con qualcuno, ma il pianto che l’era venuto, aveva lasciato intendere a Lele che non ne avrebbe mai avuto la forza.

Taciuti i singhiozzi, Filippa aveva omesso gran parte della sua vita, aveva rivelato fosse venuta solo un lustro prima con uno solo dei suoi fratelli nella penisola italica.  “Io e mio fratello ci vediamo spesso, anche lui viveva a Roma” aveva spiegato, sfregando il polso sugli occhi per fermare le lacrime,  prima di sorridere, rassicurata a quel pensiero, che almeno avesse ancora qualcuno, qualcuno che respirava, che aveva calore, sangue e vita, non solo un pezzo di legno marcito ed un dipinto sbiadito. Quasi rise, con una punta d’isteria “Sono sicura mi nasconda un segreto” aveva detto con un sorriso, cercando di divertirsi ai segretucci amorosi o meno che suo fratello potesse gelosamente seguire e a quel sorriso sbarazzino che adorava, quando si vedevano per occupare le giornate assieme. Vide il viso di Lele crucciarsi, quasi volesse chiedere altro, ma la voce della loro signora li aveva distratti dalla loro chiacchierata,  la Madonna aveva chiesto a Filippa di entrare per aiutarla a prepararsi per la notte.

 

Sandro Botticelli non s’era mai innamorato, aveva di tanto in tanto sfogato le pulsioni del corpo, questo si, ma l’amore, quell’idea di completezza, era stato un sentimento che aveva provato solo par la sua arte. Non poteva semplicemente concepire che Da Vinci fosse più bravo di lui, un uomo sempre distratto, disorganizzando, irrazionale e folle,  metodico si, ma che non s’era mai preso un solo minuti per guardare il proprio operato o quello altrui con occhi innamorati. Sapeva d’esser migliore di Leonardo, perché l’arte era la sua unica ragione di vita. Ma questo non lì impediva di temere Lorenzo di Credi e le sue pennellate pignoli, maniacali e curate.  Era stato due giorni a dipingere, cercando di richiamare alla sua mente l’ormai trapassato volto di Simonetta Vespucci, la cugina di quell’otre ambulante di Amerigo, una donna davvero incantevole, che la tisi s’era presa troppo presto. Sandro non aveva mai amato nessuno – uomo o donna – come aveva amato la sua arte, ma Simonetta aveva il viso d’un serafino ed i capelli d’oro, quando sorrideva era bella come la primavera, ma con l’espressione crucciata era sublime, come Venere dalle acque. Botticelli aveva sfiorato la sua pelle poche volte, per posizionarle il viso, l’aveva fatto come un innocente, davanti la Vergine Maria, senza un solo briciolo di malizia o lussuria nel suo atteggiamento. Eppure a distanza di quattro anni, non sapeva spiegarsi perchè continuasse a sentire quel malore nel petto, peggiorato, quando impegnandosi nel dipingere il volto di Simonetta si faceva più distante. La vedeva ridere,  ispirando l’odore d’una zalea con gli occhi castani brillanti. E se non avesse ricordato quel viso, la madonna dai capelli di rame, avrebbe scelto Lorenzo per il suo ritratto. E Sandro se ne rendeva conto, quel viso non era il viso di Simonetta, non era una dea che andava immortalata, era pallida come una candela, ma non candida, aveva capelli vivi e rossi, come il ferro, come la battaglia,  i ricci di Vespucci erano imbevuti del sidro del sole e quel viso, Sandro fremeva nel pensarci. L’aveva veduta nuda tante volte, che era un ragazzino e si chiese se l’avesse vista in quel momento, che era uomo,  avrebbe vinto l’amore per l’arte o l’amore per Simonetta.

Yana la straniera, lo guardava da uno sgabello lontano, aveva il vestito del giorno prima, i capelli sciolti ed il corpetto allacciato alla buona ed il fiero aspetto d’una belva della foresta. Il pomeriggio prima, dopo l’arrivo di Filippa, era stata più di un’ora con Amerigo ed il Maestro chiusi dentro l’ufficio a discutere su qualcosa, Sandro e Lorenzo avevano provato ad origliare, ma Benedetto gli aveva trascinati via tirandoli per un orecchio. Dopo ancora agitata la straniera se n’era andata con Vespucci sottobraccio ed era stata fuori l’intera notte, era tornata solo alle prime luci dell’alba ed era stata nella medesima posizioni da ore, come d’una belva che su un alto piano, spia la zona cercando la sua preda. E Sandro aveva cercato di ignorarla per concentrarsi solo sulla sua arte, che l’aveva tenuto sveglio tutta la notte, mentre si impegnava a riempire le figure di colore, cercando di richiamare alla memoria la sua musa e cercava al contrario di soffocare le grida di quel sodomita di Lorenzo, che s’era assicurato che per la terza notte di fila chiunque nella bottega sapesse cosa avesse fatto, particolarmente Sandro, la cui stanza era a sole due porte di distanza.

“Leonardo!” strillò Yana, sollevandosi dallo sgabello e tirandosi su la gonna, mostrando le gambe senza vergogna, correndo proprio nella direzione dove era comparso Da Vinci, di tutta fretta, rifilando la maglia morbida, “Qualcuno mi deve delle spiegazioni” ruggì, l’amato prodigio di Verrocchio e Sandro stabilì che se avesse ascoltato la sua voce per altro tempo ancora avrebbe battuto ripetutamente la testa al muro di proposito, perché anche impegnandosi non riusciva minimente a tollerare tale oscenità di uomo. Lasciò perdere il quadro recuperò la sua bisaccia ed uscì dalla bottega, inventando ad un ragazzo che stava cercando di plasmare un busto di dire al Maestro che andava a comprare degli ingredienti per un colore. Mandò giù la bile che era salita, odiava che Da Vinci fosse così schifosamente geniale, eccelso e talentuoso, la sua arte era sì un’abilità innata, ma che Sandro aveva coltivato, con il sudore ed il tempo, dipingendo ogni giorni, fino a che non v’erano stati altro che calli sulle sue dita e non riuscisse a stendere il palmo senza provare dolore.

Andò alla fine davvero al mercato, cercando davvero qualche componente da poter sciogliere per cercare un colore più brillanti, gli sarebbe davvero piaciuto trovare un oro così intenso da non poter esser guardato, come la luce del sole, così da poter permettere al mondo che non l’aveva mai veduta la grandiosità che Simonetta era stata. Ma tutto ciò che trovò fu il castano scuro, come di tronchi d’albero, composto nei riccioli indomabili della greca. Mentre osservava un vaso finemente disegnato d’una tauromachia, con la coda dell’occhio aveva veduto la donna che era stata il giorno prima alla bottega. Indossava un abito prugna, lungo fino ai piedi, le maniche strette, il corpetto aderente, senza una sola organza o ghirigoro, tremendamente semplice, come d’altronde Filippa Demopulo si presentava al mondo, un viso di donna, senza particolare beltà, due occhi, una naso e labbra fine, l’unica cosa che sembrava renderla diversa era la matassa di ricci informi, da sembrare un gomitolo di spaghi. Teneva tra le braccia un cesto colmo di viveri vari, tra cui della frutta. Sandro la stava guardando quando era caduta, ma forse era stato per la sinuosità dei capelli, che s’era distratto e non aveva capito come, se era inciampata nell’orlo dell’abito o qualcuno l’aveva maldestramente spinta. La cesta s’era rovesciata ed il contenuto era rovinosamente rotolato per terra, Filippa s’era fatta svelta nel raccoglierlo e quando una mela era arrivata fino ai piedi di Sandro, lui s’era chinato e l’aveva aiutata.

“Signora” aveva detto, posando la mela e quanti altri viveri avesse raccolto lungo la strada che li divideva nel cestino riposto sulla strada, “Non c’è giovane motivo per chiamarmi così” aveva detto allegra Filippa, prima di ringraziare, senza aver il coraggio di sollevar però lo sguardo, “Filippa Demopulo, vero?” aveva bisbigliato Sandro, cercando conferma, non che ne avesse bisogno, non aveva mai saputo perché, ma ogni immagine che vedesse nella sua vita, rimaneva impressa nella sua memoria come fosse stato un dipinto e Filippa non era stata un eccezione. La Greca aveva sollevato il viso, incrociando il suo volto, “Ma lei … lei è …” aveva bisbigliato, poi la bocca s’era aperta in un sorriso, “Maestro Alessandro” strillò, quasi avesse avuto davanti a lei  la santa trinità con santi annessi e connessi. Sandro s’era sollevato dalla posizione genuflessa tenendo la cesta tra il braccio sinistro ed il fianco ed aveva allungato la mano libera alla donna, che s’era aggrappata, usandola come leva per sollevarsi. Filippa lo guardava adulante, come se al suo posto ci fosse stato un quadro del Brunelleschi e dopo tempo, Sandro sentì una sorta di calore al petto, ricordando quando la Greca aveva esclamato d’amare i suoi quadri.

 

 

“Avete detto a Leonardo Da Vinci il messaggio?” aveva domandato Filippa poi, mentre tirava la cesta via dalle mani di Botticelli, la bontà di Sandrò s’era impiccata, “Io di certo no” aveva detto infastidito, “Del Maestro, Yana e Vespucci non ne ho idea” aveva aggiunto, ma poteva immaginare che Leonardo allontanarsi furioso e la straniera inseguirlo potessero essere una prova del loro silenzio, forse, “Ma sono sicuro che tra un “Più forte” e “Si Maestro!” Lorenzo avrà avuto modo di dirlo” aveva aggiunto cattivo, incrociando le braccia al petto. Gli occhi di Filippa s’erano spalancati sconvolti e solo dopo aver realizzato ciò che aveva detto Sandro s’era sentito mortificato della sua lingua lunga, più per Di Credi che per Da Vinci. “Sodomita?” aveva domandato abbastanza confusa, fissando il cesto di viveri che teneva tra le sue mani, “È stato anche processato per questo” aveva continuato, tanto aveva già fatto danno, non poteva tornare indietro e poi era noto anche ai sassi che Da Vinci aveva certe usanze, come mezza Fiorenza in fin dei conti, lui compreso. “Non credo questo cambi le cose” aveva detto dopo averci meditato un poco , la fanciulla dai riccioli scuri, tornando a fissare Sandro, prima di sorridere in maniera amichevole,  aveva distolto lo sguardo per ammirare il vociare di Firenze. Filippa annui, poi disse: “Aclima” –  il modo in cui pronunciò il nome fu strano –  “ha bisogno di lui a prescindere” aveva, prima di perdersi in altri pensieri. “Siete un’amante dell’arte, Filippa?” domandò allora, Sandro per spezzare il silenzio che s’era venuto a creare tra i due, a quella domanda la greca aveva sollevato lo sguardo, tornando a guardarlo, “Si” aveva mormorato, con le gote un po’ arrossate.

 

La carrozza si fermò davanti un vicolo, come era stato concordato. Lorenzo attese che il cocchiere scendesse per aprire l’anta, per un attimo ricordo quando quella meretrice e traditrice di Lucrezia lo incontrava. Quando la figura ammantata era entrata, per un attimo, il Magnifico aveva davvero pensato di veder scivolare fuori dal cappuccio scuro dei riccioli castani. Ma quando aveva visto quel viso, s’era rivelato una figura posata, matura, dalla chioma biondo incandescente. Un sorriso malandrino e vagamente cattivo. “Vita mia” aveva sussurrato Ipolita Sforza, prima d’aver chiuso le dita affusolate delle sue mani sulle gote dell’uomo e chiudendo le sue labbra con un bacio fremente. “Ero così animato quando mi è arrivato il tuo messaggio” aveva detto Lorenzo, approfondendo il contatto,  stringendo le dita sul corpetto della milanese, “Quanto mi sei mancato vita mia” aveva sussurrato Ipolita, arpionando con le dita il colletto e spingendolo su di lui, cercando di sollevar la gonna e di stringere il bacino dell’uomo con le gambe. “Non vuoi un posto più comodo, amore mio” sussurrò Lorenzo. Ma il sorriso voglioso di Ippolita non lasciava dubbio alcuno, infilando le dita tra i capelli, dandogli un altro bacio. “Ho giaciuto troppo allungo con Alfonso, riprenditi ciò che è tuo” aveva sussurrato la Regina di Napoli, prendendo una mano dell’uomo e spostandola dal seno alla sua femminilità.

Era stato come tornare ragazzini, impacciati e scomodi, ritmati da movimenti scoordinati. Ma ugualmente meraviglioso, come di quelle volte vicino al fiume, con i capelli di Ippolita biondi come l’oro, sparsi sull’erba fresca e fiori di campo a profumarla. Il modo in cui anche dopo aver fatto l’amore, nuda come la terra, si copriva la bocca con la mano per trattenere una risata scomposta e le gote rosse. E si sentiva come un ragazzino a guardarla in quel momento che cercava di ricomporsi e rivestirsi dopo l’atto consumato, con quei capelli d’orati, così diversi dai riccioli neri di Clarice. Scacciò di forza il pensiero del viso severo di sua moglie, ma che con il tempo era venuto ad apprezzare, c’erano volte in cui si chiedeva se provasse solo affetto per lei o amore e se amasse Ippolita o se fosse lussuria, a volte dubitava d’averla amata davvero, almeno una volta, da fanciulli.

“Cosa hai detto a tuo marito?” aveva domandato Lorenzo, infilando i bottoni d’oro nella fessura della camicia rossa, “Di essere ad Imola da mia nipote Caterina” rispose Ippolita, trafficando con i lacci del corpetto con movimenti calmi e misurati. Il Magnifico annui, ricordando vagamente la nipote in questione, era la figlia bastarda dell’ormai defunto Duca Sforza, il suo pingue maiale preferito, che aveva segnato con la sua morte la fine dell’equilibrio con Roma. Caterina dai capelli rugginosi, l’ultima volta che l’aveva vista era una bambina assai più giovane di sua figlia Maddalena. Qualche anno prima s’era maritata non ancora fanciulla con quella serpe di Girolamo Riario. “Alfonso non sarà così stupido d’avvicinarsi alle terre del Conte Riario senza un valido permesso” aveva detto con disinvoltura la donna, prima di sorridere, “E son sicura che non dubiterebbe mai con il conte della buona parola della sua mogliettina” aveva aggiunto con voce solare. Lorenzo aveva ridacchiato davanti quel sorriso scanzonato ed un po’ folle; la baciò ancora.

Ippolita gli accarezzò il viso, “Ma per quanto rivederti, vita mia, sia stato il mio primo pensiero” sussurrò la milanese, avvicinandosi a Lorenzo, “Ero davvero ad Imola da mia nipote” aveva mormorato, “Qualche mese fa è fuggita da Roma” aveva spiegato con voce raschiata, Lorenzo le passò una mano tra i capelli, “Ora è qui” aveva risposto con voce insicura. De Medici s’era fatto di pietra, pensando al fatto che nella sua bella repubblica si fosse insidiata una serpe come la nipote putativa di Sisto, “Hanno provato ad ucciderla” aveva spiegato Ippolita, “Ed il sicario veniva da Fiorenza” aveva spiegato, “Mia nipote ha avuto l’idea di sbarazzarsi del committente” aveva detto la madonna con un sorriso d’approvazione sulle labbra.

 

 

 

Note varie, di dubbio gusto:

Ordine Cronologico: Girolamo Riario ed il suo simpatico amico, il giorno precedente. Leonardo e Filippa si svolgono nello stesso tempo invece, durante la notte ambe-due, Sandro invece è metà mattina, così come Lorenzo Il Magnifico è nel pomeriggio.

Ippolita è un personaggio difficile da spiegare, è una nobildonna, ma è una stratega ed è inquietante e pazza, forse anche un po’ sadica ed ossessiva-possessiva, probabilmente anche parecchio infoiata. Tutte caratteristiche che vi assicuro condivide con quella gioia della nipote, che è meno esagerata per certi versi più per altri. Sono sicura sia comunque OOC. Comunque sia nella storia non ha mai avuto il Titolo di Regina di Napoli, ma visto che nella serie lo è … E poi su era famosa per essere fedele e pudica, abbiamo accettato tutti che questa Ippolita non è quella storica.

Aclima è una donna dai molti segreti(?), quello che vi posso assicurare è che non è una madonna qualsiasi.

Sandro, il suo pezzo è dannatamente inutile, l’ho scritto per inerzia, per divertimento, perché se fossi una sceneggiatrice o produttrice di DVD darei molte più parti a Sandro Botticelli. Che per inciso se Zoroastro si farebbe il mondo, Leonardo le persone belle e Lorenzo Leonardo (poverino è Leonardosessuale), Sandro ama l’arte e solamente l’arte. L’amore che prov(av)a per Simonetta è una questione puramente artistica, era la sua Venere e la sua Primavera.  Giusto per l’appunto, Simonetta Vespucci era la cugina dell’inimitabile Amerigo (che si ha passato la notte con Yana), è morta nel ’74 e se fosse stata viva non sarebbe stato necessario introdurre nella storia nessuna Vanessa Moschella, visto che Simonetta Vespucci era l’amante di Giuliano.

Si, Caterina Sforza ha spudoratamente mentito a Girolamo (e ad Alfonso), lui se ne va in giro per il ghetto a risolvere misteri, lei per Firenze a commettere omicidi. Dio li fa, il Diavoli li accoppia! (In questo caso Il Diavolo in questione lo conosceremo bene)

Il fiore che Girolamo porta ad Eliseo, è un fiore di patata, sono davvero belli. Detto ciò il motivo per cui Eliseo è così tranquillo ed irriverente con Girolamo è perché si conoscono da ragazzini, non crede possa seriamente fargli del male, oltre i suoi poteri che da questo capitolo non si capisce bene in cosa consistono. Si Carola è inquietante.

L’interpretazione del sonno è alla buona, non ho mai fatto psicologia ed odio il signor Freud (unico filosofo che ho studiato parlasse dei sogni) quindi forse sono solo boiate, ma non sono importanti alla fine. Eliseo l’ho dice, forse Girolamo era solo molto minacciato o forse il suo sogno ha qualcosa di più. Tipo l’essersi incontrato con Leonardo. Ed Eliseo ha parlato d’un nemico … mmm …

Filippa è sfigatissima, la sua storia non è finita, così come quella di Lele.  Lei potrebbe essere attratta da Messer Antonio così come da Lele ma non essere innamorata di nessuno.

Come si è notato le descrizioni cambiano da persona a persona. Filippa è delicata per Lorenzo e Niente di Che per Sandro, così come La Madonna del Drago Serpente.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Da Vinci's Demons / Vai alla pagina dell'autore: RLandH