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Autore: Sen    28/05/2014    2 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il Profumo della Notte


Deuteros non aveva atteso la settimana che Hakurei gli aveva tanto raccomandato. Il vecchio saggio era riuscito a trattenerlo solo per un paio di giorni presso il Tredicesimo Tempio, prima che lui fuggisse, una sera, al tramonto, lasciandosi dietro una scia di bende macchiate di sangue e una traccia infuocata di cosmo, nel cielo ad occidente.

“Che incredibile idiota!”, sbottò il cavaliere dell’Altare senza troppe cerimonie. “Che grosso, sommo, enorme IDIOTA!”, alzò la voce, suscitando una risata cristallina da un punto imprecisato del lenzuolo di seta.

Scosse il capo. I capelli, per una volta liberi dalla pratica coda di cavallo che solitamente portava, frusciavano contro le sue spalle.

Sai che così assomigli un sacco a Sage?, gli aveva confidato una volta lei, ormai più di vent’anni prima.

E ancora dopo così tanto tempo, che per lui era, oh, così poco, era lei la persona che andava a cercare, dopo giornate come queste. Una semplice chiamata diretta nei suoi pensieri per farla giungere al Tredicesimo Tempio, nella sua stanza, a fianco di quella del fratello minore.

“Sei mai stato innamorato, Hakurei?”, gli chiese, appoggiando il capo sulle braccia incrociate sul cuscino.

“Sì. No. Non so”, replicò scherzoso e Melina rise di nuovo guardandolo con i suoi occhi azzurrissimi, illuminati da una luce che conservava solo per lui.

“Allora dovresti capire”, concluse, allungando una mano ad accarezzargli il petto.

Lui la prese, e con una dolcezza che cozzava con il suo sguardo truce, iniziò a baciarle le dita.

Scivolò accanto a lei, pelle contro pelle, a seguire le sue gote con le labbra.

“Il Santuario sta collassando su se stesso, Melina”, le confidò, poco più di un sospiro, “dobbiamo affrontare la morte ma cerchiamo ogni giorno la vita. Aneliamo di vivere anche solo quel secondo, quella breve scintilla, prima che tutto sia spazzato via”.

Melina annuì, occhi negli occhi, ed Hakurei si trovò a pensare che così, senza trucco e belletti, con i capelli lasciati liberi, sembrava ancora più giovane.

“È così per tutti”, constatò lei, lentamente. “È così anche per i comuni mortali e sarà così anche per i soldati di Hades.”

Lui sospirò stringendola un poco.

“È molto probabile che queste saranno le nostre ultime occasioni di poterci amare, in questa vita”, le spiegò, la voce incolore, “Presto sarò chiamato al medesimo compito che ha gravato sulle mie spalle per più di duecento anni.”

Melina annuì.

“Lo so, Hakurei, per questo sono qui, stanotte.” Lo baciò casta sulle labbra piene di rimpianto.

Andò con la mente alle notti che avevano trascorso insieme, celati dal buio della notte, al limitare del Santuario, quando Erato aveva seguito il suo uomo di tenebra, lasciandola sola e con il cuore spezzato.

Lui si sporse a baciarla e lei, sorridendo, capì che doveva considerare la conversazione conclusa perché, no, la pazienza non era affatto una delle sue doti.


Giunse, infine, dopo quelle che gli erano parse ore, nell’agrumeto che delimitava la fortezza di Hades. Ormai la sera stava sfociando nella notte e le guardie, soldati semplici, distratti dal profumo dei fiori, non avevano nemmeno avvertito la morte, mentre lui esplodeva il suo colpo di lava e calore.

Il boato aveva fatto tremare le fondamenta stesse dell’edificio che si stagliava, scuro e terribile, di fronte a lui.

Deuteros rise, avrebbe dovuto fare in fretta, prima che gli inviassero contro un guerriero degno di questo nome, e lui non aveva tempo da perdere, né onore da difendere.

Lui voleva solo trovarla, e portarla via da lì.

Si proiettò veloce verso il palazzo, il mondo una macchia di colore indistinto, come i pensieri nella sua testa.

Immagini in sequenza del corpo di lei, ferito, profanato, la sua Eranthe violata ed uccisa.

Troppo tardi...

Non doveva cedere o perdersi in quella menzogna. Doveva lottare ancora.

Poi lo sentì, sulla pelle, nel suo potere, dritto nei suoi pensieri. Il cosmo di lei, caldo, sopito, che scorreva come un fiume sotterraneo e celato, esplodere di colpo, chiamarlo.

Aumentò la velocità, le labbra serrate si aprirono in un ghigno sinistro, quando, infine, lo vide, proprio dinnanzi il portone di entrata.

Dal cosmo oscuro che emanava, Deuteros capì che si trattava di uno dei Giudici Maggiori.

La sua corsa si interruppe, di colpo.

Oro e tenebra si studiarono a lungo, prima che il fuoco della Viverna avvolgesse le Galassie.


Minos aveva fatto appena in tempo ad eseguire un balzo all’indietro, prima che le fiamme indaco richiamate dal cosmo neonato di Eranthe scaturissero dal corpo della donna, come impazzite.

“Devo andare!”, aveva esclamato lei, incurante, gli occhi luminosi di speranza.

Gli afferrò le spalle, mentre le labbra sorridevano.

“Levati dalla porta! Devo andare Minos!”

Entusiasta, come un’adolescente che scorge il fidanzato sotto casa con un mazzo di fiori, raggiante, anche se, come lui paventava, sarebbe andata incontro a morte certa se solo avesse varcato l’entrata della fortezza.

Le sue mani le cinsero i fianchi.

“Ragiona, Eranthe”, cominciò calmo. “Non puoi andare da lui. Sta combattendo contro Rhadamanhys, che non si farebbe alcun problema a colpire uno dei suoi, figuriamoci una nella tua posizione!”

Lei lo osservò a lungo, i suoi occhi scuri saettavano al di là di lui, come a voler ponderare il maggior numero di soluzioni possibili.

Poi abbassò il capo, sconfitta.

“Non importa, Minos.” Una lacrima eluse la sorveglianza ferrea dei suoi occhi. “Devo almeno provare. Almeno tentare di ritornare da Dimitra. Glielo devo.”

Lui la scosse, tremando a sua volta. “Ma non capisci! Non...”, ma lei gli aveva chiuso le labbra e la mente con un bacio di fuoco.

“Addio, Minos, e grazie”, sussurrò, fuggendo verso il corridoio.

La Surplice di Bennu, sorridendo, scomparve in una scia di fiamme indaco al di là della finestra in frantumi.

Solo quando l’enormità di quanto appena accaduto fu registrata nei suoi pensieri distratti, il Giudice si lanciò verso la medesima destinazione.

“Merda!”, sfuggì alle sue labbra serrate.


Eranthe era arrivata indisturbata di fronte al pesante portone di ebano intarsiato; il concitato trambusto di Specter, guardie, e semplici inservienti che si erano riversati affollando i corridoi principali, le aveva consentito di giungere inosservata alla sua destinazione.

Spinse con forza, con entrambe le mani, ad aprire appena uno spiraglio, poi lo spazio necessario per poter passare.

Un’esplosione di inaudita potenza, all’esterno, polverizzò l’intera struttura, bruciandole le mani e investendola di polvere e detriti.

Fu solo grazie all’ala protettrice della Surplice del Grifone, che lei non venne gravemente ferita.

“Minos, cosa ci fai, qui, anche tu?”, domandò stupita, indaco nel grigio, mentre lui scuoteva il capo sospirando.

Varcarono quell’apertura distrutta, di fronte a loro Rhadamanthys imponente nella sua Surplice, l’elmo scaraventato distante, sangue fresco gli macchiava le labbra.

Il guerriero dei Gemelli, era poco più in là, inginocchiato a terra, un braccio completamente coperto di ustioni, il viso distorto dal dolore.

“Deuteros!”, gridò lei, liberandosi dall’abbraccio del Grifone e raggiungendolo di corsa.

Si accucciò accanto a lui, accarezzandogli il viso.

“Er...Eranthe?”, sussurrò lui, quasi il suo nome fosse qualcosa di sacro ed ineffabile.

“Eranthe?!”, riprese quindi con maggiore sicurezza.

Una mano salì, lentamente, ad accarezzarle il volto, lasciando meste scie di sangue sulla sua guancia.

“Sei viva? Stai bene? Ti hanno fatto del male?”, domandò, veloce, mentre i suoi occhi di mare cercavano eventuali ferite, le mani strette attorno alle sue braccia.

Ma lei scosse il capo, avvicinando la fronte alla sua.

“Sto bene, Deuteros”, confermò, comunicando col cosmo di lui, calmando la sua ansia, dissipando i suoi timori. “Come sta Dimitra?”

Lui chiuse gli occhi. “Sta bene”, sospirò, riprendendo poi, un’increspatura nelle sue stelle. “Dimmi solo che non ti ha nemmeno sfiorata”, chiese, un filo di voce, gli occhi imploranti.

Lei sorrise scuotendo il capo.

E lui, finalmente, si sciolse in un bacio che sapeva di sangue, sudore e di lacrime.


Rhadamanthys era un guerriero del sommo Hades, per l’esattezza, era uno dei tre Giudici Maggiori.

Sopra ogni altra caratteristica, Rhadamanthys della Viverna era un uomo d’onore.

Aveva, quindi, lasciato che i due amanti si concedessero un ultimo, patetico, saluto, approfittando del diversivo per recuperare l’elmo della sua Surplice e riprendersi dal colpo, di una potenza inattesa, dell’uomo dei Gemelli.

Ora, tuttavia, era giunto il momento di mettere fine a tutto questo.

Possibilmente, spazzando via anche lo Specter di Bennu, che gli appariva di dubbia utilità e troppo, troppo vicina al mondo di Athena.

“Puoi tornartene dentro, Minos”, intimò, marziale, al Giudice del Grifone, fermo di fianco a lui, come una statua e stranamente pallido e teso in volto. “Qui basto io.”

L’assenza di una risposta lo costrinse a voltarsi verso il compagno.

“Minos?”, tentò una seconda volta, dandogli una leggera pacca con il gomito.

“Qualche giorno fa mi hai chiesto se avessi riconosciuto da che parte stare, qualora ce ne fosse stata la necessità, non è vero, Rhadamanthys?”, iniziò Minos, il tono della voce incolore, gli occhi puntati sulla coppia poco lontana.

“Bene”, asserì serio, incrociando lo sguardo della Viverna. “Adesso lo so”, concluse, grave.

Rhadamanthys non comprese il senso di quell’affermazione, accogliendola con una semplice espressione di stupita ovvietà.

Poi si rivolse di nuovo al nemico, ora in piedi, accanto a quella donna di fiamme scure.

“È ora di porre fine a questa farsa, Santo dei Gemelli!”, esclamò la voce roca, graffiante.

“Non avrò pietà di voi!”, concluse richiamando a sé il suo colpo più potente, il cosmo viola pulsava di potenza pura.

Greatest Caution!”

Deuteros la costrinse dietro di sé, offrendole quanto riparo poteva, gonfiando il suo cosmo in una barriera, le sue energie tese a proteggerla piuttosto che tentare un contrattacco.


Chiuse gli occhi, una mano sull’oro che copriva la schiena di Deuteros, pronta all’impatto, solo per riaprirli, stupita, quando non avvertì alcun calore, alcun dolore.

Minos, le ali del Grifone completamente spiegate, era a pochi centimetri da loro, proteggendoli da quel calore terribile.

“Minos!”, l’urlo esplose dalle sue labbra, mentre il cosmo dei Gemelli rispose contrastando la Viverna.

Mauros Eruption Clust!”

Sorridendo quando avvertì il colpo centrare il bersaglio e sentì, sopra il fragore, il Giudice gemere di dolore, rovinando malamente a terra, le ali della Surplice orribilmente mutilate.

L’esplosione che ne conseguì divise il suolo sollevando una nube di polvere che rese indistinta la visuale.

Minos crollò in ginocchio, mentre Eranthe e Deuteros cercavano di sostenerlo.

”Perché, Grifone?”, domandò questi, grave, notando che lei stava tentando di tamponare il sangue che aveva macchiato il sorriso amaro del Giudice.

Questi abbozzò una risata di puro dolore, grandi frammenti scuri si staccavano dalla sua Surplice.

“Per i medesimi motivi che ti hanno fatto rischiare tutto, qui”, ammise, sottovoce.

Alzò una mano ad afferrare la spalla del Santo d’Oro. I suoi occhi grigi resi cupi e spaventosi dall’urgenza e dal dolore.

“Portala via”, riprese, la voce un sibilo terribile. “Prendila, ora e portala via di qui. Portala al sicuro, lontano da tutto questo. Lontana anche da Athena. Le nostre truppe stanno per attaccare passando per quel vostro villaggio.” Un rivolo di sangue prese ad uscire dalle sue labbra.

“Prendete vostra figlia, e fatene altri sette, otto, quanti ne volete. Lontano da qui.”

Deuteros annuì grave, mentre Eranthe gli teneva una mano tra le sue.

“Vieni con noi”, un sospiro appena percepibile.

Il Grifone sorrise accarezzandole i capelli.

“Sai che non posso”, concluse voltandosi verso il compagno. “Addio, Eranthe”, sospirò.

L’esplosione del cosmo dietro di lui rese evidente la loro partenza, come una scia di luce e fuoco tra le stelle della notte senza luna.

“Cosa stai facendo Minos?!”
Il grido preoccupato di Rhadamanthys lo fece ridere di gusto. Si rialzò, con estrema fatica, mentre il sangue invadeva la sua bocca e la vista, lentamente, si chiazzava di nero.

“Sembra che tu sia davvero in gamba, Viverna. Non credevo...”, poi il buio lo accolse, facendolo rovinare all’indietro.

Sarebbe caduto a terra, se un varco dimensionale non si fosse aperto, facendolo scomparire all’istante.


Atterrarono istanti dopo, emergendo da una dimensione parallela su una spiaggia di sabbia, accanto a loro una modesta casupola, le finestre chiuse, la porta sprangata.

“Seguimi”, le disse, ruvido, a bassa voce, le onde del mare l’unico suono in quella notte irreale.

Aprì il pesante chiavistello, entrando, il suo cosmo, stanco, ad accendere l’unica candela, al centro del tavolo di legno consunto.

Eranthe fu accanto a lui, guardandosi attorno, curiosa. La cucina con un piccolo forno, il tavolo ed una libreria. Un arco nella parete dava sulla camera da letto.

Nonostante l’arredo spartano e la totale assenza di abbellimenti di alcun tipo, lei, per un attimo si sentì a casa, al sicuro, accanto a lui.

Deuteros si liberò dell’Armatura dei Gemelli con un guizzo del suo cosmo immenso, la Surplice di Bennu, invece, semplicemente, si materializzò in un angolo della stanza.


“Eranthe”, le si avvicinò abbracciandola, stringendola con quanta forza poteva, senza farle male.

Il viso premuto contro i suoi capelli in disordine, che profumavano di vento e di sale.

Il suo corpo caldo, nonostante il viaggio, stretto a quello di lui, come se fossero una cosa sola.

“Lei sta bene. È al Santuario, domani la rivedrai”, le spiegò, sussurrando. “Questo è il mio rifugio. Sull’isola di Kanon”, continuò cercando disperatamente di controllare il tremito nella sua voce.

Lei alzò appena il viso, a perdersi e ritrovarsi in quegli occhi luminosi.

“L’Armatura”, disse, lo sguardo deciso in quello di lui.

“Non potevo venirti a prendere senza protezione alcuna”, sospirò, mesto.

Eranthe comprese, dalla grave inflessione del suo tono che quelle poche sillabe celavano una realtà ben più profonda e crudele.

Quindi evitò di domandare oltre, solo “Grazie, Deuteros”, sussurrò ai suoi occhi, seri.

“Non lasciarmi andare”, di rimando, lui, il tono roco e grave.

Lei scosse il capo, schiudendo un poco le labbra, ricevendo il suo bacio. Intenso. Totale . Come a voler suggellare la loro unione ritrovata. Dopo così tanto tempo.

Dopo che lui aveva scoperto il sottile timore di perderla, tra le trame di una guerra che, in fondo, non era nemmeno la loro.

Un ruolo al quale lei aveva voltato le spalle ed al quale lui si era ribellato.

Le stelle risero, mentre lui la baciava di nuovo, macchiandole la veste di sangue e ignorando il dolore pungente al braccio ferito.

Tutto avrebbe dovuto attendere. Alzò gli occhi oltre la piccola apertura accanto alla porta ad ammirare il mare d’inchiostro e il cielo senza luna.

Le stelle rilucevano selvagge, la loro luce sembrava chiamarlo, assieme alle maree che confluivano, tutte, nel corpo di lei.

La intrappolò contro di sé, baciandola con maggiore convinzione, le mani ad accarezzare la sua pelle nuda, liberandola della veste, dimenticata, afflosciata a terra.

La tensione dentro e fuori di lui, che si trasformava in doloroso fastidio, tra le sue mani.

Lei che gli mordeva le labbra, le dita tra i suoi capelli, accarezzandogli il collo e le spalle, seguendo il sentiero tracciato dai muscoli gonfi.

Avvertì il tempo e lo spazio venire meno, mentre riacquistava un minimo di padronanza di sé, quel tanto che bastava da permettergli di guardarla dritto negli occhi, implorante, in attesa di in un muto cenno di assenso.

Lei allacciò lo sguardo con il suo, sorpresa, prima di comprendere ed annuire, imbarazzata, le gote tinte di un pallido rosa, avvertendo il mondo, lentamente, cambiare attorno a lei e l’aria stessa farsi differente, più leggera.

E lei non fu più Eranthe, la puttana dei soldati.

Poi lui la baciò, ancora, adagiandola lentamente sul letto freddo, il lino delle lenzuola frusciava contro la sua pelle, e lui avrebbe voluto, per il suo bene, che fossero le lenzuola di seta del Tredicesimo Tempio, con le vasche termali pieni di profumi e di petali di fiori.

“Deuteros.” Respirando forte, la sua voce lo riportò a quel letto umile e consunto, nella catapecchia in riva al mare.

Lui la baciò ancora, a scacciare dalla mente ogni dubbio.

La prese con sensuale lentezza, con cura ed attenzione, come se lei fosse ancora una ragazza, accarezzandole i capelli e perdendosi nelle iridi del colore del cielo di notte.

E mentre entrambi cadevano in balia di quel ritmo divino ed antico, fatto di fuoco e sangue, lei avvicinò le labbra ai suoi capelli e lo sussurrò, timida, quello che non era stata mai, mai, in grado di esprimere, nemmeno di fronte alla freccia del Sagittario.

S’agapò, Deuteros.”

Lui la guardò, dritto negli occhi, senza fermarsi e poi, gemendo, le sorrise.

Un sorriso vero, questa volta, così diverso dal ghigno beffardo che talvolta gli stirava le labbra, che le fece lacrimare gli occhi ed aggrapparsi forte alle sue spalle, mentre veniva investita dalla passione che avevano creato assieme.

Lo vide, appoggiare la fronte alla sua, i cosmi che risuonavano, intrecciati, le sue labbra schiudersi in un grido muto.

Poi, lentamente, scivolare accanto a lei, prendendola tra le braccia, cullandola e accarezzandole leggero i capelli.

Mentre recuperavano il respiro, ancora veloce, scosso, ingarbugliato, Deuteros la strinse. “Solo con me, Eranthe.”

Lei alzò un poco il capo, confusa e decisamente ancora poco lucida, gli occhi in un’espressione di dubbiosa curiosità.

“Tu sei la mia donna, Eranthe”, spiegò lui, un lampo di seria determinazione gli attraversò gli occhi.

E lei capì.

E lei vide, lo stesso uomo disperato che chiedeva i suoi servigi le notti senza luna, il guerriero ferito che cercava consolazione e riparo, l’eroe sconfitto che implorava riposo, senza nemmeno comprendere che avevano tessuto la trama di quell’amore nascosto ed invisibile da tempo, ormai.

Quell’amore a cui lui non sapeva nemmeno dare un nome, quel sentimento di assoluta vicinanza che nessuno, mai, gli aveva mostrato né insegnato.

Anni nascosto dietro una maschera, anni all’ombra del gemello perfetto, e quell’affetto che avevano condiviso da bambini si era tramutato in un veleno sottile e letale.

Quell’amore che l’aveva, alla fine condannato.

Gli occhi chiari, sgranati ed increduli quando l’aveva vista la prima volta, la sigaretta stretta tra le labbra rosse e lucide, gli occhi bistrati che recavano la sua stessa disillusa rassegnazione.

Ma a lui, avvezzo solo a insulti e percosse, sembrava quanto di più vicino alla stessa dea gli fosse concesso di vedere.

“Cerchi me, ragazzo?”, gli aveva rivolto la parola, la voce ancora limpida di una ragazzina cozzava contro la sua espressione dura e tagliente.

Lui aveva scosso il capo.

“Non so cosa sto cercando, signora”, aveva risposto, quindi, chiamandola come aveva sentito, di nascosto, i soldati parlare delle donne di Rodorio, nonostante sembrasse essere di qualche anno più giovane di lui.

Lei aveva sorriso, quindi, e le stelle avevano sorriso con lei.

Gli aveva fatto un semplice gesto con la mano, invitandolo ad entrare.

Deuteros aveva scosso il capo di nuovo, facendo un cenno alle sue vesti logore.

“Non importa se non puoi pagare, ragazzo”, lo aveva convinto lei, aprendogli la porta.

E lui avrebbe ricordato per sempre quella notte, e tutte quelle a venire.


“Non voglio che tu...che tu riceva altre persone. Mai più”, concluse, lapidario. “Sei mia. Soltanto mia.”

Lo baciò, lei, con gioia, mentre le lacrime bagnavano le loro labbra riarse, mentre scivolava con grazia sopra di lui, che la lasciava fare, per una volta, libero di perdere il controllo.

Libero di lasciarle la sua vita ed accogliere tra le sue mani quella di lei.

Libero di poterla amare, anche se in silenzio, anche senza parole.

Libero, anche solo per una notte, quando nemmeno la luna avrebbe fatto da testimone.

Alzò lentamente una mano ad accarezzarle le gote arrossate, con una dolcezza un po’ ruvida che non aveva mai dimostrato in tutti quegli anni.

Chiuse gli occhi chiari in un cenno di assenso, quando lei puntò nel suo sguardo i suoi, scuri, resi profondi come il cielo di quella notte, sorpresi.

Poi li chiuse, preda di quel piacere che provava solo con lui, mentre il mondo, lentamente, scivolava lontano, al di là delle onde del mare.

La strinse, forte, quando la avvertì tendersi e gemere.

“Ah...”, gli sfuggì dalle labbra, quando la seguì.


Partirono alle prime luci dell’alba e raggiunsero Rodorio tramite il portale dimensionale che lui aveva aperto, diretti nel Tempio dei Gemelli. Melina li attendeva, sorridente, sulla soglia del Tredicesimo Tempio, abbracciandola come una figlia ritrovata, mentre Hakurei, un po’ in disparte, aveva sbuffato all’attenzione del santo d’oro, apostrofandolo con l’affettuoso nominativo di “idiota”.

La piccola Dimitra era corsa tra le braccia della madre, ridendo, finalmente, felice.


Minos aprì lentamente gli occhi, stupito di essere ancora intero, anche se in un luogo ignoto.

Il sole, con i suoi raggi fastidiosamente luminosi, gli solleticava le palpebre abbassate, richiamandolo ad una veglia che lui avrebbe, volentieri, evitato.

Voltò un poco la testa di lato, cercando di sfuggire a quel richiamo insistente, con la coscienza che anche il dolore aveva ripreso ad ardere nelle sue membra stanche e lui avrebbe solo voluto che una divinità qualsiasi si decidesse a mostrargli infine pietà, concedendogli una morte repentina.

Il Grifone, tuttavia, si scontrò presto con la consapevolezza che nessun dio era in ascolto delle sue preci, in quel preciso istante, così dovette cedere e aprire lentamente le palpebre, pesanti come il piombo.

Il chiarore verde e confuso che investì i suoi sensi servì solo ad aumentare dolore e malessere. Si concesse di gemere. Nessuno l’avrebbe udito.

Cercò di sollevare una mano, accorgendosi, però, che il braccio sinistro era irrimediabilmente spezzato e non rispondeva più ad alcun comando. La mano destra, ustionata e ferita, invece, giunse tremante ai suoi occhi, strofinandoli leggermente.

Dovette sbattere le palpebre un paio di volte ancora, prima che almeno i contorni delle cose diventassero riconoscibili.

Il Giudice si rese conto che il varco creato dal cosmo del Santo dei Gemelli per cercare di salvarlo da Rhadamanthys, aveva effettivamente funzionato, spedendolo verso una non meglio definita destinazione e, per la precisione, accanto ad una radura, al limitare di un bosco verdeggiante.

“Sei tu?”

Inconsciamente Minos si voltò verso quel suono, quella voce nota, sottile come un pigolio, che ora sembrava così maledettamente vicina.

In piedi di fianco a lui, investita dei colori dell’alba, in mano un mazzo di fiori di campo appena raccolti, c’era quella ragazza di rose, così cara al santo dei Pesci.

Richiuse gli occhi, il respiro incastrato in gola, un sorriso di scherno sulle labbra macchiate di sangue.

Forse, alla fine, qualche divinità aveva effettivamente voluto esaudire il suo desiderio.

Alzò il capo, indicandole il collo privo di protezione.

“Ti prego solo di fare in fretta.” La sua voce roca e graffiante, la raggiunse appena, mentre la sua mano indicava il coltello che lei teneva legato alla cintola.


Agathê ristette, sgranando gli occhi, istintivamente fece un passo indietro. Si era recata nel bosco presto, l’alba solo accennata, per raccogliere i fiori appena sbocciati, da vendere quella mattina.

Era rimasta basita, tuttavia, quando, a metà della sua spedizione, era letteralmente inciampata in quel giudice scuro dai capelli di luna che aveva ucciso Albafica, il suo Albafica, distrutto mezzo Rodorio, compreso il suo negozio, ucciso suo padre e rapito Eranthe, nel giro della stessa giornata, solo qualche mese prima.

Pensava fosse un cadavere, non fosse stato per i movimenti del capo e i suoi occhi grigi che si erano, lentamente, aperti.

“Sei tu?”
Le sfuggì dalle labbra incredule, ancora più stupite quando lo vide vulnerabile, porgerle il collo, come una belva ferita che chiede la pietà della morte.
La sua mano, in un moto di egoistica soddisfatta vendetta, era corsa al coltello che portava alla cintola, in fretta, prima che qualcosa potesse interferire.

Avrebbe vendicato il suo amore disperato, avrebbe reso onore a suo padre, avrebbe reso giustizia a Rodorio stesso.

Poi i suoi occhi verdi, sgranati si posarono sul Giudice del Grifone, malamente appoggiato al tronco di un albero, le ferite evidenti, il dolore che lo faceva tremare mentre lui tentava, disperatamente, di contenerlo, la Surplice distrutta, le sue ali maestose spezzate.

E, dentro di sé, Agathê ammise che, no, non sarebbe riuscita ad ucciderlo.

Le mani ricaddero mollemente lungo i fianchi, i fiori come una cascata si posarono accanto ai suoi piedi.

“Non posso”, ammise a mezza voce, più a se stessa che non all’uomo che la stava fissando con sorpresa.

“Sono troppo debole per farlo da solo”, ringhiò lui, stremato. “Non voglio la tua pietà”, sputò prima che un’idea prendesse forma nella sua mente annebbiata dal dolore.

“Conservala per la tomba del tuo caro Santo dei Pesci. Non sai quanto ho adorato sentire le sue ossa spezzarsi e la sua vita abbandonarlo.”

Chiuse di nuovo gli occhi, consapevole che, ormai, lei avrebbe colpito. E sorrise.

Solo per gemere quando avvertì le sue braccia all’apparenza così sottili ed esili strattonarlo ed ancorarsi salde al suo torso.

“Togliti tutto questo metallo da addosso”, ordinò lei, brusca. “Sforzati almeno di trascinare i piedi fino al carretto. Ti porto a casa”, concluse.

E lui, malamente gettato in un letto di fiori odorosi, veniva sospinto lungo la medesima strada polverosa che aveva distrutto, mesi prima, verso Rodorio.



Gli occhi saldamente serrati, cercando di combattere di nuovo quel chiarore inopportuno che cercava a tutti i costi di farlo tornare cosciente.

Avvertì le bende coprirgli le ferite, il braccio sinistro immobilizzato da stecche rigide, il corpo adagiato nella morbida accoglienza di un letto vero.

Maledisse il Santo dei Gemelli per non averlo semplicemente lasciato alla mercé del Giudice della Viverna.

“Sei sveglio?” Ancora la ragazza dei fiori. Gli porgeva un bicchiere d’acqua, dal quale lui bevve avidamente, troppo velocemente, più di quanto il suo stomaco riuscisse a trattenere.

Senza dire una parola, Agathe lo ripulì, cambiando il lenzuolo umido, il viso dall’espressione severa, conservava la dolcezza dei suoi lineamenti.

“Per...Perché?”, annaspò cercando disperatamente di parlare.

Lei sorrise, fermandosi a guardarlo negli occhi. “Se ti lasciassi morire”, iniziò, la voce bassa, “sarei esattamente come te”.
Prese un lungo sospiro prima di continuare. “Sarei come tutti voi, soldati che gli dei trattano come giocattoli, mandandoli a combattere le loro battaglie.”

Sorrise, mesta, i pensieri a quell’uomo bellissimo quanto letale.

“Io sono solo Agathe, una ragazza”, asserì, portando una mano sul petto, all’altezza del cuore. “Nonostante tutto, non potevo semplicemente voltare le spalle e fare come se nulla fosse”, concluse.

I suoi occhi si posarono di nuovo sul Giudice e lui vi lesse una saggezza profonda, una forza sopita che in rare occasioni aveva avuto modo di scorgere.

“Su, al Santuario, sta per scoppiare una guerra di proporzioni immani, qualcosa che noi, che abbiamo abitato qui tutta la vita, sentiamo nell’aria e nel cielo”, continuò. “Noi non avremo mai le vostre corazze, né la protezione delle stelle.” Scosse il capo. “Non avremo mai il nostro nome scritto negli annali degli eroi e nemmeno riconoscimenti e templi. Tuttavia”, spiegò posando una mano sulla sua spalla. “A noi spetta il gravoso compito, di continuare a vivere.”

Fece per andarsene, voltandosi, per impedire che lui, il suo formale nemico, scorgesse i suoi occhi lucidi, ma Minos le afferrò il polso.

“Lui...”, si schiarì la voce, cercando di alzare il tono e rendere chiare le parole. “Lui sarebbe stato fiero di te.”


NOTE:

Grazie, ancora e sempre, a Francine, al suo aiuto, sostegno, supporto e sopportazione.

  
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