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Autore: fourty_seven    29/05/2014    2 recensioni
Se vi state chiedendo chi io sia... beh lasciate perdere non ne vale la pena. Tuttavia per coloro che sono ugualmente interessati posso dire che sono un ragazzo con dei "problemi".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Apro gli occhi; il temporale è finito, ma il cielo non è ancora completamente libero dalle nubi scure; solo all’orizzonte vi è una striscia di cielo limpido e si vede il sole sorgere.
Rimango immobile a fissarlo. Anche quel giorno, quando ho ripreso conoscenza, era mattino, ma il sole purtroppo non si poteva vedere attraverso gli alberi; ma non sono sicuro che sarebbe stata una vista magnifica come questa.
Un refolo si vento mi fa rabbrividire; sono completamente zuppo e la temperatura non è esattamente la più adatta per poter restare seduto qua fuori. Mi alzo e rientro in stanza nell’esatto istante in cui mia madre apre la porta.
Ci blocchiamo entrambi; lei ferma sulla soglia, una mano sulla maniglia, io con metà corpo dentro e metà ancora fuori sulla tettoia. Restiamo fermi a fissarci per qualche istante, poi con noncuranza richiudo la finestra e vado tranquillamente verso l’armadio per prendermi dei vestiti asciutti; intanto lei non ha ancora mosso un muscolo.
Prendo i vestiti e vado verso la porta; sul volto l’espressione più serena che posso fare.
“Mamma mi faresti passare? Vorrei andarmi a fare una doccia”. Alza gli occhi verso i miei e mi fissa per qualche istante, poi scuote la testa e si sposta.
“Ma certo tesoro, vai pure!” mi risponde con una nota di isteria repressa nella voce; io esco.
Poverina, sto seriamente minando la sua sanità mentale.
Vado in bagno e mi piazzo sotto il getto dell’acqua calda rabbrividendo mentre il freddo accumulato durante la notte sparisce dalle mie membra.
All’improvviso starnutisco. Una volta, poi due, poi ancora e prima della fine della doccia il mio naso cola come una fontana.
Scendo in cucina per mangiare e ci trovo mia madre. Si volta e fa una faccia strana: “Stai bene?” chiede.
Io non capisco a che si riferisce; di solito evita di parlare di episodi come quello appena accaduto, non vuole avere niente a che fare con le mie “stranezze comportamentali”, come le definisce il mio psicologo.
“In che senso?” chiedo con una voce roca, dopodiché comincio a tossire.
“In questo senso. Ti stai ammalando?”. Scuoto la testa: “Do, ho solo preso trop-” e tossisco ancora, “Troppo freddo ieri pomeriggio”.
“Secondo me hai la febbre” e corre a prendere un termometro.
Ho la febbre, trentotto e due. Maledizione.
“Vai a sdraiarti e non muoverti” mi ordina. Io annuisco; vado sdraiarmi sul divano, non ho voglia di tornare in camera mia. Dopo qualche minuto arriva mia madre con una pastiglia di aspirina.
 
Passo tutta la mattinata sonnecchiando, solo nel tardo pomeriggio comincio a stare meglio. Verso le sei i miei escono per andare ad una cena di lavoro e io rimango a casa da solo.
Perfetto.
Chiudo gli occhi con l’intenzione di farmi un’altra bella dormita, quando suona il campanello. Mi volto verso la porta di casa, che è perfettamente visibile da dove sono; che faccio? Vado ad aprire? No, torneranno domani.
Mi sistemo meglio e chiudo nuovamente gli occhi, ma il campanello suona ancora. Sbuffo e mi alzo dal divano. Un pochino barcollante vado alla porta, la apro e vedo Sarah.
“Sarah? Che ci fai qui?” chiedo. Lei fa una faccia strana: “Che voce terribile! E che aspetto mostruoso!”.
“Grazie, molto gentile. Sono leggermente raffreddato”.
“Non lo avevo capito” dice in tono ironico. Mi sposto di lato a apro la porta.
“Entra pure se non hai paura di essere contagiata”.
“Userò una mascherina” entra e si chiude la porta alle spalle; io la precedo standole il più lontano possibile.
“Come hai fatto ad ammalarti?” chiede.
“È una lunga storia. Centra il temporale di ieri notte” dico, aspettandomi qualche domanda in più, che non arriva. Bene.
“Sei a casa da solo?”, io annuisco, “Ma ti hanno lasciato qualcosa da mangiare?”. Mi siedo sul divano.
“Penso di sì, ma sinceramente non ho molta fame”.
“Invece dovresti mangiare qualcosa” commenta seria.
“Da quando sei diventata mia mamma?”.
Lei si siede sul divano di fronte la mio, si porta una mano al volto e comincia a tamburellarsi la bocca con un dito, assumendo un’espressione pensierosa.
“Uhm, dunque... Da sempre penso” risponde e mi guarda dritto negli occhi.
Restiamo seri forse per due secondi, poi scoppiamo a ridere.
Però ha ragione.
“Allora mi dovrò preparare qualcosa” commento.
“Oppure ti posso preparare io la cena?”, io la guardo stupito.
“Sul serio, e tu?”.
“Mangio qui con te. Devo solo avvisare casa”.
E trascorriamo assieme il resto della sera. Dato che mi sento meglio mi obbliga a studiare qualcosa assieme a lei, poi ci mettiamo a guardare la tele.
Quando tornano i miei, verso mezzanotte, scopro che ci siamo entrambi addormentati davanti alla tele. Infatti veniamo svegliati da mia madre, che noto essere piacevolmente sorpresa dalla presenza di Sarah.
Si mettono a chiacchierare, poi, dopo una decina di minuti, arriva suo fratello che la riporta a casa. Mentre io vado a dormire.
 
Al mattino sono completamente guarito. Quindi mi tocca andare a scuola.
Va beh, mi divertirò per due ore durante matematica e dormirò per altre due durante biologia.
Appena arrivo in classe noto un particolare diverso dal solito. Seduta al banco, che ho occupato io per due giorni, vi è una ragazza, che potrebbe essere la legittima proprietaria.
Vado verso Sarah: “Buon giorno a tutte voi” dico; la nuova ragazza si volta subito verso di me, con un’espressione stupita.
“Sabrina lui è colui di cui stavamo parlando!” esclama allegra Samantha, al che le due si rivolgono uno sguardo complice. Sguardo che non passa inosservato nemmeno a Sarah: “La volete smettere! Come ve lo devo dire!” dice ad alta voce alle sue amiche.
“Noi non faremo più commenti del genere quando tu smetterai di passare la...” ma non finisce la frase perché Sarah le tira contro un quaderno.
“Ma come ti permetti!” le urla contro Samantha, quindi le lancia contro il suo astuccio. Io e le altre due scoppiamo a ridere.
“Asilo. Mio fratello quando litiga con i suoi amici si comporta in questo modo” commenta Carol.
“Quanti anni ha tuo fratello?” le chiedo.
“Sei, tra due mesi” e ci mettiamo ancora a ridere. Ritorniamo seri solo dopo qualche minuto.
“Lei, come penso tu abbia già capito, è Sabrina” mi dice Sarah, per evitare che le sue amiche aggiungano qualcosa.
“Adesso però dove si siede?” chiede Samantha, “C’è un banco vuoto, ma è là in fondo!” continua usando un tono di voce quasi disperato.
“Che problema c’è, un posto vale l’altro” rispondo, anche se non mi va molto l’idea di sedermi vicino ad altre persone.
“No! Tu devi stare qui, vicino a Sarah!” esclama ancora, come se fosse scioccata dalle mie parole. Io guardo Sarah che, sorridendo, mi fa segno che Samantha è po’ svitata. Poi arriva qualcuno e interrompe la conversazione.
“Ehi bellezze come ve la passate?”.
Mi volto e mi trovo davanti tre tipi. Mi mordo la lingua per evitare di mettermi a ridere: innanzitutto sono vestiti uguali, cambia solo il colore, pantaloni corti, anche se siamo in autunno, e maglietta a maniche corte, così da poter mostrare la loro abbronzatura, occhiali da sole e cappello tenuto con la visiera al contrario; per finire piercing: uno ce lo ha al naso, uno al labbro e l’altro al sopraciglio.
Mi passa un pensiero lampo: scemo, più scemo e ancora più scemo.
L’unica che li guarda è Sarah: “Lucas” dice con un tono di voce abbastanza scocciato. Uno degli altri due mi indica: “Sai chi è?” chiede a quello che penso sia Lucas il quale si volta a fissarmi. Dopo qualche secondo esclama: “Oh! Il nostro soldatino! Mi hanno detto che l’altro giorno hai fatto uno spettacolino divertente durante l’ora di storia, perché non lo rifai per me? Purtroppo me lo sono perso!”.
Mi vengono in mente tre possibili comportamenti: ignorarlo, mandarlo a quel paese o mandarlo a quel paese con un bel pugno in faccia.
Opto per la prima. E per fortuna lo faccio, poiché qualche secondo dopo si sente un “Hello everybody” segnale che è arrivato il prof.
Tutti si vanno sedere, quindi io comincio a camminare verso il banco in fondo all’aula, ma vengo fermato dal prof stesso.
“Tu!” grida indicandomi, “Qua” continua indicando un posto di fronte a lui, un posto già occupato.
“E io?” chiede il ragazzo già seduto.
“Tu là” risponde indicando il banco vuoto verso cui stavo andando.
“Perché?” chiede il poverino.
“Perché!? Qual è LA regola che vige qua dentro?”.
Il ragazzo non risponde, ma penso di essere in grado di indovinare da solo, soprattutto pensando alla statuetta che tiene sulla cattedra.
Mi siedo nel posto indicato, preparato per qualunque tipo di scherzo sadico da professore; tuttavia le due ore trascorrono tranquillamente senza strani eventi. Quindi non ho capito il perché mi abbia fatto mettere al primo banco.
Quando finiamo però noto un particolare; anche se indossa gli occhiali da sole, capisco che il prof mi sta osservando, come se si aspettasse qualcosa da me.
Io esco senza guardarlo.
“Però non puoi dire che non sia carino” sento dire da Samantha quando lei e le altre mi raggiungono. Sarah mi guarda e alza gli occhi al cielo esasperata, scommetto che non è la prima volta che è costretta ad affrontare una conversazione simile.
“Beh, è meglio di altri” le risponde Sabrina, “Ma dire che è carino mi sembra troppo!”.
“A me piace” continua imperterrita Samantha.
“Se è per questo a te piacciono molte cose che la gente normale troverebbe mostruose” commenta Carol, poi lei e Sabrina si mettono a ridere mentre Samantha guarda il soffitto con aria sognante.
“Purtroppo a Lucas interessa una persona sola” aggiunge abbassando lo sguardo su Sarah. Io rimango un attimo interdetto, poi chiedo: “Ma si sta riferendo a mister lampada abbronzante?”.
Samantha fa una faccia scioccata, mentre le altre scoppiano a ridere; “La sua è un’abbronzatura naturale! È cresciuto in California!”. Non rispondo perché Sarah mi spinge via allontanandomi da loro.
“Non ascoltarle. In questi occasioni non le sopporto proprio, penso che lo facciano apposta”.
L’aula di biologia si trova in un altro edificio, quindi per andarci dobbiamo attraversare il cortile e quando usciamo vedo nuovamente i tre tipi di prima, che stanno salendo su di un auto. Un auto che, a meno che non mi stia immaginando il cavallo nero rampante su campo giallo, è una Ferrari.
“Però il californiano non è messo male” commento e Sarah annuisce.
“Giusto per curiosità, la sua famiglia di che cos’è proprietaria?”.
“Di una concessionaria qui in zona”.
“E il figlio guida una macchina simile?!”.
“La situazione è un po’ più complicata. Mentre non c’eri sono cambiate, in peggio, un po’ di cose” non aggiunge altro e continuiamo a camminare in silenzio verso l’aula.
Appena entro mi dirigo immediatamente verso l’ultima fila e trovo ancora Jason intento a leggersi un libro. Questa volta mi saluta con un cenno del capo e io ricambio.
La vecchia, cioè la prof, ha già iniziato la lezione, ma qui in fondo la sua voce arriva poco, quindi sarei tentato di farmi una bella dormita; tuttavia prima di appoggiare la testa sul banco lancio un’occhiata a Sarah, che da qui è perfettamente visibile, e vedo che sta ridendo a qualche battuta che ha fatto il suo “compagno di banco”.
Improvvisamente cambio progetti.
“Scusa, per caso tu sai che argomento verrà trattato oggi?” chiedo a Jason.
“Penso che spiegherà il capitolo cinque” mi risponde, guardandomi come se fosse sorpreso che qualcuno gli abbia rivolto la parola.
“Okay, grazie”.
Apro lo zaino e scopro che miracolosamente qualcuno ci ha infilato dentro i libri giusti, io no di certo, dato che non ho alcun ricordo al riguardo. Comunque prendo il libro di biologia e lo apro al capitolo cinque.
Sono un sessantina di pagine e io ho due ore di tempo... se mi impegno potrei farcela.
 
Mi studio bene tutto il quinto capito, tutto, anche i trafiletti inutili.
Quando la lezione finisce vado al banco di Sarah, che sta ancora parlando con l’altro.
“Ehi ciao!” dico interrompendoli e ricevo un’occhiata poco amichevole da parte del tipo, che non ricordo più come si chiama.
“Interessante la lezione di oggi” dico ancora, entrambi mi guardano stupiti.
“Hai veramente seguito la lezione di biologia?!” esclama il tipo.
“Certamente, perché tu no?”, non risponde e abbassa lo sguardo imbarazzato.
“Comunque che programmi hai per oggi pomeriggio” chiedo a Sarah, dato che se non sbaglio non abbiamo lezioni pomeridiane.
“Ecco, in realtà io e Richard oggi pomeriggio dovremmo fare una ricerca assieme per un lavoro di biologia che dovremmo consegnare tra qualche settimana”.
“Ah, okay”. Rimaniamo tutti in silenzio per qualche secondo, poi parlo ancora: “Beh, allora io vado. Ci vediamo domani” e me ne vado.
Mi sento un po’ deluso, mi sarebbe piaciuto passare anche oggi pomeriggio con Sarah, ma pazienza, troverò qualcos’altro da fare.
Per prima cosa vado a casa a mangiare, poi, non so quale forza mistica mi spinge a farlo, provo a studiare qualcosa.
Ma mi stufo subito, così decido di farmi un giro.
Comincio a camminare verso il parco, ma all’improvviso cambio idea, non ho voglia di andarci; così prendo una strada a caso e comincio a camminare, senza prestare attenzione a dove vado.
Dopo un altro paio di svolte casuali mi ritrovo nella zona più malfamata della città.
Purtroppo, anche se non è una città molto grande, ha anche lei il suo “ghetto”; non ci sono stato molte volte, non è che sia un posto tranquillo in cui passare le giornate, anche se non si sono mai registrati livelli di criminalità come nelle grandi metropoli.
Continuo tranquillamente a camminare, ma qualcosa attira la mia attenzione: a qualche centinaio di metri vedo un paio di persone camminare molto velocemente; non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che una tiene in mano una mazza da baseball e non sembra per nulla un giocatore di baseball.
Affretto il passo per raggiungerli, sperando di sbagliarmi sul possibile utilizzo di quella mazza.
Si sente un urlo e chissà perché non mi stupisco quando li vedo mettersi a correre.
Mi metto anch’io a correre; dopo qualche decina di metri i due girano in un vicolo e io li raggiungo dopo qualche istante.
Ciò che vedo, anche se era ciò che sospettavo, mi lascia comunque stupito.
Contando anche me, ci sono cinque persone in questo vicolo; e di queste cinque ne riconosco immediatamente una: Jason.
È in piedi, quindi sovrasta tutti di una ventina abbondante di centimetri, e accanto a lui, accasciato contro un muro, c’è un tizio, dal cui naso cola un bel po’ di sangue e non sembra essere molto cosciente.
Non ho dubbi su chi lo abbia ridotto in quello stato.
Ovviamente Jason mi vede e mi riconosce, ma non c’è tempo per un amichevole scambio di convenevoli, dato che i due tizi, che ho seguito, i quali sono verosimilmente amici di quello steso a terra, decidono di spezzare il silenzio: “Sei morto bastardo”, “Questa volta hai osato troppo” e aggiungono altre frasi delle stesso stampo, ma con un linguaggio un po’ più colorito.
Dopo averne snocciolata una decina, si decidono ad agire; quello con la mazza fa un passo in avanti, alza l’arma sopra le testa, io gli appoggio una mano sulla spalla e dico: “Ehi!”.
Sentendomi gira involontariamente la testa, per vedere chi ha parlato, e gli tiro un pugno con tutta la mia forza; barcolla in avanti, mentre il suo compare mi guarda stupito. Tuttavia rimane fermo a fissarmi solo per qualche istante, poi si lancia contro di me, ma interviene Jason.
E scoppia una bella scazzottata.
 
Alla fine i due tizi si ritirano, portandosi dietro il loro compagno svenuto.
Io penso di avere un occhio nero, mentre Jason ha un taglio in fronte, dove quello con la mazza lo ha colpito di striscio.
Mi tocco l’occhio dolorante; già questo deve essere stato il destro del biondo, i due tizi erano uno biondo e uno moro, quello moro aveva la mazza. Comunque non è tanto importante l’occhio nero, quanto invece cosa dirò a mia madre per spiegarlo.
“Grazie amico” dice Jason, appena ha ripreso fiato.
“Di nulla; anche se forse avrei dovuto aiutare gli altri due”, sorride.
“Vieni, ho qualcosa per quell’occhio” dice ancora, questa volta sorrido io, poi si incammina e lo seguo.
Attraversiamo quasi tutto il quartiere prima di fermarci di fronte ad un vecchio condominio, in cui Jason entra.
“Ah, a proposito, io so chi sei, ma tu non conosci me” dice, mentre saliamo le scale.
“In realtà ci hanno pensato i nostri compagni a presentarci, ma l’unica che ho deciso di ascoltare delle loro parole è stato il tuo nome. Per esperienza personale so che la storia della propria vita raccontata da altri non è per nulla attinente alla verità”, annuisce.
Ci fermiamo di fronte alla porta di un appartamento.
“Se ti va ho una storia da raccontarti”.
“Uhm, anch’io”.
Apre la porta ed entriamo
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