Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Francine    30/05/2014    4 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Aphrodite
 

tutti qui i miei sguardi 
oltre il cielo in un salto 
per vederlo una volta dall'alto
 
 
 


Polidori aveva ragione.
Il crepuscolo in questi climi meridionali è quasi sconosciuto: il sole tramonta all'improvviso ed è subito notte, scriveva nella sua novella. E se al principio aveva giudicato quelle pagine un’accozzaglia di sciocchezze e fantasticherie, aveva dovuto convenire col medico italo britannico quando i suoi occhi erano incappati in quella frase. Perché per lui, abituato ai lunghi crepuscoli di Huskvarna, Jönköping, nello Småland, era stato difficile adattarsi alla luce ateniese.
Il sole in Grecia non scherza. È invadente, eccessivo, rapace. Quando albeggia, l’orizzonte si tinge di rosa già alle quattro del mattino, e la luce calda e spietata arriva piano piano, dentro casa, serpeggiando. Come dita protese ad illuminare – ghermire – tutte le forme di vita.
Non è il buio, quello da temere, in Grecia. È il sole.
Che bussa. Sulle palpebre calate, sulle persiane accostate, sotto le porte.
Che non aspetta che tu gli apra. Entra da sé. Senza chiedere permesso.
Che arde, brucia, incendia un cielo di un azzurro impossibile con la risata del ragazzino impertinente ed egoista.
È faticoso vedere, in Grecia.
E doloroso il sole, in Grecia.
Di giorno Apollo canta, suona la cetra e danza nel cielo, di nuvola in nuvola; ma quando il suo carro oltrepassa le vette dei monti ad ovest, tutto tace. Tutto si spegne. Come se qualcuno avesse premuto un interruttore.
Il crepuscolo ateniese c’è e non c’è. È un velo rosato, leggero ed impalpabile come quello delle spose. E prima che i tuoi occhi si siano abituati al cambio di luminosità, e prima che tu abbia compreso di trovarti nell’ora del crepuscolo, ecco che si fa buio. Un buio nero, pesto, cupo e profondo, rischiarato a stento dalle stelle, che assomigliano a quella luce che filtrava dalla porta che sua madre lasciava socchiusa e che lo accompagnava nei sentieri del sonno, tenendolo per mano.
Il crepuscolo in Grecia non esiste.
Polidori aveva ragione.
 
 
Quando lo aveva detto a Gerda, tuttavia, lei non l’aveva compreso. Si era limitata ad alzare lo sguardo su di lui e a fissarlo, un’espressione indecifrabile dipinta su quella maschera di carne marcia e sangue nero. I suoi occhi, gialli e gonfi, come pustole sulla schiena di un allettato, avevano incrociato i suoi, una muta richiesta di spiegazione a serpeggiare in quel barlume d’intelligenza malvagia che pareva animarli.
Lui aveva storto le labbra.
«Il crepuscolo», le aveva spiegato, giocherellando con una delle sue rose. Quella bianca e candida come la neve. E aveva indicato il cielo, sopra di loro. Un tappeto nero, come una cappa che si aggira per i vicoli umidi, e pesante, come le reti dei pescatori cariche di pesci. Come il fondo dell’inferno in cui avrebbe rispedito quell’essere. E stavolta avrebbe fatto in modo che non tornasse più a disturbare i vivi.
La creatura l’aveva fissato sempre più perplessa. Aveva assunto un’espressione dubbiosa – come se lui fosse stato pazzo a parlare di certe cose in un momento simile. Yngve aveva dovuto convenire sull’inopportunità della citazione, ma d’altro canto con chi altri avrebbe potuto affrontare un simile discorso? Quale momento migliore? Non era stata colpa sua, se s’era perso lungo i sentieri di una delirante novella romantica. Era stata colpa di Gerda, della creatura che il Sacerdote lo aveva mandato ad sradicare dal villaggio parrocchiale di Gammelstad, se il suo cervello si era baloccato con simili analogie. Poco male. Al Santuario non ne sarebbe arrivata notizia.
 
 
Don Kristian lo aveva aspettato fuori dalla chiesa in pietra, tra edifici rossi dalle imposte bianche e piccole stradine sterrate. Era un ragazzetto rubicondo strappato al lavoro nei campi che tremava di paura e si tratteneva – a stento – dal segnarsi, parlando della faccenda, come la chiamava lui.
«Mi dica quello che sa, padre. Per filo e per segno», era stato l’attacco, ed era rimasto ad ascoltare ad orecchie spalancate, mentre il suo sguardo cercava conferme nella mimica del ragazzotto. Era terrorizzato.
Qualcuno aveva portato il malocchio, in città. La morte. E il pio sacerdote temeva di avere per le mani una gatta da pelare che non era in grado di gestire. Di immaginare. Perché certi personaggi vanno bene per i racconti attorno al fuoco, come catarsi nelle lunghe notti d’inverno, quando persino il sole va a dormire; non a passeggiare per le stradine della tua parrocchia.
«Capisco», aveva detto lui, alla fine del racconto. Concedendosi qualche minuto per riordinare le idee e regalare attimi di genuino terrore a don Kristian. «Può accompagnarmi alla casa in questione, padre?»
Don Kristian si era limitato ad indicargli l’edificio – «Il terzo entrando in paese, vicino al cimitero» – a raccomandarlo a Dio nelle sue preghiere e ad augurargli buona fortuna. Yngve si era incamminato, sorridendo e pensando che se fosse bastato avere fede in Dio e snocciolare qualche preghiera alla sera per risolvere la faccenda, lui non si sarebbe dovuto scomodare a raggiungere l’angolo più settentrionale del Golfo di Botnia ammantato di neve. Perché la fede, da sola, non salva. Perché per certe questioni, occorrono degli specialisti. A ciascuno il suo. Al contadino i campi, al re il regno, al prete l’anima. E al santo, il mistero.
E all'eroe, il mostro.

 
La casa di Olle era stata cosparsa di acqua santa e benedetta per tre volte, ma non era bastato. La bestia era tornata ancora e ancora e ancora, ad ogni luna crescente che il buon Dio mandava in terra, lasciando alle proprie spalle una scia di morti al sorgere del sole. Olle era disperato. «Andarmene? E dove?», gli aveva detto. «Anche se emigrassi altrove, quella cosa mi conosce. E mi seguirebbe. E ucciderebbe la mia famiglia fino all’ultimo membro.»
E poco dopo che era sceso il buio, Yngve aveva sentito bussare alla finestra della sua stanza, mentre il fuoco scoppiettava allegro nel camino.
«Yngve Eriksson», aveva detto la voce. Di donna. Profonda e terribile, come se provenisse dal fondo di un pozzo prosciugato. Era una voce dura, di marmo e gelo. Una voce che non ammetteva repliche. Una voce che sembrava parlare direttamente al suo cervello. «Yngve Eriksson. Vieni.»
Aveva indossato la sua corazza ed era uscito.
Lei era lì. Ferma. Bianca come la neve, i capelli biondi impiastricciati di terra e sangue, il vestito ridotto ad un velo di ragnatela. Lo fissava coi suoi occhi vuoti, le braccia a ciondolare lungo il busto, il collo spezzato che ricadeva di lato, in maniera innaturale.
«Chi sei?», gli aveva chiesto. Sulla soglia della casa, la porta socchiusa e le braccia di lei ferme accanto al busto. Come una cosa morta.
«Io sono Gerda.»
Aveva risposto con dolore. Con fatica. Ma l’aveva fatto.
Gerda.
Quella che aveva portato l’epidemia. Da dove? Luleå, Göteborg, Malmö, Stoccolma, Uppsala o in un bosco lì accanto, poco importava. Lei era l’untrice. E lui avrebbe dovuto essere un bravo medico e arrestare l’infezione prima che sortisse altri danni. E dove deve stare il mestolo, se non nella pentola?
Saga sapeva di poter contare su di lui e sulla sua mancanza di compassione umana. Per questo l’aveva chiamato. Per questo lui avrebbe dimostrato al Sacerdote che aveva scelto bene, affidandogli quella missione.
Gerda lo fissava, stupita. Perché non riesco ad entrare, si stava chiedendo, e questo Yngve aveva potuto leggerlo chiaramente sul suo viso.
«Aconito», aveva spiegato lui, indicando lo stipite della porta. «Tiene lontane quelle come te.»
«Yngve Eriksson», lo aveva chiamato lei. Nel buio. Mentre le sue braccia no, non riuscivano a ghermire il suo collo. Voleva lui. Perché lui era quello pericoloso. Lui quello da eliminare prima di tornare a chiamare Olle e gli altri membri della sua famiglia. «Vieni.»
«Se ti fa piacere…», e l’aveva raggiunta all’esterno, una rosa nera tra le dita ed il mantello candido a danzare dietro di lui. Come un corteo di colombe.
Gerda era indietreggiata. Gemendo. Come se fosse stata una lumaca gettata in un barattolo di sale grosso.
«Perché?», gli aveva chiesto. Sinceramente stupita.
«Perché sì», le aveva risposto lui.
«È una risposta stupida», aveva commentato lei.
«È una domanda stupida.»
Lei l’aveva squadrato, sotto la luna sottile come un’unghia, coperta dalle nuvole per non prendere il freddo della notte di Marzo. Come se fosse stato uno scolaro indisponente.
«Aconito?», gli aveva chiesto. Ancora.
«Aconito», aveva risposto lui, omettendo di essere l’eroe. Quello che l’avrebbe ricacciata inidetro, una volta per tutte.
«Sei coraggioso», aveva asserito. Come se parlasse tra sé e sé. «Non riceviamo molti forestieri, qui», e alle sue orecchie quelle parole erano suonate come la più stupida delle menzogne.
Lui aveva sorriso alle sue labbra, bluastre ed enfie, mentre le si era fermato davanti.
«E i pellegrini? Quelli che in passato avrebbero dovuto riposare in queste case?», le aveva chiesto.
«Oh. Quello.» Lei aveva scosso la testa, i capelli si erano mossi come alghe umide sulle sue spalle nude e pallide. «Quello non esiste più da molto, moltissimo tempo. Questo paese ha perso il senso del sacro», aveva risposto. Sibillina. E su quegli occhi era sceso il velo del tempo.
Yngve si era specchiato in uno sguardo che aveva visto i secoli affastellarsi l’uno sull’altro, come fogli di giornale buono per accendere il fuoco. Come i ciottoli sul greto del fiume, dove da bambino aveva visto i gamberi salire a riva, la sera, sotto una luna di burro.
«Il senso del sacro.»
Aveva ripetuto quelle parole. Assaporandole, come fosse la salsa all’aneto da stendere sul salmone o lo sciroppo di sambuco di Astrid.
Il senso del sacro.
Quello che concorre a mantenere l’ordine nel cosmo. Quello che delimita gli affari degli uomini dagli affari degli dei. Quello che organizza e regola gli affari degli uomini e gli affari degli dei. Quello a cui forse quella creatura sottostava più di quanto lui non fosse disposto a credere.
Gerda aveva annuito. Gerda aveva sorriso.
«Lascia che ti mostri il sacro», aveva detto. Mentre il suo corpo era cresciuto a dismisura e le sue braccia erano diventate così lunghe da poter abbracciare la terra.
Yngve aveva sorriso di rimando. Per educazione. Ed era cominciata la danza.


 
Risparmiami, gridavano gli occhi di quell’essere ributtante steso al suolo. Yngve non aveva saputo dire a chi appartenesse tutto quel sangue che insozzava il terreno, se alla creatura stessa o alle sue vittime. Risparmiami, urlava, dritto nella sua mente. Il corpo di Gerda non avrebbe più potuto parlare. Le aveva squarciato la gola, da un capo all’altro, e gliel’aveva riempita dei petali delle sue rose. Quelle nere. Dal fusto robusto e le spine larghe. Quelle benedette da Athena. Le stesse che aveva usato per ancorarla al suolo.
Ora non occorreva far altro che attendere l’alba. E vegliare il corpo, fino a quel momento. Per evitare che se ne tornasse al sepolcro.
La vera Gerda era morta di parto, centocinquant’anni prima a leghe e leghe di distanza. Morta urlando e bestemmiando il nome di Dio, per il dolore ed il rancore. Per un figlio non voluto. Un figlio nato già morto. Un figlio che le avrebbe regalato la pace del sepolcro. Ma Gerda era giovane. Giovane, bella ed affamata, di vita e d’amore. E non avrebbe accettato l’eterno riposo tanto facilmente. Perché il buio fa paura. Perché il sole è dolce, in Svezia. Dolce e tenue, mentre spunta tra le nuvole. Non graffia gli occhi, non brucia la pelle, non abbaglia il viandante. Ma lo accompagna, per un poco. Anche quando è sceso oltre l’orizzonte, ad illuminare altri giorni.
Liberami!, aveva urlato la creatura, rabbiosa, marosa, impetuosa, mentre il cielo si andava tingendo di rosa, a est. Liberami, Yngve figlio di Erik. Liberami! O sarà peggio per te!
Lui l’aveva guardata, come a chiederle e a chiedersi cosa mai avrebbe potuto fare quella creatura ad un passo dalla morte eterna.
«Davvero?» Quella domanda era salita alle labbra spontanea, la curiosità del bambino che tutti amavano e vezzeggiavano, nonostante potesse ucciderli con le sue rose avvelenate.

Io vedo nel futuro, Yngve figlio di Erik. Io vedo il tuo futuro. Sei bello come le tue rose e forte come un vero guerriero. Ma non sei un eroe. C’è un’ombra su di te, Yngve figlio di Erik. Un’ombra che tu conosci. Un’ombra nera. E che ti porterà a bussare…

Non aveva aspettato che la creatura terminasse il suo vaticinio. Yngve le si era avvicinato, le aveva piantato la sua rosa candida nella schiena, lì dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore, e mentre la creatura si contorceva dal dolore le aveva afferrato la mandibola, lì dove i capelli ricadevano come alghe marcite, e le aveva staccato la testa con un gesto secco. Se ne era disfatto lanciandosela alle spalle, come un guscio di noce, e si era seduto, tra le case rosse dalle finestre bianche. In silenzio. Aspettando che il sole sorgesse e riducesse in cenere quel corpo immondo.


 
Polidori aveva ragione.
La notte in Grecia può essere nera come il fondo dell’inferno e densa come la melassa che ribolle sul fondo del paiolo. Come la marmellata di sorbo, pensa, mentre il vento gli porta altri odori e altri sapori. Il cielo è tempestato di stelle, lontane e fredde. Un palliativo alla paura del buio. Che ricordi al bambino che il sole sorgerà, domani. Che illumini la strada al viandante. E che tenga lontane le presenze maligne.
Polidori aveva ragione.
Perché il sole ti sorprende, con un'alba improvvisa, nell'ora più scura e buia che precede la luce. E loro non hanno tempo.
La terra del cimitero spande l’olezzo umido e dolciastro della decomposizione, che neppure le sue rose più potenti possono annullare. Non c’è più il mantello candido, a sventolare oltre le sue spalle, ma un drappo nero che lo riveste da capo a piedi. Yngve sorride, nella sua corazza fredda. Si intona con le rose piraña, dopotutto, pensa. Gerda aveva ragione. Come Polidori. È diventato un revenant come lei.  Ma si guarderà bene dall’ammetterlo, anche a se stesso.
Il Sommo Sion si volta. È tempo di andare. Di salire alla Tredicesima Casa per chiamare – per sussurrare – nella notte il nome di Athena. Perché esca a giocare con loro. Perché è giunto il momento che tutti aspettavano. E lui salirà ad avvisarla.
E mentre i suoi piedi si muovono in direzione della Prima Casa, in direzione di Athena, che li aspetta, lassù, oltre le stanze del Sacerdote, a Yngve sembra di sentire una risata echeggiare nella sua mente. Una risata profonda, buia e gelida. Come un pozzo asciutto. La risata di un Draugr.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Francine