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Autore: Stella_Bugiarda    31/05/2014    1 recensioni
Cosa nascondono le bambole? Forse anche loro possono provare emozioni? E se una vocina ti dicesse che sei una di loro, spingendoti ad odiare il mondo esterno, ad averne quasi paura? Paura di provare dolore, di essere ferita, in quel piccolo punto che custodisci gelosamente: il tuo cuore.
Quando per il mondo esterno diventi invisibile, inutile come un giocattolo usato, in quell'istante, diventi forse una bambola?
Lyla ha subito una forte umiliazione che, per quanto insignificante possa sembrare per gli altri, l'ha spinta ad isolarsi, considerandosi una bambola che non serve più a nulla; arrivando anche ad odiare il mondo esterno e chiudendosi in sé stessa. Qualcosa però cambierà nel suo cuore, allargando il suo piccolo mondo...
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Castiel, Debrah, Debrah, Dolcetta, Professor Faraize, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Doll
-Syndrome Doll-
Atto primo: La sindrome della bambola di stoffa.



"Sono solo una marionetta, una bambola di stoffa con cui il mondo si diverte a giocare, per poi gettarmi via come se non fossi neanche umana. Non guardarmi, sono una bambola maledetta..."

Salve, il mio nome è inutile, bé, non proprio, ma consideratelo un soprannome. Per le persone valgo meno di niente, come anche per la mia famiglia. Sono invisibile ed inutile come una bambola...
Vi siete mai chiesti che cosa provi una bambola o semplicemente un giocattolo? Io sì. Forse perché, infondo, mi sento una di loro. Le bambole, per quanto belle possano essere, prima o poi vengono gettate via, proprio come successe a me. Io, non  sono altro che una di loro: una fragile bambola di stoffa, gettata in un vecchio scatolone pieno di polvere, senza neanche chiedere che cosa ne pensassi o come mi sentissi, lì, sola, senza nessuno che riuscisse a capirmi; senza nessuno che si prendesse cura di me e ricucisse quegli strappi che mi ero procurata...
Quando si è diversi, nessuno ti considera o ti ascolta; diventi una nullità; un fantasma; solo perché sei diverso, perché non segui gli schemi. Nella tua diversità non vieni mai davvero amato o accettato, perché il mondo vuole solo dei manichini fatti tutti dello stesso stampino, se sei diverso, vieni messo da parte e dimenticato, come se fossi solo uno scarto della società. La società... Crea solo dei perfetti soldatini, che vestono, parlano, si esprimo e pensano allo stesso modo, come tanti cloni; come pecore che seguono la massa fatta di figure, che vogliono solo un mondo fatto di esseri umani uguali in tutto e per tutto.  Io non sono bella, magra come uno stecchino, né alta; non sono intelligente; ho uno strano senso dell'umorismo; non ho un corpo perfetto o un viso particolare; i miei occhi sono di un colore comunissimo; tutto di me è normale. Forse è per tutti questi motivi, che ho sempre fatto del mio meglio per non apparire invisibile, però... Alla fine... Il mio cuore è stato spezzato, frantumato in piccolissimi pezzi; il mio essere è stato trattato come una comunissima e vecchia bambola di pezza, che non è più come una volta. Le bambole sono amate solo fino a quando il loro aspetto è gradevole, ma quando poi passa il tempo, quando i capelli da setosi e luminosi diventano come la paglia; quando gli occhi vispi e i vestiti pieni di ricami diventano spenti e logori, è allora che viene gettata via. E' quello che accadde a me...

 Io, ho la sindrome della bambola...
Vorrei piangere, ma non posso, io non ho più lacrime; vorrei urlare, vorrei potermi muovere e scappare via, ma ormai, sono solo una rigida e insignificante bambola. Mi piacerebbe almeno provare dolore  o semplicemente amare, ma sono una bambola, e loro non provano niente... Non avevo neanche più il diritto di provare qualcosa.  "Rimani lì ferma, sta zitta e continua a fingere di essere un giocattolo usato." continuava a ripetere una vocina. "Non guardatemi, sono una bambola maledetta" rispondevo a chiunque osasse posare il suo sguardo su di me.

Sola al buio, riflettevo cosa veramente fosse la vita. Un vortice fatto solo di dolori e delusioni, illusioni e ipocrisia. Gli esseri umani, sono delle stolte creature che vivono nella mera illusione di un mondo perfetto, un mondo che in realtà sta andando a rotoli, un mondo che finirà per dimenticarsi di coloro che vi abitano, facendo spazio all'ipocrisia. La felicità in un'epoca come la nostra è solo un'utopia, da cui sarebbe meglio stare alla larga.

"Prima o poi tutto finirà, e allora, rimarrà solo un mucchio di polvere... Sciocchi, siamo noi esseri umani, a credere ancora alla favola della felicità... Noi siamo solo giocattoli, di cui un giorno il mondo si stancherà..."

A diciassette anni, non dovresti pensare a certe cose, ripeteva mia madre, ma io a quel tempo volevo solo scomparire dalla faccia della terra; sprofondare negli abissi più profondi; diventare una volta per tutte, quella bambola di pezza che per tanto tempo, ignoravo di essere.
Distesa sul letto della mia camera da letto, ammiravo il soffitto che in quel momento, mi sembrava molto interessante. Mi chiedevo come avessi fatto ad essere talmente cieca, da non accorgermi neanche che mi stesse solo usando per i suoi stupidi scopi. Debrah... Quel nome non solo m'irritava, ma mi faceva capire quanto lei - rispetto a me - fosse perfetta per quel cretino dal cuore di ghiaccio. Avevo fatto di tutto per essere come voleva la società, come voleva lui. Mi ero tagliata i capelli, li avevo tinti di rosso; avevo tolto gli occhiali e messo le lenti colorate, perché lui odiava il colore dei miei occhi; mi ero agghindata come una fanatica del rock (genere che non apprezzavo particolarmente), comportandomi proprio come faceva lui, arrivando anche a farmi disprezzare da persone, che ritenevo simpatici. Mi ero rovinata l'esistenza, avevo rovinato ciò che mi rendeva diversa dal mondo, perdendo la mia identità, solo perché credevo che infondo, anche lui mi amasse...
A quanto pare però, io ero solo una bambola di pezza che usava per  ingelosire l'oggetto dei suoi desideri...
Avrei dovuto capirlo, quando mi disse che non dovevo dire nulla della nostra relazione; avrei dovuto immaginarlo, quando mi diede uno schiaffo, solo perché volevo essere trattata come la  sua ragazza invece che come un'estranea; ma ero davvero troppo cieca allora.
Castiel... Il suo nome suonava in modo così strano, come se fosse solo un frammento, un piccolo frammento di una vita precedente, una vita che avrei tanto voluto buttare in un dirupo; seppellirla sotto metri e metri di terra; soffocarla, fingere che non fosse mai esistita.
Dopo la "rottura", ero diventata invisibile agli occhi di tutti, nessuno mi guardava o rivolgeva più la parola, persino le persone che credevo miei "amici", iniziarono a fingere che non esistevo. E così, lentamente, ero scesa nell'anonimato, diventando quella bambola a cui nessuno presta più attenzioni, perché vecchia e logora.
- Tesoro, è arrivato il tuo professore! - urlò mia madre destandomi dai miei pensieri poco piacevoli, peccato però, che il professore in questione, mi ricordasse ogni santo giorno di tornare a scuola; sì, perché avevo deciso di non frequentarla più, non avevo la minima intenzione di tornarci.
Alzandomi dal letto a malavoglia, posai lo sguardo sullo specchio che era appeso sulla parete arancione, vicino la porta. Erano passati davvero molti mesi dall'ultima volta che mi ero fatta la tinta; i capelli adesso non erano più corti, anzi, erano abbastanza lunghi. La mia ricrescita era castano chiaro, quindi potete immaginare che casino fosse accaduto. I miei capelli erano una massa informe, di due colori differenti. Le punte erano di un rosso scuro, da sembrare sangue, mentre il resto era castano. Il fatto che non mi facessi una piastra da quasi sei mesi poi, mi faceva sembrare una pecora, la Pecora Dolly, sì, il primo essere vivente ad esser stato clonato. Ero abbastanza dimagrita, ormai non riuscivo più a mangiare, se facevo due pasti al giorno - a volte uno -, era già tanto. I vestiti mi stavano tutti largi, ed erano per la maggior parte tutti da rocchettaro fanatico, ma non avevo la minima intenzione di buttarli, infondo, avevo sprecato molti soldi per comprarli, quindi avevo deciso di tenerli. Mi passai una mano tra i capelli, per pettinare quel ciuffo ribelle che copriva leggermente il mio occhio sinistro. Sbuffai rumorosamente e misi le mani sui fianchi. Il professor Faraize era una vera palla al piede, come anche la preside, che non mi dava un attimo di tregua. Ogni santissimo giorno, il professore - sotto incarico della preside - veniva a casa mia per portarmi i compiti che venivano assegnati a scuola, e controllava se avevo fatto quelli che mi portava il giorno precedente. Perché non si stancava di me? Era quella la domanda che mi facevo continuamente, una volta glielo dissi pure, ma lui si limitò a rispondere che ero una ragazza troppo brillante e non voleva che sprecassi il mio talento. Che poi, qual era il mio talento? Suonavo il pianoforte, la mia media a scuola era del sette, ma questo non significava che ero brillante. Ero solo una comunissima e banalissima diciassettenne complessata, che aveva paura del mondo esterno.
Presi il quaderno degli esercizi di matematica e mi apprestai ad uscire dalla mia camera. Percorsi il corridoio con passi lenti, pensavo a cosa mi aspettasse. Vedere persone estranee era diventato per me una sorta d'ansia. Varcata la soglia del salotto, vidi il professore che parlava con mia madre. Lì, fermo a parlare e ridere allegramente, c'era il mio "caro" professore, vestito come ogni santo giorno: maglioncino blu, camicia bianca sotto; jeans blu scuro e banalissime scarpe da ginnastica. I capelli castano scuro - praticamente quasi neri - erano pettinati come al solito, mi chiedevo chi fosse il suo barbiere, magari andava dal Scemo e più Scemo fun club. Quei gli occhiali poi, che portava sempre sulla punta del naso, lo rendevano ancora più... Noioso!
- Oh, ciao Lyla, non ti avevo vista, come va? - mi rivolse un sorriso, il migliore che la sua faccia potesse fare. Faraize era un uomo davvero strano, sembrava il classico tipo: vivo ancora con mia madre. Forse era per questo motivo, che si faceva mettere facilmente i piedi in testa dalla preside, dagli altri professori e persino dai suoi studenti.
- Come sempre professore, - risposi con voce atona.
- Ah, il tè! Vado a fare il tè! - disse mia madre affrettandosi ad andare in cucina. Chissà perché ogni volta che vedeva Faraize era tutta elettrizzata, qualcosa mi diceva che mia madre s'era presa una cotta.  Bé, dopotutto non mi sarei stupida, a lei erano sempre piaciuti i nerd, non a caso aveva sposato mio padre.
- Ecco tenga, questi sono i compiti di ieri, - mi affrettai a dargli il quaderno, sperando che se ne andasse il prima possibile.
- Bene, fantastico! - lo prese immediatamente e cominciò a sfogliarlo. Prese una penna che teneva in tasca (perché una persona normale tiene delle penne in tasca, certo!) e cominciò a scriverci qualcosa. - Eccellente come sempre, - annunciò "Già certo!" - Vedo però che hai ancora difficoltà con l'equazioni, ma d'altronde non sono certo io che devo correggere certe difetti, - rise istericamente e si grattò la testa. Per attimo mi chiesi se lui li sapeva risolvere quell'equazioni, dopotutto era un semplicissimo professore di storia, che ne sapeva di matematica? Credo che, se  li sapesse fare o meno, agli altri professori non importava, l'importante era che in qualche modo, mi convincesse a tornare a scuola. "Come se fosse così semplice convincermi!"
Non c'era più nulla da fare, io era un caso disperato, man mano che passava il tempo avevo sviluppato una certa fobia per il mondo esterno. Preferivo rimanere segregata in casa, nella mia camera da letto a scrivere o pensare, invece che uscire fuori come ogni normale essere umano. "Quando sei una bambola, non c'è alcun bisogno del mondo esterno" mi diceva una vocina, che io ascoltavo sempre.
Il silenzio cadde, non c'era molto di cui parlare con Faraize, era più noioso di un bradipo, solo guardarlo mi faceva venire sonno. Dopo qualche minuto buono, arrivò mia madre con il tè verde che aveva comprato in Giappone nel suo ultimo viaggio con mio padre. Odiavo quel tè, odiavo sia il sapore che l'odore, come facevano a berlo per me era ancora un mistero. Il professore lo trangugiò in due sorsi - era un mostro -, mentre io continuavo a guardarlo con disgusto.
- Non ti piace? - i suoi occhi violacei si soffermarono un attimo sui miei. Anche se il suo modo di fare era goffo e da vecchio... Non potevo negare che il realtà era un giovane professore di appena trent'anni, anche se sembrava molto più vecchio "Merito di quei cosi che scambia per vestiti, per non parlare di quell'acconciatura e degli occhiali alla Harry Potter"
- No, - risposi semplicemente.
Mia madre era davvero molto presa da lui, anche se non sapevo che ci trovasse d'interessante, era un normalissimo e noiosissimo professore di storia. Alzandomi dal divano, mi diressi verso la cucina per gettare quel liquido verdastro che mi guardava come per dirmi: avvelenerò le tue papille gustative. Lo gettai nel lavandino e aprii il rubinetto, facendo scorrere l'acqua. Lo scrosciare di quel liquido nel lavandino, mi rilassava, svuotava la mia mente dai pensieri più oscuri. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che avevo messo piede fuori da quella casa, che a malapena ricordavo com'era il mare. D'estate Sète era bellissima, ma anche d'inverno non mi dispiaceva. L'odore del mare; il sapore salato sulle labbra; la sabbia sotto i piedi; la brezza del vento che mi accarezzava dolcemente; più di ogni altra cosa era quello che mi mancava. Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi che si avvicinò a me per chiudere l'acqua.
- Sprecare l'acqua di questi tempi, dovrebbe essere considerato un reato, - la sua voce mi attraversò la mente. Voltandomi leggermente verso di lui, notai che si era tolto gli occhiali, senza, i suoi occhi si notavano molto di più, di certo non erano comuni come i miei, che erano di un banalissimo nocciola.
- Scusi, - davanti a lui non riuscivo mai a formulare più di una frase, non perché mi mettesse in soggezione, ma perché non c'era proprio niente da dire. - Voleva qualcosa? - mi affrettai a dire notando che, se era in cucina, significava che aveva bisogno di qualcosa.
- Nulla di particolare, volevo solo... - si passò una mano tra i capelli leggermente imbarazzato, - ecco... Tua madre mi ha chiesto se... Be, - diventò bordeaux, - se potevo portarti al mare, - a quelle parole sbiancai di colpo. "Professore più mare, più studentessa complessata con la paura del mondo esterno, uguale: catastrofe. Digli di no, digli di no!" diceva la vocina seriamente impaurita.
- Preferirei di no, - dicendo così mi affrettai a lasciare quella cucina che era diventato un ammasso d'imbarazzo.

"Le bambole che sono state gettate, non possono essere raccolte come se non fosse successo nulla. Anche gli oggetti hanno dei sentimenti!" affermava la vocina infastidita, non potevo darle torto, dopo tutto quello che era successo, non era proprio il caso di ricominciare ad illudermi.

- Perché no? Mi reputi quel genere di uomini? Vorrei solo che uscissi dal tuo guscio e tornassi ad essere la ragazza di un tempo, - si avvicinò.
- La ragazza di un tempo...? - analizzavo quelle parole, le pesavo per capire che valore avessero nel mio mondo fatto d'illusioni frantumati. La rabbia mi assalì. - Quella ragazza non è mai esistita! Era solo un'illusione che mi ero creata, è questa la vera Lyla!- affermai con tono adirato. Che ne sapeva lui di me? Non mi conosceva affatto, nessuno conosceva la vera Lyla, nessuno!
Lanciandogli un ultimo sguardo, mi apprestai ad andare in camera mia. Chiudendomi la porta alle spalle, sprofondai a terra, le gambe non riuscivano a reggermi, le sentivo molli; le mani tremavano e sentivo i battiti accelerati, tutta colpa dell'adrenalina che era salita a mille. Rispondere in quel modo, ad una persona adulta, non era da me, non della Lyla taciturna e riservata. Prima che venissi "gettata", prima di diventare una bambola che il mondo non voleva, ero diversa, talmente diversa, che mi son sempre chiesta se fossi veramente io. Mi alzai lentamente; appoggiandomi alla scrivania, presi un piccolo album di fotografie, lo aprii e sfogliai le pagine come se fosse un vecchio libro che raccontava una storia triste. Erano passati quasi due anni da quando tutto cambiò. Dopo anni a girovagare in giro per il mondo, finalmente i miei genitori decisero di trasferirsi definitivamente, ciò significò una nuova scuola, nuova città e nuove persone da conoscere. Per me fu quasi una benedizione, o almeno lo fu all'inizio; per colpa dei troppi trasferimenti non ero mai riuscita a farmi degli amici, inoltre ero piuttosto timida e quindi finivo sempre con l'essere isolata, quindi per me quella era un'occasione per avere almeno un amico, ma non fu proprio così... Entrata al nuovo liceo, finii con l'innamorarmi del peggior essere vivente esistente sulla faccia della terra. Castiel... Il classico cattivo ragazzo, che speri di poter cambiare con le tue attenzioni e il tuo amore; peccato però, che non è tutto  come viene descritto nei romanzi rosa o in quelle stupide commedie romantiche, la realtà era ben diversa...
Non sapevo cosa mi piacesse di lui, sapevo solo che il cuore mi batteva a mille; le gambe tremavano; sentivo le farfalle allo stomaco e sudavo come un cavallo, ogni volta che l'avevo vicino o semplicemente incrociavo il suo sguardo. In pratica ne ero terribilmente innamorata, ma tutto finii nell'istante in cui venni umiliata di fronte a tutta la scuola. Umiliata, usata e gettata via come se fossi solo uno straccio usato, come un giocattolo vecchio con cui ti sei stancato a giocare; venni abbandonata come un povero e indifeso cagnolino, che non porti con te in vacanza perché sarebbe di troppo. Ecco, io ero di troppo, il solo fatto che esistessi, intralciava la sua vita...

"Io odio il mondo, odio le persone... Detesto i bambini che giocano con i sentimenti degli altri; odio tutto ciò che mi ricorda che sono inutile a questa società fatta di cloni e manichini... Se le bambole potessero parlare, direbbero le stesse cose..."
 E' questo quello che pensai nell'autunno dei miei diciassette anni...




~L'angolo della bugiarda~
"Si sa, che le bugie hanno le gambe corte e il naso lungo, chiedete a pinocchio..."

Shiau a tutti, codesta schifezza che avete avuto la (s)fortuna di leggere è la mia prima FF che pubblico, comprendo che non è un granché, ma volevo comunque provarci. Ogni commento è gradito, sia positivo che negativo, l'importante è che non offendete. So perfettamente che non sono una cima in grammatica, inoltre la storia è piuttosto banale, ma di meglio non so fare, scusate!
L'idea mi è venuta in un momento di depressione totale, penso che tutti almeno  una volta nella propria vita si sia sentito inutile, come un giocattolo dimenticato, solo perché vecchio e malandato.
Non ho idea se esista davvero una sindrome simile - quella della bambola -, ma dopo aver letto il manga di Kodomo no omocha, non potevo non infilarci dentro la cosa, anche se è completamente diverso da quello che prova Sana.
Avrò ripetuto la parola "bambola" un casino di volte, abbiate pietà, ve l'ho detto che non sono una cima in grammatica :'3
Bé, spero che questa mia piccola FF piaccia e che commentiate >_<
A presto!
P.S. Lo sgorbio ad inizio capitolo l'ho fatto io, dovrebbe essere Lyla. Non abbiate paura, non morde! Almeno spero XD
   
 
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