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Autore: bloodred_rose    04/08/2008    3 recensioni
Quindici anni e mezzo. Da quindici anni e mezzo non vedevo altro che quella cella, quella fessura, quel minuscolo frammento di cielo all’esterno, quella porta di nero legno massiccio, quello sportello per far passare il cibo senza dover vedere il disgraziato all’interno. E in questo caso il disgraziato ero io, rinchiuso in quell’anticamera d’Inferno senza altra colpa se non quella di possedere un cuore, tenuto in vita dalla speranza che un giorno sarei risorto per vendicarmi. *** La mia prima ff... siate clementi!! ^^'
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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QUINDICI ANNI E MEZZO

 

Buio e freddo. E umidità, molta umidità. Ma d’altronde quella era pur sempre una cella, una cella con i muri di pietra e una minuscola fessura che faceva da finestra. Il filo di luce che entrava illuminava i segni di un raccapricciante color rosso scuro sulle pareti. Lugubre, vero? No, non era sangue di un prigioniero pazzo, solo il frutto di uno stancante lavoro di calcolo fatto con un frammento di mattone. Quindici segni, più uno lasciato a metà. Quindici anni e mezzo. Da quindici anni e mezzo non vedevo altro che quella cella, quella fessura, quel minuscolo frammento di cielo all’esterno, quella porta di nero legno massiccio, quello sportello per far passare il cibo senza dover vedere il disgraziato all’interno. E in questo caso il disgraziato ero io, rinchiuso in quell’anticamera d’Inferno senza altra colpa se non quella di possedere un cuore, tenuto in vita dalla speranza che un giorno sarei risorto per vendicarmi. Dicono che la speranza sia sempre l’ultima a morire. Chiunque lo dica ha ragione, credetemi. I primi anni speravo di convincere i carcerieri a farmi uscire, poi cominciai a pregare nella speranza che Dio potesse salvarmi. Arrivai persino a considerare il suicidio, sperando di poter trovare un modo per vendicarmi anche dall’aldilà. Naturalmente non ci provai mai per davvero, ma le mie speranze svanirono come fumo. Perché in fondo, alla fine, anche la speranza muore. E, come potete vedere, nemmeno chi afferma ciò ha torto. Dopo quindici anni e mezzo passati là dentro non credevo più in niente che non fosse la dura e cruda realtà: ero in galera e ne sarei uscito solo morendo o, molto poco probabilmente, vendendo l’anima al Diavolo. Eppure un giorno qualcosa mi spinse a ricominciare a sperare e a credere: dopo quindici anni e mezzo la porta della mia cella si aprì. E ad entrare non fu un carceriere, ma un uomo e, fidatevi di me, c’è molta più differenza di quanto non crediate. Oltretutto quell’uomo era un lord, niente meno, e la cosa mi sembrava più interessante ogni istante che passava. Mi alzai in piedi e lo salutai cortesemente, abitudini dure a morire anche dopo quindici anni e mezzo passati in galera. Lui rispose con un semplice cenno del capo, poi si richiuse la porta alle spalle e mi squadrò attento. Per un attimo riuscì anche a farmi sentire in imbarazzo.
«Chi siete?» chiesi allora con la voce roca per il poco uso che ormai ne facevo. Mi fissò ancora per qualche secondo, poi mi rispose:
«Lord Trevor D’Vhille. Ora, mi piacerebbe sapere il vostro nome, e quale delitto abbiate commesso per trovarvi qui.» La sua voce era sottile e poco profonda, ma molto, molto suadente, anche troppo per i miei gusti.
«Prima ditemi perché siete qui.» Non ero nella posizione di dare ordini, lo so, ma quell’uomo mi incuriosiva e mi spaventava al tempo stesso.
«Sapete, non è cortese rispondere ad una domanda con un'altra richiesta.» Mantenni stoicamente la calma, ma il mio sguardo si incupì, mentre mi decidevo a parlare.
«Il mio nome è Gabriel. Sono qui senza altra colpa se non quella di aver amato la donna sbagliata.» Mi sembrò di vederlo fare una smorfia, ma non posso giurarlo.
«
Siete qui per amore?» chiese incredulo «Ci dev’essere uno sbaglio…ma, vi prego, raccontatemi tutto, perché immagino che ci sia sotto qualcosa di più.» Immaginava bene. Così comincia la mia storia con un sospiro.
«Amavo una donna, una donna bellissima, si chiamava Isabella…»
«Si chiamava?» mi interruppe vagamente sorpreso «Cosa le è successo?»
«Non posso esserne certo, sono rinchiuso qui dentro da quindici anni e mezzo, ma era incinta di mio figlio quando fui arrestato e se non è morta dandolo alla luce allora avrà subito una sorte anche peggiore da quel bastardo di suo marito se ha capito che il padre sono io e non lui.» Avevo pensato a lungo a quello che effettivamente poteva esserle successo e quelle erano le uniche conclusioni che ero riuscito a trarre. Lord Trevor mi guardava in attesa che continuassi, ma non avevo molto da aggiungere.
«L’avrei ucciso se Isabella me l’avesse permesso, ma lei non voleva scandali e mi minacciò di andarsene se avessi provato ad attuare i miei piani. Così, alla fine, il bastardo ci scoprì e quando vide che ero io l’amante di sua moglie rimase così…stupito, e deluso, forse, che ho ancora in mente la sua espressione.» Allora risi al ricordo e ne rido ancora adesso. «Fu lui stesso a portarmi qui. Entrò con me, poi se ne andò, si chiuse la porta alle spalle e gettò via la chiave.» Il rancore colava dalle mie parole come miele da un fuso. Avevo parlato troppo, ma non avrei detto una parola di più se non per chiedere spiegazioni.
«Sapete chi è l’uomo che vi ha rinchiuso qui?» mi chiese incuriosito.
«Sì.» risposi secco, senza esitazione «Ma non vedo come il suo nome posa importarvi.» aggiunsi vedendolo già pronto con la domanda. L’uomo sorrise e piegò il capo. Era il momento di scoprire la fonte della mia momentanea fortuna.
«Perché siete qui? Che cosa volete da me?» Per un attimo rimase in silenzio soppesando le parole, poi, con un tono che mi fece venire i brividi, disse:
«Sono qui per offrirvi la libertà.» Spalancai gli occhi, convinto che mi stesse prendendo in giro, sentendomi sul punto di svenire. Libertà. Che suono dolce aveva quella parola che ormai avevo quasi scordato. Però il dubbio rimaneva: che diavolo voleva quell’uomo da me?
«Naturalmente» riprese come se mi avesse letto nel pensiero «voglio qualcosa in cambio.» E il modo in cui lo disse, con quel suo sorriso storto, mi fece gelare il sangue nelle vene. Quell’uomo cominciava seriamente a farmi paura, ma il profumo della libertà, vicino come mai prima d’ora, mi stordiva al punto da farmi dimenticare persino il mio nome.
«Quanto vale la mia libertà?» domandai con voce bassa.
«Voi quanto siete disposto ad offrire?» Sorrideva, continuava a sorridere e sapeva già la mia risposta.
«Tutto.»
«E se io vi chiedessi di uccidere un uomo per uscire di qui?» Di nuovo, sapeva già cos’avrei detto e il suo sorriso si allargò ancora di più.
«Per la libertà questo ed altro.»
«Badate che è un grande guerriero quest’uomo…» Continuava a darmi l’impressione di sapere, e questa volta non solo la mia risposta, ma anche tutto quello che non avevo detto nel mio racconto. Aveva ripreso a squadrarmi così attentamente che sentivo i suoi occhi piantati nella mia anima. Un rivolo di sudore freddo mi scese lungo la schiena mentre parlavo.
«Ditemi il nome ed entro un anno avrete la sua testa su un piatto d’argento.»
«Posso starne certo?»
«Io pago sempre i miei debiti.» Il suo sorriso, inquietante nella luce sanguigna del tramonto, si allargò a tutto il volto.
«Splendido!» Si avvicinò, mi poggiò una mano sulla spalla e mi attirò a sé. Poi, con le labbra accostate al mio orecchio, sussurrò il nome. E nel silenzio della prigione echeggiò la mia risata soddisfatta per quella vendetta che finalmente mi veniva concessa.

 

 

Pioveva quella notte e mai la pioggia mi era sembrata più bella. Lavava via quei quindici anni e mezzo di sofferenze e prigionia, mi lasciava più leggero, mi faceva sentire libero con ogni sua goccia che mi sfiorava la pelle. Spalancai le braccia per lasciarmi avvolgere da quella splendida sensazione e per la prima volta dopo quindici anni e mezzo sorrisi, finalmente felice. Ora, grazie a quell’uomo misterioso, potevo comprarmi una nuova vita e vendicarmi, fregandomene altamente della morte perché non mi faceva più paura ora che ero di nuovo un uomo libero. Ho pochissimi ricordi dei giorni successivi alla mia liberazione forse perché ero troppo impegnato a riprendere il contatto con la realtà, bruscamente interrotto quindici anni e mezzo prima. La mia memoria riprende a seguire un filo coerente solo con il ricordo del mio arrivo a un castello o, per essere più precisi, al palazzo reale, dalla mia bellissima Isabella, incontro alla mia vendetta e al debito che dovevo pagare a lord Trevor. Mi aveva chiesto di uccidere un uomo, un uomo che conoscevo come le mie tasche e il cui nome era Rafael Dargon. Il marito di Isabella. L’uomo che mi aveva distrutto la vita. E non solo questo. Inizialmente non mi fecero entrare, ma lo presi come un buon segno: significava che nessuno mi aveva riconosciuto e d’altra parte come dar loro torto? Nessuno mi vedeva più da quindici anni e mezzo e la prigione mi aveva cambiato profondamente sia nel corpo che nello spirito. Vidi passare il castellano, gli anni erano stati molto meno clementi con lui che con me, e lo presi in disparte senza che lui capisse chi io fossi. Avevo un solo modo per entrare e sapevo che avrei dovuto giocare al meglio le mie carte e le mie doti da attore.
«Sono un amico di vecchia data del re.» esordii con il mio sorriso migliore «Vorrei parlare con Rafael, è possibile?»
«Sua Maestà il re in questo momento è occupato, ma posso farvi annunciare più tardi.» rispose ossequioso.
«No, amico mio, è una cosa troppo urgente. Va’ a dirgli, e usa le mie testuali parole…» presi un profondo respiro «che Gabriel è tornato.» L’uomo sgranò gli occhi e fui costretto a tappargli la bocca con una mano prima che si mettesse a urlare di gioia. La tolsi solo quando si fu calmato. Aveva le lacrime agli occhi e tremava tanta era la felicità di rivedermi. Intuii che Rafael non gli aveva detto nulla di quello che mi aveva fatto. Mi fece entrare e mi condusse in un’ala isolata del palazzo, sempre più vicino alla mia meta. Oltrepassò una porta e mi lasciò lì ad aspettare fino a quando non sentii una voce simile alla mia urlare. Vidi il vecchio castellano uscire dalla stanza con il volto pallido e subito dopo apparve lui.
«Sembri stupito di vedermi, Rafael.» Dentro di me ridevo come un pazzo per la sua espressione: se si fosse trovato davanti un fantasma sarebbe sembrato meno sconvolto. Ma in fondo anche io per lui dovevo essere un fantasma. O per lo meno un morto. Senza attendere un suo permesso lo superai ed entrai nella stanza. All’interno c’era solo un ragazzino che dava quindici anni al massimo. Quando si voltò vidi la mia immagine riflessa in uno specchio con vent’anni di meno e gli occhi neri come il peccato. Il figlio di Isabella. Mio figlio.
«Io e quest’uomo dobbiamo parlare. Lasciaci soli, Gabriel.» Mi girai a guardare Rafael e capii che si rivolgeva al ragazzo. Ghignai.
«Gentile da parte tua dargli il mio nome. Anche se immagino che sia opera di sua madre.» Estrasse fulmineo la spada e me la puntò al petto.
«Tu sua madre non sei nemmeno degno di nominarla!» Erano quindici anni e mezzo che non aspettavo altro.
«Tu dici, fratello?» Fratello. Quella parola mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Forse era troppo tempo che non la usavo. O forse il nostro tradimento aveva lasciato il suo segno. No, non ho mentito, ma ho tenuto nascosto un particolare interessante della mia storia. Rafael Dargon non era solo il marito della donna che amavo e l’uomo che mi aveva fatto arrestare. Era anche mio fratello. Io sono stato il primo traditore, non accettando che Isabella fosse solo sua. Ma lui tradì il sangue che ci scorreva nelle vene sbattendomi in galera. E ora, dopo quindici anni e mezzo, lo sfidavo sotto gli occhi di mio figlio, sangue del mio sangue e allevato da Rafael. Ci giravamo intorno, le lame parallele che riflettevano la luce delle candele, gli occhi che rimandavano lo stesso sguardo carico d’odio, i nostri cuori neri avvolti dalle stesse fiamme d’Inferno.  
«Non c’eri tu mentre soffriva, mentre piangeva, non c’eri tu mentre moriva per dare alla luce suo figlio!»
«Mio figlio, Rafael! Se stai dicendo la verità, abbi il coraggio di dirla tutta!» Il ragazzo ci guardava confuso, non sapeva più cosa pensare, ma aveva capito tutto. Mi voltai per guardarlo negli occhi. Erano identici a quelli di Isabella.
«Lasciaci, Gabriel.» mi fece uno strano effetto chiamarlo con il mio stesso nome. «Io e tuo zio abbiamo da risolvere una faccenda rimasta troppo a lungo in sospeso.» Per un secondo, un secondo soltanto, cercò consenso negli occhi di mio fratello, poi, tenendo lo sguardo fisso su di me, uscì dalla stanza. Eravamo soli. Io e mio fratello. Gabriel e Rafael. Rafael e Gabriel. Dargon. Due nomi, un solo peccato. Quello del tradimento.
«Perché sei tornato?» mi chiese tenendomi sempre sotto tiro con la spada.
«Per finire quello che abbiamo cominciato quindici anni e mezzo fa.» Lui annuì. E finalmente il nostro duello potè avere inizio. Quel giorno uno di noi due sarebbe morto, ma fino alla fine sarebbe stato difficile indovinare chi, perché per anni avevamo combattuto insieme, come bambini con spade di legno all’inizio, come soldati in piena guerra anni più tardi. E per una sola sera, quindici anni e mezzo prima, anche come avversari. Conoscevamo l’uno le mosse dell’altro ed eravamo in grado di prevedere anche gli attacchi più sleali. Tutto perfettamente equo, fino alla fine, fino a quel secondo di tregua, troppo stanchi persino per riprendere fiato. Continuavamo a combattere con sguardi taglienti come le lame, ma che forse ferivano di più per tutte le parole non dette e per tutto l’odio che trasmettevano. Non poteva continuare così. Dovevamo mettere un punto di fine a tutto questo. Ancora una volta il destino si fece beffa di noi. La stessa idea, lo stesso istante, lo stesso affondo. Sentii la voce di mio fratello gridare di dolore assieme alla mia. Cademmo in ginocchio, sempre uno di fronte all’altro, feriti a morte, ma meno stupiti di quanto avremmo dovuto essere. Il pavimento di marmo bianco si macchiò di sangue, il nostro sangue di fratelli, di traditori, di dannati. Con uno sforzo immane estrassi la spada di Rafael dal mio ventre e sentii una colata calda bagnarmi le mani. Altro sangue, ma questa volta solo il mio. Alzai gli occhi e vidi che mi fissava come aveva fatto mio figlio prima. Il suo sguardo era opaco per il dolore, ma potevo leggervi quello che mai mi sarei aspettato: affetto. Era riuscito a perdonarmi, nonostante tutto. Io non sono mai stato capace di farlo. Mi avvicinai a lui, lo abbracciai e, con le lacrime agli occhi, gli trafissi il cuore con la sua stessa spada. Rafael Dargon, figlio, fratello, marito, padre e re, morì tra le mie braccia. Mi lasciai cadere all’indietro, sempre stretto al corpo di mio fratello, e vidi un’ombra uscire dall’oscurità per prendere la forma dell’ultimo uomo che mi sarei aspettato di vedere.
«Ho pagato il mio debito.» sussurrai con un filo di voce. Quando lo vidi sogghignare mi fu tutto improvvisamente chiaro. Esalai l’ultimo respiro guardando il Diavolo che, ancora nascosto dalla maschera di lord Trevor, ci tendeva la mano sorridendo sornione.  

 

***

Note dell'Autrice:
Questa è la mia prima ff quindi chiedo clemenza se è illeggibile... e poi è nata quando ero a letto con 38 e mezzo di febbre, per cui...!
Spero vivamente che vi piaccia... Fatemi sapere e lasciate una minuscola recensione, anche negativa! ^^'


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