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Autore: mamie    31/05/2014    11 recensioni
Un'antica leggenda narra che Giulio Cesare, attraversando il Rubicone, combatté una ferocissima battaglia e poi continuò l'inseguimento dei nemici, lasciando sul campo morti insepolti e moribondi. Un suo fedele e coraggioso tribuno, ferito, resistette tre giorni lottando coi lupi prima di morire. Lo trovarono alcuni pastori che, impietositi, lo seppellirono in un antico sarcofago di pietra.
Giulio Cesare, vicino alle idi di Marzo e insonne, sogna il suo antico compagno...
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie '... e di altre Storie'
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LA MALANOTTE
 
L’incubo lo svegliò, fradicio di sudore. Si mosse lentamente, per non disturbare Calpurnia che dormiva. Era caldo, la primavera più afosa degli ultimi dieci anni. Cesare uscì nel cortile per prendere qualche boccata d’aria fresca. La casa dormiva, alla luce della luna piena luccicava quieta l’acqua nell’impluvium. Stava per chiamare uno schiavo, per abitudine, ma si trattenne. Si mise a sedere invece sulla panca di pietra, che per lo meno riusciva a dargli un po’ di refrigerio, e ripensò al sogno.
 
Aveva sognato Quintilio. Non gli capitava da tempo di fare quel sogno.
Non l’aveva sognato com’era da vivo. Aveva visto la sua ombra nell’Ade, la sua ombra insanguinata e colma di rimprovero.
 
Te ne sei andato.
 
L’accusa gli bruciava ancora, dopo tutto quel tempo.
 
Hai lasciato i tuoi morti insepolti sul campo di battaglia e te ne sei andato, tanto eri impaziente di giungere all’Urbe. Li hai lasciati imputridire per tre giorni, finché non sono arrivati i pastori dai monti a compiere l’opera pietosa che tu dovevi fare; tu, nostro generale, a noi che eravamo morti per te.
 
Quante volte si era sentito rivolgere quell’accusa dai propri avversari? E lui rispondeva sempre che per afferrare la vittoria spesso si deve calpestare la pietà.
 
Io non ero morto. Mi sono svegliato tra il freddo dei cadaveri che mi si erano ammucchiati attorno. Mi sono svegliato e c’era solo un silenzio di pietra, e l’oscuro fruscio del fiume nella notte.
 
Il volto di Quintilio aveva il colore della cenere, gli occhi erano spenti. Eppure se lo ricordava bene quel volto, colmo di entusiasmo, di gioia, di speranza. Si ricordava il faro di quella chioma bionda, così rara che gli aveva spesso procurato battute pungenti fra i compagni, emergere a tratti dalla carneficina in cui tutti erano precipitati come bestie impazzite all’odore del sangue. Si ricordava la fitta di dolore che aveva provato non vedendolo più fra i vivi. Ma non c’era tempo per il dolore, non c’era tempo per la morte.
 
Mi sono svegliato e ho chiamato i compagni, e ho chiamato te, e mi hanno risposto solo i lupi che ululavano fiutando un facile pasto. Mi sono trascinato, cercando un aiuto che non c’era. Ho gridato e gridato finché non ho avuto più voce. Alla fine ho invocato la morte, ma nemmeno lei ha avuto pietà di me.
Avevo la febbre e mi tormentava la sete che a malapena potevo spegnere con l’acqua fangosa del fiume. Di giorno sentivo il gracchiare dei corvi e di notte il respiro ansimante dei lupi. Ed era freddo, un freddo orribile che mordeva la schiena. Tre giorni, Cesare, nostro grande generale. Puoi immaginarlo? Sì che puoi.
 
L’immaginazione. Che bella cosa. Che cosa orribile. Cesare non poteva fare a meno di immaginare. Di cose atroci ne aveva viste, e anche compiute, ma quell’immagine gli pesava sul cuore.
 
Alla fine mi hanno trovato i pastori che erano venuti a saccheggiare i cadaveri, ma che poi hanno avuto la pietà di seppellirli. Mi hanno dato da bere acqua pulita dalle loro borracce. Sono rimasti ad accompagnarmi fino all’ultimo confine della sera, quando finalmente ho sputato fuori dai denti la mia anima esausta.
C’era, nella loro terra, sotto una grande quercia verde, un’arca vetusta di pietra, vuota ormai degli antichi che abitavano questi luoghi, fresca e ombrosa. Lì mi hanno messo per il mio ultimo riposo, e i nostri compagni attorno li hanno seppelliti nella terra grassa, che fa buono il grano.
 
Gliel’avevano raccontato, tempo dopo, tutto quello che era successo, e lui aveva promesso di tornare là un giorno e rendere loro onore. Un giorno. Non l’aveva mai fatto. Non ancora. Troppo delicata la situazione per lasciare Roma in quel momento. Troppo difficile l’equilibrismo fra i poteri, troppo fragile. No, non poteva ancora tornare là. L’aveva detto a Quintilio, nel sogno.
 
Non tornerai mai qui, Cesare, ma verrai presto a trovare i tuoi morti.
 
L’ombra era sfumata in una nebbia leggera, come la caligine che si alza a volte dai campi al primo sorgere del sole.
Cesare si rinfrescò un po’ nell’acqua della vasca e se ne tornò a letto, lentamente. Non era quello il suo primo rimorso e non sarebbe stato l’ultimo. “Un giorno verrò a chiederti perdono, Quintilio” pensò prima di addormentarsi. Fuori, gli allori del giardino frusciavano al vento che si era finalmente alzato.
Le idi di Marzo erano vicine.


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NdA: come canta Guccini  "gli eroi son tutti giovani e belli" e quindi la fantasia popolare ha fatto di questo episodio storico reale un racconto romantico. Narra la tradizione che dei contadini, arando, trovarono un antico sarcofago. Apertolo, sperando di trovare un tesoro, si imbatterono in una spada arrugginita, poche ossa e qualche ciocca di capelli biondi. Delusi, decisero di usare il coperchio del sarcofago per selciare il vialetto di casa. Mal gliene incolse. Gli spiriti dei legionari morti cominciarono a tormentarli finché non rimisero tutto a posto. Comunque non c'è più il sarcofago, che alcuni dicevano di aver visto, andato perso insieme a molte altre cose, non c'è più la quercia e forse neanche il Rubicone, che ancora gli storici si accapigliano per capire dove fosse quello "vero" ;-).
  
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