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Autore: Letterenascoste    31/05/2014    1 recensioni
«Dove andiamo?» chiese Faith, seduta sul sedile centrale posteriore, avvicinandosi ai posti anteriori.
«A casa mia» le rispose Hannibal, guardandola dallo specchietto retrovisore.
Faith deglutì e un piccolo brivido di orrore la percosse, mentre le mani cominciarono a sudarle.
Non ci pensare, andrà tutto bene.
La casa era imponente, proprio come il dottore.
Per lo meno non è isolata, pensò lei varcandone la soglia.
«Va tutto bene?» le chiese Hannibal chiedendole, con un gesto della mano destra, il giubbotto.
Faith, lentamente e scrutando le intenzioni dell'uomo, si tolse il giubbotto «Tutto bene» rispose lei.
«Mi sembrava un po'... terrorizzata, a dire il vero» asserì lui sorridendole.
Lo sono.
Attenzione: riprende esplicitamente alcune scene degli episodi.
Genere: Commedia, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hannibal Lecter, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Will Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Faith.

Capitolo quarto.

 

Erano le otto e un quarto di sera quando Abigail tornò al centro di riabilitazione.
Faith non le chiese cosa lei, Abigail, potesse avere a che fare con Hannibal Lecter; non le chiese cosa si fossero detti; non le disse di stare attenta.
Sono solo sospetti, pensò mentre la velocità della Crosstourer rompeva il freddo cristallino dell'aria sempre più invernale.
Non può essere vero, si ripeté ancora e ancora nella sua testa mentre aspettava che il semaforo cambiasse il suo colore in verde.
Devo essere pazza, credette spegnendo la moto e togliendosi il casco.
Si passò una mano fra i capelli che erano rimasti imprigionati dal casco, per volumizzarli. Affondò le scarpe tra le erbacce di quel giardino poco curato, isolato e buio. Si spaventò un attimo quando, tutto d'un colpo, sentì un coro di cani salutarla da dietro la porta.
Stava per suonare al campanello, ma poi vide il volto di Will insinuarsi tra le tende, fissarla da dietro il vetro leggermente appannato e sorriderle.
Faith inspirò abbondantemente.
«Non sembrare paranoica, non sembrare paranoica, non sembrare paranoica!» si sussurrò piano, cingendo il casco nero sotto braccio e fissando l'unica luce del porticato.
«Non ti preoccupare» disse Will che aprì la porta «Io risulto gravemente instabile»
Faith si era talmente tanto soffermata su quella luce gialla e fioca, che donava luce a intermittenza, che non si rese conto che la porta si aprì.
Arrossì quando vide Will di fronte.
Ora sembrerò paranoica.
Si schiarì la voce, come se volesse assumere un certo tono di determinazione.
«E' bene che tu cambi la lampadina» esordì poi guardandolo. Testa alta, sguardo fisso. Will la guardò perplesso.
Un ciuffo interruppe quello sguardo incerto perché gli occhi di Faith, scontrandosi, lo seguirono. Soffiò forte per farlo spostare, ci riuscì. Di nuovo sguardo fisso su Will, che incerto e quasi a disagio sembrò raddrizzarsi in quella posizione eretta.
«Allora mi fai entrare oppure no?» chiese infine con voce stridula la donna, facendo qualche passo avanti.
Will scosse la testa. 
«Non ero certo che stessi molto bene» le disse vedendola entrare e richiudendosi la porta alle spalle.
Faith si voltò: prima irritata, poi preoccupata.
«Ti sembravo particolarmente paranoica?» gli chiese veloce, mangiandosi le parole.
«No» rispose l'amico «Non particolarmente»
Faith dovette alzare le braccia, che reggevano il casco, sopra la testa per evitare che i cani lo facessero cadere.
«Buoni» disse Will ai suoi animali prima di allontanarsi e andare in cucina.
Faith restò ferma in mezzo all'ingresso, in mezzo a quei cani che la guardavano scodinzolando. Uno si fece avanti, alzò le sue zampe anteriori e si appoggiò su di lei. Faith lo guardò torvo e poi cominciò a muovere la gamba sulla quale era poggiato per farlo spostare.
«Posso offrirti qualcosa?» sentì chiedersi dalla cucina.
«Un antiparassitario sarebbe senz'altro gradito» rispose lei ironica.
Faith sussultò ancora, con il rischio di far cadere il casco, quando i cani abbaiarono sonoramente, tutti all'unisono. Li vide dirigersi in cucina.
«E' ora di cena» disse Will tornando in quel piccolo salotto che fungeva anche da ingresso. 
Faith tirò un sospiro di sollievo e poté abbassare le braccia, poi posare il casco sul pavimento vicino alla vecchia poltrona sulla quale si sedette.
Will si poggiò, col suo fianco sinistro al caminetto che scoppiettava piano nel tentativo di rimanere ancora vivo.
«Cosa è successo?» le chiese piano con un tono dolce, caldo e familiare.
Faith spostò lo sguardo sul caminetto, mentre si torturava le mani affondando le unghie nella pelle.
E' giusto che glielo dica, anche se sono solo supposizioni.
Lo deve sapere, anche se poi mi prenderà per pazza.
Basta, ora glielo dico.
Faith voltò subitaneamente i suoi occhi su Will.
Apri quella bocca e parla Faith, maledizione!
«Ora mi sembri leggermente più paranoica del normale» affermò Will che le si avvicinò, sedendosi sulla poltrona di fronte, dando le spalle al caminetto.
Devi dire tutto, devi raccontare, devi confessare, devi testimoniare, devi parlare.
«Faith?» chiese ancora Will vedendo l'amica rigida e immobile, con le labbra schiuse e leggermente incurvate, lo sguardo fisso su di lui e sul vuoto «C'è qualcosa che non va? E' successo qualcosa?»
Parla!
«L'emulatore» disse poi, quasi sputando fuori quella parola che non voleva venir fuori «Sono qui per parlare dell'emulatore»
Chiuse gli occhi e respirò profondamente. 
«Non ci sono novità» asserì Will strofinandosi la barba che ricominciava a crescere ispida «E' tutto fermo: non ci sono indizi, non ci sono tracce, non c'è persino un movente.»
«E allora perché lo fa?» chiese con voce supplichevole lei, come se dipendesse da tutto da Will.
«Non lo so, non lo capisco. Non riesco a... sintonizzarmi con lui»
«Beh se vuoi chiamo un tecnico della tv, magari lui sa come aggiustarti» scherzò lei «O magari ti potrei aiutare io» suggerì poi.
Will la guardò divertito e sorpreso «Tu scrivi storie, questo non è il tuo campo»
Faith cercò di trattenere una smorfia di insoddisfazione, frustrazione e umiliazione. Si fece sprofondare in quella poltrona comoda. Con lo sguardo seguì Will, che si alzò e camminò avanti e indietro per diverse volte.
«E' diventanto un pensiero fisso» le confessò «Mi sfugge tutto di lui e io non posso fare altro che corrergli dietro e cercare di afferrarlo... ma è più veloce e agile e non riesco neanche ad avvicinarmi»
Faith abbandonò quel fugace e acidulo sentimento di rancore per le parole precedenti.
«E' come se sapesse i fatti dall'interno» suggerì lei.
«Si, ma non è così semplice» continuò lui «Riesce a prevedere le nostre mosse, mette in mostra la sua superiorità, sta giocando con noi. Mi sta facendo impazzire»
«Will, ho bisogno di dirti una cosa» disse Faith alzandosi di colpo. Voleva andare in soccorso dell'amico, voleva poterlo aiutare. «L'altro giorno è successa una cosa quando eravamo nella baita, ma anche prima» continuò poi con parole che sembravano sconnesse «Ero sotto shock e non sapevo cosa fare. Volevo chiamarti ma poi ho cominciato a scrivere e allora non ho avuto tempo di parlarti»
«Vuoi davvero parlare del tuo romanzo, ora?» chiese Will infastidito e infastidendo.
«No» sussurrò lei risentita, fece un passo indietro e si scontrò con la poltrona sulla quale prima era seduta. «Io voglio aiutarti»
«Ma non puoi, non è nelle tue facoltà!» le rispose lui alzando la voce.
Si guardarono e Faith non lo riconobbe.
Lei non rispose, annuì solamente.
Le accade spesso di sottovalutarsi?
Fece indietreggiare qualche lacrima, voleva conservare integra la sua dignità.
«Mi dispiace» sussurrò Will «Non volevo dire quello che ho detto... Ho solo un gran mal di testa che mi fa innervosire»
«Non fa niente» affermò con voce rancorosa lei «Hai ragione tu, non è nelle mie competenze»
Si voltò fece qualche passo, estrasse le chiavi che aveva in tasca e aprì la porta.
«Aspetta, Faith» la chiamò lui mentre la seguiva con lo sguardo e con il corpo.
Faith non si girò, camminò veloce fino alla moto, infilò la chiave e mise in moto. Vide Will venirle incontro veloce, allora lei senza ancora accendere le luci, accelerò e se ne andò via alzando un cumulo di polvere, straziando le foglie sotto le sue ruote, immergendosi nell'ombra del luogo deserto e calmo.
Will restò lì, appena qualche passo oltre gli scalini del porticato, con il casco nero e lucido di Faith tra le mani.

Faith non accese le luci del suo veicolo, si immise in autostrada portando al massimo la velocità.
Il freddo e la corsa le tagliavano il viso, la ferivano come piccole e violente spine che le pungevano, attimo dopo attimo, il volto che cominciò ad arrossarsi. Gli occhi le bruciavano, le lacrimavano caldi e rancorosi. Socchiuse le palpebre perché il vento aggressivo non le faceva vedere niente; socchiuse le palpebre come unico gesto riparatore; socchiuse le palpebre e riuscì a intravedere un passaggio a livello: le barre stavano per scendere, il segnale lampeggiava di arancione e il suono ammonitore era sempre più vicino. Svicolò veloce tra la fila di macchine che rallentavano e poi lo fece: girò ancora una volta l'acceleratore e l'ultima cosa che vide fu la lancetta che segnava i chilometri orari. Chiuse gli occhi e lasciò che il destino decidesse per sé; chiuse gli occhi mentre la sua moto solcava la strada e attraversava il binario ferroviario; chiuse gli occhi e assecondò il suo istinto di morte e accontentò Saturno. Passarono diversi secondi e lei poteva ancora sentire il freddo lacerarla, il motore rombare sotto di lei, le lacrime calde scendere e cadere nel vuoto e nel buio della sera. Si aspettava un urto da un momento all'altro, un urto e poi il nulla e poi la pace e il silenzio della coscienza. Invece no, nessun silenzio, nessuna pace: sentiva ancora il vento farle fischiare le orecchie: era viva, il destino aveva preso la sua decisione. Decelerò e aprì gli occhi, felice e delusa contemporaneamente. Fu improvvisamente abbagliata dalla luce impetuosa di due fari che le si ponevano di fronte, il rumore del clacson riecheggiò per l'aria. Faith sgranò gli occhi e per evitare lo scontro con l'autovettura, sterzò bruscamente uscendo dalla strada asfaltata, venendo scaraventata lontano dalla sua amata moto. Poi l'urto, il dolore e finalmente il buio.

Improvvisamente sentì delle mani toccarle il viso, udiva voci confuse e lontane, percepiva l'umido sotto di lei.
Aprì gli occhi e vide tutto appannato: una luce, un volto.
Aprì e chiuse gli occhi più volte e poi vide più chiaramente il viso di quell'uomo che le sorrideva giocondo.
«Non avrei scommetto neanche un centesimo che fosse viva» le disse sorridendo.
I suoi occhi chiari e limpidi, nascosti dietro lenti sottili e trasparenti, sembravano quelli di un bambino curioso e dispettoso.
Faith si portò una mano in direzione degli occhi per ripararsi dalla luce dei fari. Evidentemente avevano portato la macchina fuori strada per potere usufruire degli abbaglianti.
«Mi dispiace» mugugnò lei guardando la macchina e cercando di capire se avesse arrecato danni all'autovettura dell'uomo.
«Per cosa? L'unica cosa che si è schiantata è stata lei» le rispose sornione «Lei e la sua moto»
La moto.
Faith si alzò di scatto, nonostante la sua schiena urlasse di dolore, e andò a cercarla. Non la vide in quel fascio di campo illuminato dai fari. Barcollando e trascinandosi il piede che le aveva ripreso a pulsare dolorosamente, si aggirò nel buio del campo. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta svenuta, ma l'ombra molto più scura della sera le faceva pensare che fosse già tardi. Non riusciva a vedere nulla, allora tastò le tasche, afferrò il cellulare e accese il flash. Barcollava nel buio con questa lucetta in mano, cercando di ritrovare il modo per tornare a casa. Si girava e rigirava su se stessa, in un vorticoso movimento spasmodico, e poi d'un tratto vide un piccolo riflesso in risposta al suo flash e la vide: la sua amata Crosstourer era tutta infangata, graffiata e ferita. Le andò incontro più veloce che poté, ma non riuscì a sorvolare sul forte dolore al piede che aveva progressivamente cominciato a diffondersi all'intera gamba. Raggiunse il suo mezzo e quasi lo accarezzò, come se fosse un affetto a lei caro, un amante ritrovato, un compagno d'armi ferito in battaglia. Si abbassò sullo sterzo, lo afferrò e con tutta la forza che aveva in corpo cercò di tirarla su. Quando però fece perno sulle gambe, un crampo forte e veloce come un fulmine colpì tutta la parte lesa, le mancarono le forze, lasciò la presa, la moto cadde di nuovo in mezzo al fango e lei al suo fianco.
Faith urlò per dolore e per rabbia.
Urlava e piangeva.
Le accade spesso di sottovalutarsi?
Di nuovo un fascio di luce la illuminò, questa volta da dietro.
Di nuovo rivide il volto allegro dell'uomo che le si pose dinnanzi. Lo vide frugare nelle tasche del cappotto ed estrarre una scatolina dorata, poi quella che le sembrò una velina più spessa e morbida del solito.
«Per quale motivo sta piangendo?» le chiese lui asciugandole le lacrime, una per una, guardandole, studiandole.
Faith sentiva un grosso nodo alla gola e uno ancora più grosso allo stomaco.
«Il male di vivere» rispose lei portandosi una mano vicino alla guancia e cercando di asciugarsi da quelle lacrime che le portavano vergogna. Sentì la mano dell'uomo stringerle il polso, in maniera quasi violenta, e allontanarlo dal suo volto.
«Così le sprecherà» l'ammonì lui che si perdeva nel fluire di ogni stilla.
Quando le lacrime finirono, lui ripose quella velina nella sua scatoletta dorata e poi ancora al sicuro nella sua giacca.
Ancora le sue mani pesanti sul volto di Faith: le prese il mento e la girò, prima a destra e poi a sinistra, come se non fosse fatta di carne.
«E' ferita» disse sorridendo e toccandole la fronte per poi rivelarle il suo stesso sangue «Vuole andare in ospedale?»
Faith lo vide guardare, in contrasto con la luce forte degli abbaglianti, le sue dita bagnate di lei e strofinarle le une contro le altre; lo vide estrarre un candido fazzolettino di tessuto dalla tasca destra dei pantaloni e asciugarsi.
«No» rispose secca Faith «Preferisco tornare a casa, ma grazie comunque»
L'uomo si alzò e si sistemò il giaccone che lo proteggeva dal freddo, poi si chinò di nuovo su di lei e l'aiutò ad alzarsi.
«La gamba non la regge a causa della caduta» le disse sorreggendola per non farla cadere.
«No, ho camminato sui vetri l'altro giorno» ammise Faith, come se fosse una cosa normale.
Era a un palmo di mano da quell'uomo evidentemente strano e poté vederne il sorriso, mostratole fin ora, trasformarsi in una fragorosa risata.
Lui rise davanti al suo volto, naso contro naso.
Lui rise e i suoi occhi si illuminarono.
Lui rise e lei gli andò dietro e risero insieme.

L'uomo la scortò fino alla sua macchina e le disse di non sporcare la pelle bianca dei sedili con 'quel suo sangue che le usciva dalla fronte'.
«Ci penserà Carlo a portare la moto da un meccanico» le aveva detto. «O da un carrozziere... o da entrambi»
Faith annuì in maniera confusa, vedendo da lontano un uomo avvicinarsi alla sua moto, poi le portiere si chiusero.
La luce interna della macchina rivelava un uomo giovane, forse della sua età, con occhi azzurri e capelli biondi.
Di nuovo la macchina fu sulla strada. Faith gli disse il suo indirizzo e lui lo inserì nel navigatore.

La macchina si allontanò abbandonando quel luogo e quel buio.
Il cellulare si illuminò per una chiamata, rischiarò ancora quel campo e quella moto, prima di essere afferrato da Carlo.

«Cosa l'ha fatta finire fuori strada?» le chiese l'uomo dopo un modesto silenzio.
«Avevo deciso di morire» disse lei, mentre pressava un fazzoletto di stoffa sulla fronte sanguinolenta.
Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, sperò di non dover dare spiegazioni o subirsi qualche lungo discorso sulla bellezza della vita; nel momento in cui pronunciò quelle parole, lo vide ridere di nuovo. Si chinò persino sullo sterzo per quanto rise di gusto.
«Lei è davvero, davvero, divertente» le disse poi poggiandole una mano, protetta dal guanto di pelle nera, sulla spalla.
«Grazie»
Faith era quasi divertita da quella situazione: divertita, interessata, curiosa, sorpresa e quanto mai confusa e contusa.
Riconobbe le vie, le luci e i locali di Baltimora che le passavano a fianco, veloci e in disordine.
«Il suo nome?» chiese lui curioso voltandosi.
«Faith Williams» rispose lei «E non l'ho ancora ringraziata a sufficienza per l'aiuto prestatomi»
La macchina si accostò al marciapiede, lui la guardò e le riservò una smorfia che la fece sorridere, perché le sembrava tanto simile a una delle sue.
«Sembra che abbia visite» aggiunse poi rabbuiando lo sguardo e corrugando la fronte.
Faith si voltò: in direzione della porta c'era lui, ancora e come sempre. Abbassò lo sguardo per l'umiliazione.
L'uomo la guardò e poi guardò ancora la persona che bussava sonoramente alla porta di quella casa.
«Sembra che sia insistente»
«Mi dispiace» rispose lei «E' solo un vecchio barbone sempre ubriaco. Ci sono periodi che si presenta ogni notte per chiedere denaro, così da comprarsi della droga o che so io»
Riprese a strofinarsi le mani, forte.
«A volte vorrei avere soldi sufficienti per fargli comprare tutta la droga che desidera e poi... Poi dovrei solo aspettare il suo necrologio sul giornale» disse con voce rabbiosa e crudele.
Faith alzò lo sguardo e vide l'uomo fissarla: un gomito poggiato sullo sterzo e una mano che cingeva in suo mento donandogli un'aria pensierosa.
«Perché non lo fa allora?» le sussurrò piano.
Faith non capì perché stesse sussurrando, ma lo stesso fece lei «Non ho soldi»
E lui rise, ancora e per l'ultima volta quella sera. 
«Ma io si» disse poi estraendo un manipolo di soldi e sventolandoglielo davanti agli occhi.
Faith notò il prezioso fermasoldi, probabilmente d'oro, che imprigionava le banconote di grosso taglio.
Lei aprì e chiuse la bocca: era incredula, le sembrava uno strano sogno.
L'uomo, senza avvisare, uscì dall'autovettura e si avvicinò, con passi veloci, verso il barbone.
No! Urlò l'anima di Faith.
Lei, in fretta e furia, aprì la portiera e scese, ma non ebbe il tempo di fermarli perché già il barbone era andavo via, furtivo e fortunato, svicolando tra le case.
«Non doveva» disse lei vedendo l'uomo venirle incontro. Il suo tono era accusatore, ma al tempo stesso portava con sé una nota di ringraziamento.
Lui le rispose con una strana smorfia, un’alzata di spalle.
Le passò vicino e si diresse di nuovo in macchina.
«Come si chiama?» gli urlò Faith prima che lui entrasse nella sua autovettura.
«Mason Verger»

Faith restò in mezzo al suo vialetto di casa, vide la macchina lussuosa andare via. Si guardò intorno perché tutto le sembrava così strano e paradossale. Si grattò la testa, come se il gesto le donasse lucidità. Camminò piano fino alla porta di casa. Digrignava i denti per il dolore e fu costretta a trascinare la gamba ferita con la forza delle braccia. Si dovette poggiare al muro per riuscire a salire quei tre scalini di pietra che la separavano dalla porta. Quando finalmente riuscì a girare la chiave nella toppa e quindi riuscì a entrare in casa, si accasciò per terra, nell'angolo destro dell'ingresso. La testa le pulsava di dolore e per trovare conforto si portò la mano destra sulla fronte. Scostandola vide il suo sangue defluire ancora. Si maledisse per non essersi fatta portare in ospedale, per non aver chiamato un'ambulanza. L'ambulanza! Si frugò con le mani sporche di sangue le tasche del giubbotto di pelle alla ricerca del cellulare.
«Maledizione, maledizione, maledizione!» urlò, non trovando l'apparecchio telefonico, picchiando i pugni per terra. 
Urlare non fu una mossa giusta, la testa fu chiusa in una morsa di dolore lancinante che le annebbiò la vista.
Desiderò di morire, ancora, per la seconda volta in quella notte. Alzò gli occhi al cielo e rise: il destino l'aveva salvata poco prima solo per farla morire tra dolore, sangue e stenti poco più tardi.
Ma non le importava, era pronta. 
Rise, ancora, perché il destino l'aveva dopotutto accontentata; rise, sonoramente, perché non aveva nulla da perdere; rise, più forte, perché la certezza della morte la consolava.
Sarebbe tutto finito lì, dove era tutto iniziato.
Chiuse gli occhi piangendo per la felicità che le recava la morte; ridendo chiuse gli occhi per l'assurdità della vita.
Prese una sigaretta, pensandola l'ultima e l'assaporò come tale: ogni boccata, ogni respiro, ogni sapore.
La sua attesta fu interrotta dal suono, acuto e fastidioso, del campanello di casa che le portò un altro crampo.
«E' aperto» biascicò lei.
In quel momento le venne in mente quando sua madre le insegnò che non bisognava aprire agli sconosciuti, bisognava chiedere chi fosse prima di aprire la porta, bisognava guardare dallo spioncino. Ma cosa importava ormai? Era seduta in un angolo pregno del suo sangue. I ladri? Potevano pure prendere quel poco che aveva, non le sarebbe servito nella tomba. Assassini? Non importa, stava già morendo.
Girò lo sguardo e vide, nel suo mondo sfocato e doloroso, la sagoma di una persona massiccia. Non riusciva a coglierne i tratti: era tutto immerso in una grande nebbia. Sentì le sue mani forzare i suoi occhi, aprire le sue palpebre e illuminarli con un sottile fascio di luce. Faith voleva chiedergli chi fosse, ma non trovò le forze necessarie... e così lo lasciò fare. Tra la foschia della sua mente riuscì a capire che l'uomo aveva portato con sé delle borse. Si sentì afferrare il busto, togliere il giubbotto e la maglia, poi un pizzicore sul braccio.
«Cos'è?» chiese lei in un mormorio confuso tra il ronzio delle orecchie, il dolore, la confusione e il buio che si era imprigionato dei suoi occhi. «Solo una flebo» sentì rispondersi da quella voce sconosciuta, prima di cadere in un limbo scuro dove il dolore non esisteva.

Aprì gli occhi e la luce delle imposte spalancate le ferì la vista.
Era sul suo letto disfatto, con molti cuscini sotto la nuca che le facevano assumere una posizione rialzata, il braccio doloroso per l'ago ancora inserito della flebo. La gamba era fasciata, visibilmente gonfia, e la testa non le recava più quel dolore atroce che l'aveva accompagnata durante la notte.
Si voltò e vide un uomo di mezz'età: i capelli scuri e lunghi legati in una coda bassa, la barba ombrosa costellata di qualche tocco argenteo, il viso pieno di chi non si priva di nessun vizio.
«Riesce a sentirmi?» le chiese in maniera brusca, senza calore.
«Si»
«E la vista? Le è tornata?» chiese ancora, puntandole di nuovo quel fascio di luce sottile contro.
Lei seguì istintivamente la luce e lo vide annuire.
L'uomo si sedette sul materasso, avvicinandosi a Faith.
«Deve prendere le compresse che le ho lasciato sul comò, due volte al giorno, fin quando non le passa il mal di testa» le disse estraendole l'ago dal braccio e riappropriandosi della sacca da flebo «Se dovessero ancora presentarsi forti fitte, vada in ospedale senza perdere tempo; in caso contrario potrà togliere i punti in fronte con l'ausilio di una semplice forbicina da manicure»
Faith annuì, silenziosa.
L'uomo si alzò e sistemò garze, flebo e disinfettanti nella sua borsa.
«La gamba è infetta: delle schegge, sembrerebbe di vetro, nel piede hanno causato l'infezione. Le ho rimosse, medicato, disinfettato. Deve prendere queste» continuò lui mostrandole delle altre pillole «Fin quando non le passa il gonfiore. E' meglio se per il momento evita di camminarci su»
Lui, dopo essersi assicurato di non aver dimenticato nulla, si voltò ancora verso la ragazza. 
«Ha altre domande?»
Faith annuì ripetutamente col capo, la bocca semi aperta in un'espressione da ebete.
«Prego, ne approfitti»
«Chi è lei? Cosa ci fa qui? Chi l'ha chiamata?» esordì Faith gesticolando con le mani, un atto che le causò dolore ai muscoli delle braccia.
Lui le sorrise e annuì. «Non si muova troppo, ancora per qualche ora. Poi potrà cominciare con piccoli e lenti movimenti. E' stato un brutto incidente, mi sorprende che sia viva»
Faith aprì e chiuse la bocca, come se non avesse colto qualcosa «Non ha risposto alle mie domande»
«Mi creda se le dico» disse lui indossando un capello di lana marrone «Che non mi capita spesso di salvare una vita. E' stata fortunata, non tenti ancora la sorte»
Faith corrucciò la fronte, poi lo vide scomparire oltre la porta. Si guardò intorno: le aveva portato un paio di bottiglie d'acqua, le pillole erano lontane dal letto ma tra qualche ora avrebbe potuto muoversi di nuovo; nella parte sinistra del letto un piccolo vassoio con un pranzo al sacco.
Deve essere già pomeriggio.
Frugò tra le coperte per cercare il cellulare: nulla, trovò solo il suo solito pacchetto di sigarette, ne accese una... ma non era buona come la sua ultima sigaretta
*

Solo nel pomeriggio riuscì a muoversi un po', quel tanto che bastava per arrivare alle pillole e al gabinetto. Non camminò molto perché non voleva sforzare la gamba che continuava a essere gonfia. Ogni tanto, ogni paio d'ore, il campanello della porta suonava, ripetutamente, e lei si alzava e scrutava dalla finestra: era Will, sempre lui. Qualche volta lo sentì anche parlare, ma dal piano superiore non riusciva a capirne le parole. Avrebbe, forse e in altre circostanze, aperto la finestra per origliare ma i muscoli le facevano ancora troppo male.
Passarono ancora diverse ore e calò la notte e calò il dolore. La testa aveva ricominciato a farle male e le pillole sembravano non produrre alcun effetto. 
Si alzò e fece due passi, sperando che il mal di testa si placasse. Forse aveva solo bisogno di distrarsi e non pensare alle parti dolenti.
Scese le scale, molto lentamente e cercando di non poggiare la gamba lesa.
Arrivò nel suo cantuccio, si sedette, accese il pc: se Will non voleva il suo aiuto allora lei avrebbe fatto a modo suo, avrebbe fatto l'unica cosa che sapeva fare: scrivere. Poco importava che fosse sbagliato e nocivo per qualcun altro, nulla importava se il suo personaggio fosse reale e reale fosse il dolore da lui apportato. Scrisse e le nitide parole portarono sicurezza in quel suo mare d'incertezza.
---

Passarono alcuni giorni e pian piano Faith sentì tornare le forze, i muscoli non le facevano più male, i punti sulla fronte li aveva tolti da sé. Diverse volte aveva controllato il piede: non le faceva più male camminare e il gonfiore era quasi totalmente passato.
Non le era mai piaciuto stare per troppo tempo chiusa in casa ma, in compenso, aveva scritto fogli e fogli del suo nuovo romanzo. I fatti erano riportati in maniera differente: un'altra epoca, un'altra professione, un altro continente.
Era lunedì mattina
** e lei era finalmente felice per qualcosa, era felice che il blocco fosse passato... anche se non per merito suo. Perché avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire un'occasione del genere se nessuno era disposto ad ascoltarla?
Si era appena vestita, dopo una lunga doccia rinvigorente, perché aveva voglia di andare a prendere un buon caffè. Con un gesto d'abitudine afferrò le chiavi della Crosstourer Abs, ma poi le poggiò sul marmo del bancone da cucina, ricordandosi di non avere la sua moto con sé. Forse non l'avrebbe più rivista, forse stava già solcando qualche strada sotto la guida di qualcun altro.
Il suono del campanello interruppe il fluire dei suoi pensieri.
D'istinto credette che fosse Will, ancora una volta. Non aveva voglia di parlare con lui, non gli avrebbe aperto.
Di nuovo il campanello suonò e poi si decise a guardare dallo spioncino: pose un dito su quel piccolo pezzetto di metallo laminato, per attrito lo spostò, si avvicinò e accostò il suo occhio rivelando, oltre la porta in legno, una quasi sorridente Abigail Hobbs.
Ci pensò due volte prima di girare la maniglia, poi lo fece.
«Buongiorno» le disse subitaneamente Abigail in maniera calorosa.
«Buongiorno» rispose incerta Faith «A cosa è dovuta questa felicità?»
«Posso uscire» disse d'un fiato la ragazza «Accompagnata da un tutore... ma posso uscire!»
«E il tutore sarebbe?» chiese incalzante Faith.
«Il dottor Lecter» asserì Abigail mostrando con il dito indice della mano sinistra la macchina che attendeva accostata al vialetto. Il finestrino era abbassato e lo psichiatra alzò una mano in segno di saluto.
«Ah» emise Faith incrociando le braccia «Buona fortuna» disse poi voltandosi in direzione della porta.
«Aspetta» la esortò la ragazza afferrandola per un braccio «Ho bisogno di un favore»
Faith prestò di nuovo attenzione alla ragazza e al suo spiegare di come il dottor Lecter richiedesse la presenza di una terza persona per evitare equivoci di sorta. Ci pensò un attimo: dopotutto, era un'occasione da non perdere, un colloquio diretto con il suo personaggio. Quanto materiale ancora le avrebbe fornito? Quanti altri spunti era capace di darle? Faith aveva tutta l'intenzione di scoprirlo. Così, senza farsi pregare oltre, chiuse la porta alle sue spalle e percosse quel vialetto con al fianco la giovane ragazza.
«Sembra che tu abbia posta» le disse Abigail, fermandosi e aprendo la cassetta ed estraendone un cellulare «Sembrerebbe posta prioritaria» scherzò la ragazza porgendoglielo.
Faith rimase basita, incerta e leggermente incredula.

Il viaggio in macchina non fu molto lungo, forse una decina di minuti: giusto il tempo di passare dai quartieri poveri a quelli ben più ricchi.
«Dove andiamo?» chiese Faith, seduta sul sedile centrale posteriore, avvicinandosi ai posti anteriori.
«A casa mia» le rispose Hannibal, guardandola dallo specchietto retrovisore.
Faith deglutì e un piccolo brivido di orrore la percosse, mentre le mani cominciarono a sudarle.
Non ci pensare, andrà tutto bene.

La casa era imponente, proprio come il dottore.
Per lo meno non è isolata, pensò lei varcandone la soglia.
«Va tutto bene?» le chiese Hannibal chiedendole, con un gesto della mano destra, il giubbotto.
Faith, lentamente e scrutando le intenzioni dell'uomo, si tolse il giubbotto «Tutto bene» rispose lei.
«Mi sembrava un po'... terrorizzata, a dire il vero» asserì lui sorridendole.
Lo sono.
«Mi rasserena la sua presenza» le disse poi continuando «Non vorrei dar adito a certe voci. Con lei, senza dubbio, sarà garantita la trasparenza delle mie azioni e la sicurezza, in questa casa, di Abigail»
«Ovviamente» rispose con tono sottile Faith «Perché io sarei capace di bloccare un uomo altro e grosso il doppio di me, se lo volessi» concluse sarcastica per poi dirigersi verso Abigail.

Si recarono in cucina perché, secondo il parere del dottor Lecter, un buon pasto ha bisogno del suo tempo per essere preparato a regola d'arte.
La cucina era d'ampio respiro, bella e molto illuminata. Le rifiniture degli infissi erano curate, in pietra levigata e pregiata, e richiamavano lo stile di una cascina italiana; il bancone in marmo era ben diverso da quello di casa sua, era liscio e bianco come se fosse nuovo; i mobili in legno e i centrotavola ordinatamente ornati con frutta di stagione.
Ben presto Hannibal si adoperò nell'adagiare gli ingredienti che gli servivano sul bancone marmoreo: aglio, pomodori, olio, uova, salsicce. Prima di 'mettersi ai fornelli', Hannibal fece bollire dell'acqua che versò, poi, in una bellissima teiera di vetro e ne fece un infuso scuro, ma non troppo.
Faith si posizionò sul lato sinistro del bancone, vicino ai coltelli... per ogni evenienza.
«E' importante capire quand'è ora di voltare pagina» disse rivolto ad Abigail «Hai fatto domanda a qualche scuola?»
«Mio padre ha ucciso ragazze ovunque io abbia fatto domanda» rispose lei.
«Allora questo può attendere» concluse Hannibal dopo un attimo di indecisione.
«Voglio lavorare per l'FBI» annunciò la ragazza con tono autoritario.
Faith sorrise e alzò una mano «Voglio diventare regina di un'isola abitata da elefanti volanti»
Si attirò lo sguardo di Abigail contro. «Non me lo permetteranno, giusto? Per quello che ha fatto mio padre»
«Solo se credono che faccia parte della tua natura» le rispose Hannibal intento a maneggiare una patata, lanciandola in aria e facendola capovolgere su se stessa per poi accoglierla, al suo atterraggio, con la lama del coltello.
«Natura contro educazione»
«Tu non sei figlia di tuo padre, non più ormai» le disse Hannibal, interrompendo il suo ufficio culinario e prestandole tutta la sua attenzione. «E se non fosse più tanto doloroso pensare a lui?»
«A mio padre?»
«Si» rispose lo psichiatra «Hai mai provato la psilocibina?»
«Funghi?» chiese incerta Abigail.
«Droga» si intromise Faith, scambiandosi uno sguardo dubbioso con Abigail.
«Esistono psichiatri che credono che stati alterati facciano accedere a ricordi traumatici» disse Hannibal mentre si prodigava nel versare il contenuto della teiera in una tazza di porcellana ricamata da un bordino blu.
«Questa non mi sembra affatto un'azione trasparente» obiettò Faith intromettendosi.
Droga nel tè, davvero?
«Ho tutto l'accesso che mi serve ai ricordi traumatici» asserì Abigail incrociando le braccia e scontrandosi con lo sguardo di Hannibal «Accesso illimitato»
«Per questo dobbiamo integrarli con associazioni positive» rispose lui «Niente più brutti sogni, Abigail»
Ci fu ancora uno scambio di battute tra lo psichiatra e la ragazza sul bere o meno quella bevanda.
«Ti fidi di me?» fu la conclusione di Hannibal.
Abigail, costretta da quelle parole, prese in mano la tazzina.
«Obietto» disse Faith accostandosi alla ragazza «In qualità di testimone sulla trasparenza, inesistente a dire il vero, e la sicurezza di Abigail, obietto»
Ma non ci fu parola che fermò il gesto di Abigail che, non curante, bevve quell'infuso.
Faith si portò una mano sugli occhi. Non è possibile.

Già dopo pochi attimi la droga sembrava aver fatto il suo effetto.
Hannibal Lecter aveva cominciato a cucinare e Abigail lo guardava con bocca semichiusa e sguardo perso nei meandri dei suoi pensieri.
Faith cercò il più possibile di sostare vicino ai coltelli esposti in ordine sul bancone e fu tentata di afferrarne uno quando il rumore della tazza contro il pavimento squarciò il silenzio.
«La dottoressa Bloom ha detto che va bene?» chiese Abigail, aggirandosi nella cucina in maniera svampita e scoordinata. Poi si sedette su una sedia riposta nell'angolo destro della cucina.
«Già» si intromise sospettosa e ironica Faith «Cosa dice la dottoressa Bloom?»
«Abbiamo spesso pareri contrastanti» confessò lui.
Abigail sorrise, in direzione dei fornelli.
«Prepara la colazione per pranzo?» chiese «Uova e salsiccia è stato l'ultimo pasto che ho avuto con i miei»
«Lo so» rispose Hannibal con tono suadente «Ed è anche il primo pasto che avrai con noi»
Abigail sorrise e si allontanò, andando nella stanza accanto.
«Io non faccio parte del 'noi', non è vero?» chiese Faith quasi supplichevole «Mi dica che non ne faccio parte perché tutto ciò non mi piace per niente»
«Non si preoccupi» le disse Hannibal «Avrebbe voglia di aiutarmi?» le chiese poi di rimando indicando i fornelli.
Faith spostò il suo sguardo dal cibo a lui e viceversa. «Mi occupo della verdura però»
Guardò lo psichiatra mentre estrasse il coltello dal blocco di legno, come se volesse fargli notare che era armata.
Passò poi a tagliare dei pomodori, mentre Hannibal si occupava della padella sul fuoco e delle salsicce.
«Ha trovato una soluzione al litigio con Will?» le chiese.
In quel momento la voce del dottore sembrò insinuarsi nell'orecchio di Faith in modo furtivo ed elegante. Lei si fermò un attimo, poi riprese a tagliare i pomodori.
«Si confida con lei» osservò.
«Sono il suo psichiatra» affermò Hannibal «E' più che normale»
Faith fu infastidita nel dover parlare della sua lite con l'amico, ma era proprio un buono spunto per il suo argomento d'apertura.
«Will» sussurrò lei mentre la lama tagliente e lucida del coltello divideva lo spicchio di pomodoro «E' il suo biglietto d'oro, non è vero?»
Alzò lo sguardo e si scontrò con quello di Hannibal.
«Non capisco» mentì lui.
«Il biglietto d'oro, è la metafora usata da Will per descrivere l'ossessione di Garret per la figlia. Non faccia finta di non ricordare» lo ammonì Faith.
Hannibal girò lievemente la testa, come con un piccolo scatto. Forse era stato preso in contropiede.
«Sembra già averne la certezza» rispose lui «Perché me lo chiede?»
Faith alzò le spalle «Per scrupolo. Credo che tutti abbiamo il nostro biglietto d'oro, da qualche parte»
Aveva lanciato l'esca, così come lui si era divertito a lanciarla a lei.
«E quale sarebbe il suo?» le chiese lui, curioso.
Faith sorrise, adagiò i pomodori già tagliati nella ciotola di fronte a lei e ne prese altri.
«L'emulatore» disse secca accompagnata dal rumore metallico e stidente del coltello che toccò il marmo, tagliando l'ennesimo pomodoro. «Credo che mi abbia dato diversi spunti interessanti per il mio nuovo romanzo»
«L'emulatore?» chiese Hannibal scrutando le parole e la mimica della donna «Perché non l'Averla del Minnesota?»
«E' molto più interessante scrivere di chi agisce per un motivo che non si comprende, piuttosto che di un semplice uomo preda della sua stessa malattia mentale... non trova?»
«Non crede che l'emulatore sia uno psicopatico?» chiese lui quasi sorpreso.
«Oh si» rispose lei prestando attenzione ai semi compatti e grumosi del pomodoro che aveva tra le mani «Credo che sia il più grande psicopatico di tutti i tempi... e per questo» disse poi scambiandosi uno sguardo con Hannibal «Merita di essere il personaggio più memorabile della narrativa moderna»
«Interessante presa di posizione» asserì lui girando una salsiccia. Il tono era basso, pensieroso, quasi dubbioso. Forse la sue esca si aspettava una preda diversa, forse alla tavolata si era aggiunto un ospite inatteso. «Cosa le interessa di lui?» le chiese poi, sempre più curioso «Cosa gli chiederebbe se avesse l'opportunità di parlargli?»
«Nulla» rispose lei quasi trasognante «Vorrei solo registrare il fluire delle sue azioni e carpirne l'abilità e l'ingegno che si celano dietro le sue... opere» disse poi ripensando ai corpi resi trofei e opere d'arte. 
Faith sapeva, grazie alle conversazioni avute con Will, che i sociopatici amavano sentirsi apprezzati ed elogiati, e così fece.
«Qualcuno potrebbe dire che il suo ipotetico agire sarebbe riprovevole»la imbeccò lui.
Faith alzò lo sguardo.
«Forse non mi ha creduta quando le ho detto che Will è la parte migliore di me» lo ammonì ancora una volta lei.
Aveva tra le mani l'ultimo spicchio dell'ultimo pomodoro. Se lo passò tra le dita e poi fece scorrere la lama tagliente tra quella polpa, andando più a fondo, ferendosi volutamente il palmo della mano.
Hannibal fissò la scena e poté vedere distintamente ogni goccia di quel sangue che cadde nella ciotola d'insalata rossa.
«Ops» fece lei in un sussurro, poi si portò alla bocca quell'ultimo spicchio che teneva ancora tra le dita. Assaporò la freschezza dell'ortaggio e il sapore del suo sangue. «Credo che sia finito qualcosa qui dentro» disse lei sorridendo, maliziosa e istigatrice «Ma non credo che, in fin dei conti, per lei sia un grosso problema» concluse poi in un sussurro.
Hannibal reclinò leggermente la testa verso destra e lei gli fece un occhiolino «Do ut des, l'ha detto lei l'altro giorno... o vuole far finta di aver dimenticato anche questo?!» disse infine, asciugandosi la mano ferita con un tovagliolo e andando via ondeggiando lentamente, come le onde del mare di notte, come un ruscello che costeggia una riva, come le dive che ammirava da bambina.

Portò con sé l'insalata rossa e il contorno di patate.
La tavola era già stata apparecchiata per ospitare un pranzo a tre.
«Abigail, come ti senti?» le chiese andandole incontro.
La ragazza la accolse raggiante «E' tutto passato, tutte le paure, tutto il dolore. Boom, non ci sono più» disse aiutandosi con uno strano gesto della mano.
«A tavola» annunciò Hannibal entrando in sala da pranzo.
Abigail si affrettò a prendere posto, Faith tentennò: non sapeva come reggere il gioco, forse aveva lanciato un amo troppo piccolo per un pesce troppo grande.
Con passi lenti e misurati decise infine di sedersi, di fronte Abigail e alla sinistra di Hannibal.
«Hai fame?» le chiese la ragazza «Hannibal ha fatto la colazione per cena»
«Lo so» rispose Faith con tono quasi apprensivo nei confronti della ragazza.
Hannibal prese il bicchiere di Faith e lo riempì di succo d'arancia.
Faith restò fissa a guardare Abigail che la fissava di rimando, imbambolata e inebetita.
«Cosa c'è?» le chiese Hannibal con fare innocente «Abigail, cosa vedi?»
Il volto di Abigail si esplicò in un grande sorriso e due occhi gonfi di lacrime, forse di gioia, forse di malinconia.
«Vedo la famiglia»
Faith bevve un sorso di quella spremuta, che reputò troppo dolce.
«Doveva essere roba buona» commentò poi mandando giù un pezzetto di patata.
Guardò ancora una volta Abigail e la vide mangiare un boccone di salsiccia. Faith dovette chiudere gli occhi e sbarrare la bocca col tovagliolo per evitare il peggio. Forse non sarebbe stato poi un buon incipit, forse la cosa giusta era mangiare ciò che era stato servito, forse non era carne umana. Forse si.
Bevve un altro sorso di spremuta, poi si armò di coltello e forchetta: infilzò la carne, la tagliò. L'odore che emanava era davvero ottimo e Faith senza dubbio si sarebbe gettata a capofitto in quella cibaria, se non fosse che... forse. Probabilmente. Certamente, ma era una cosa che andava fatta. Alzò la forchetta e l'avvicinò alla bocca, aveva già dischiuso le labbra quando il trillo chiassoso e funesto del cellulare le diede la scusa per procrastinare quell'atto d'odio per l'umanità.
«Mi scuso» disse falsa e grata per quella chiamata «Ho dimenticato di spegnerlo»
Hannibal fece una smorfia più che eloquente.
Faith si alzò, portandosi il bicchiere con la spremuta. Infilò la mano nella borsa e ne estrasse il cellulare urlante.
Bevve ancora qualche sorso mentre guardava quel numero che conosceva bene. Non pensava che l'avrebbe chiamata ancora, non se lo meritava. Fu felice nel vedere quel numero, di quella felicità che non si compra, che non si gusta, che non si ode.
«Papà?» chiese lei con voce entusiasta e incredula «Finalmente» Aveva aspettato dodici anni quella chiamata, ora era giunta.
Ci fu un attimo di esitazione dall'altro capo del telefono, poi una voce, quella sbagliata.
«Faith, sono Isobel»
La delusione fu evidente e palese nel volto di Faith: il suo sorriso si capovolse, così come le sue speranze, le dita strinsero il vetro del bicchiere.
«Volevo solo chiederti se dobbiamo aspettarti» disse l'interlocutrice «La cerimonia dovrebbe cominciare tra poco»
Faith allora chiese delucidazioni, spiegazioni che non avrebbe voluto sentire.
«Arrivo» sussurrò prima che la conversazione venisse chiusa dall'altra parte del telefono.
Faith restò immobile, con il telefono in mano che strideva con i suoi 'bip' che segnalavano una linea interrotta. Il bicchiere le scivolò di mano, cadde a terra fragorosamente riversando tutto il suo contenuto arancione.
Hannibal Lecter le venne vicino e lo stesso avrebbe voluto fare Abigail, poi fermata da un gesto dello psichiatra.
«Mi dispiace» disse piano la donna, evidentemente sotto shock «Non volevo, giuro che non volevo»
Hannibal le prese il telefono dalla sua mano, visualizzò l'ultimo numero in entrata e lo richiamò. Con molto senso pratico annotò il luogo e il nome della chiesa in cui si sarebbe tenuto il funerale.
«Faith, mi sente?» chiese, con un sottile filo di entusiasmo, il dottore porgendole il giubbotto e facendo cenno ad Abigail di uscire «Dobbiamo andare, o finirà col fare tardi»
Faith scosse la testa più volte «Prenderò un taxi»
«Farà prima se l'accompagneremo noi» insistette lui, curioso.

Quando arrivarono in chiesa la messa era già iniziata. Il prete stava celebrando l'ultimo eterno saluto a quel corpo, a quell'anima. Non vi erano fiori adibiti all'addobbo, non vi erano orde d'amici: solo una bara opaca, sicuramente la meno costosa, solo un moglie che non piangeva il proprio marito, solo una figlia colpevole.
Presero posto all'ultima fila, il più lontano possibile. Si avvicinarono al corpo solo a messa ultimata.
Faith poggiò le sue mani su quel legno freddo e fu punta da una scheggia. Allungò una mano e accarezzò quei bei capelli chiari come la luna e le stelle, sottili e lucenti; accarezzò il viso bianco segnato dalle rughe, solcandole una dopo l'altra come mai aveva avuto modo di fare.
«Lo hanno trovato qualche giorno fa, dentro un vecchio capannone abbandonato» disse Isobel, rotonda e bionda, avvicinandosi «Overdose»
Faith chiuse gli occhi e proprio lì, in mezzo alla chiesa sussurrò a Dio parole di perdono, biascicò a suo padre innocenti scuse.
Non volevo. Non sono stata io. Non l'ho fatto apposta. 
Sentì la mano di Isobel stringere la sua, schiuderla e adagiarvi qualcosa.
«Questo è l'unico oggetto che hanno trovato con lui. E' giusto che lo tenga tu»
Faith abbassò lo sguardo e riconobbe quel fermasoldi dorato, in cui ora poteva toccare la lettera V che predominava in rilievo. Lo nascose nella tasca del giubbotto quando sentì avvicinarsi il dottor Lecter.
Si fermò vicino a lei, fece le condoglianze a Isobel. La mani erano incrociate all'altezza del bacino, i capelli perfettamente ordinati e pettinati, il completo marrone.
«C'è qualcosa che posso fare?» le chiese.
«Chiami Will, ho bisogno solo di lui» sussurrò Faith mentre guardava la bara essere chiusa e portata via dagli addetti al servizio funebre.

Ci furono pochi saluti, di qualche senzatetto, di qualche altro drogato o alcolizzato, di pochi e pessimi amici.
Le condoglianze, a cosa servono?  Pensava lei mentre Isobel ringraziava i pochissimi presenti e cercava al tempo stesso di liberarsene. Condoglianza significa ' partecipare al dolore ', ma chi avrebbe mai partecipato al suo dolore? Chi avrebbe mai condiviso il suo ammontare di colpe innocenti? Chi o cosa avrebbe potuto mutare quel destino avverso che si scagliava contro la sua vita seguendo sempre la stessa melodia lugubre e funesta?
«Dobbiamo andare» le disse Abigail, prendendole una mano e trascinandola lentamente e dolcemente lontano dall'altare della chiesa, fuori la navata, in mezzo al vicino cimitero.
Faith si fece trascinare via, come in preda alla corrente del mare che ti culla e che ti porta in mare aperto.
Camminarono in mezzo ai morti, ai fiori, alle lapidi, all'amore per i cari. Arrivarono infine presso il giusto luogo di sepoltura.
Era già pomeriggio e il manto erboso era giallo ma senza foglie, il sole cominciava a tramontare e i suoi raggi pensanti e sempre più scuri si accostavano alla morte porgendo i loro ultimi saluti. Ancora il prete con le sue ultime parole d'addio alla salma; ancora vecchi e pessimi amici nel loro addio doloso; ancora Isobel e il suo amore, ormai lontano, per quell'uomo disperso nel mal di vivere. Ognuno lasciava e lanciava un fiore sulla tomba chiusa per sempre, poi un pugno di terra per sancirne il definitivo viaggio, i passi lenti che si allontanavano dalla tomba: pochi passi e la loro mente era già altrove. Faith li guardò uno ad uno compiere questi gesti vuoti e li invidiò perché quel peso non gravava sulle loro spalle.
Rimasero solo Abigail, Faith e Hannibal presso quel loculo ombroso, persino il prete era andato via. Solo Faith doveva congedarsi ma teneva stretti pugni: in uno un fiore ormai sgualcito, nell'altro un pugno di terra umida. La sua mente era un groviglio di scuse, rancori, paure, amore e disperazione; un groviglio che non riusciva a farla agire, che le lasciava l'indipendenza di una statua di creta. D'improvviso un tuono squarciò il silenzioso cielo, risvegliando lacrime nascoste e pungenti. Con una spinta in avanti e un piccolo salto balzò nel fosso, sotto la terra e sopra la morte, si chinò carponi su quella bara che le lasciava ancora schegge di legno al tocco. Con i palmi delle mani spazzò via quei pochi pugni di terra che erano stati gettati, con le unghie graffiò quella parete fissa, con le lacrime bagnò l'umidità del sottosuolo. Sentiva la voce di Abigail chiamarla, lo sguardo di Hannibal studiarla. Continuava a tirare via la terra, che piano scendeva dalla parete in cui si era appoggiata per discendere nell'Ade.
Mi dispiace, continuava a ripete la sua anima mentre la terra avanzava.
Non volevo, piagnucolò nella sua mente, facendosi spazio con le mani.
Te lo sei meritato, ammise poi quando si sentì afferrare e trascinare con forza e violenza di nuovo nel mondo dei vivi.

«Cosa le succede?» chiese Abigail, i cui occhi erano grandi, forse spaventati, forse sconcertati.
«E' sotto shock» le rispose Hannibal, leggermente sporco di terra, mentre con le grandi mani bloccava il viso di Faith, che aveva cominciato a muoversi a scatti incoerenti. «Non sei sola» le disse con voce fredda e calcolata «Mi senti?» le chiese ancora non vedendo alcuna risposta da parte della donna.
Faith abbassò il capo in senso di consenso e, carpendo di nuovo la sua lucidità, portò le mani su quelle di Hannibal e lo allontanò dal suo viso. «Voglio andare a casa, può accompagnarmi?»

Il viaggio in macchina fu silenzioso e pesante, nonostante non fu per nulla lungo.
Ci fu solo qualche sguardo dello psichiatra verso Faith, che fissava un punto nel vuoto, e verso la terra che si era portata dietro, tra i vestiti, nelle suole, tra i capelli.
Quando varcarono la soglia di casa e la luce fu accesa si mostrò agli occhi di Hannibal e Abigail, un salotto grande e vuoto, senza mobili, senza quadri, senza foto. Il caminetto era spento e con qualche ceppo impolverato. Solo l'angolo sinistro del salotto sembrava vissuto, con il suo tavolinetto tondo, la sedia, il notebook, la stampante. Sulla destra una vecchia cucina, probabilmente risalente agli anni '80, ingrigita e ingiallita dal tempo, dall'usura passata e dal tedio odierno. In posizione centrale quei dieci scalini che portavano al piano superiore e il corrimano in legno usurato dalle tante mani che lo avevano accarezzato.
«Grazie per il passaggio» disse Faith «Arrivederci»
Il suo tono era vuoto e spento, svuotato e distrutto, laconico e ombroso.
«In realtà sarebbe meglio che rimanesse in compagnia questa notte» affermò Hannibal, il cui sguardo si perdeva ancora nel vuoto della casa «Non mi sembra nel pieno delle sue facoltà mentali»
«Sono in possesso delle mie facoltà mentali» soffiò Faith «E poi Will starà per arrivare»
Lo sguardo dello psichiatra si posò su Faith e, per la prima volta, si capirono. Lei chiuse gli occhi e scosse la testa.
«Ti faccio vedere la tua stanza Abigail» dissepoi, consapevole, invitando la ragazza a seguirla.
Salirono la scala e si trovarono di fronte a un corto corridoio con quattro porte di colore chiaro: una alla loro sinistra, tre alla loro destra. I passi lenti e sonori nel corridoio vuoto facevano eco. Si fermarono di fronte a una porta rosa, con chiazze di colore azzurro, viola, bianco. Faith sospirò prima di girare quella maniglia che non toccava da tempo, poi aprì la porta rivelando una parete, bianca e pura, che faceva tanto contrasto con la porta chiassosa e rovinata. Abigail entrò con passi incerti e curiosi, mentre Faith non ne varcò la soglia. C'erano solo tanti scatoloni pieni e vuoti, un letto impolverato e una finestra dalle imposte sbarrate.
«Era camera mia» disse Faith con un moto di malinconia «Se frughi in qualche scatolone troverai coperte e lenzuola; il bagno è oltre la porta di fronte a questa stanza»
«Stai traslocando?» le chiese Abigail avvicinandosi agli scatoloni polverosi.
«Non ne ho mai avuto intenzione»
Faith guardò Abigail rovistare tra le sue cose, tra i suoi vecchi e sbiaditi ricordi, e provò rabbia e gelosia. Picchiettò contro il legno colorato dell'infisso su cui era poggiata. «C'è qualcosa da mangiare nel frigo, in caso vi venisse fame. Non aspettatemi»
Fece qualche passo, poi si rigirò verso la ragazza e le punto i due indici contro «Controlla la data di scadenza prima» le disse in un sussurro e un mezzo sorriso.

Passò delle ore sotto il getto d'acqua della doccia. La mente tornava a vecchi ricordi, vecchie foto, vecchie polveri. Ogni tanto si ridestava sentendo rumore di passi o di porte e le sembrò strano avere qualcuno per casa, non ne era abituata. Fece aderire la schiena alle piastrelle fredde, reclinò la testa verso il getto altalenante e instabile: caldo, freddo, tiepido, di nuovo caldo. Gli occhi chiusi e la bocca aperta. Le gocce che le massaggiavano il volto e le districavano le emozioni.
Uscì solo quando da parecchio tempo ormai non sentiva rumori di sorta.
Aveva le mani rugose per via della troppa umidità, i capelli ancora bagnati, i piedi scalzi. Indossò il suo pigiama di pile blu, una vestaglia per coprirsi di più dal freddo.
Uscì piano, dalla sua stanza, senza far rumore. Vide tutte le porte del corridoio chiuse e pensò che ormai stessero dormendo. Si avvicinò alle scale e scese i suoi gradini. La luce era spenta e l'unica fonte di luminosità era il camino acceso e scoppiettante.
«E' stato difficile togliere tutta quella polvere per poterne usufruire» le disse Hannibal, alla sua sinistra.
«Le pulizie non sono il mio forte» rispose Faith in quella che sembrava una discolpa.
Avanzò nel salotto e si recò verso la finestra, proprio a fianco alla porta. Le imposte erano state spalancate e la luce notturna e la pioggia, che aveva preso a scrosciare forte contro l'asfalto, le davano uno strano senso di libertà. Si sedette sul ripiano della finestra e si portò le gambe al petto, incrociandole.
«Non ha mai chiamato Will, non è vero?» gli chiese con un tono sereno e pacato.
Hannibal prese un bicchiere poggiato sul bancone, già colmo a metà d'acqua.
«No» le disse porgendole il bicchiere.
Faith sorrise «La preferivo quando mentiva». Prese il bicchiere, se lo passò tra le mani, ne odorò il contenuto.
«E' solo acqua» asserì lo psichiatra «Con qualche goccia di un blando calmante, si può fidare»
«Niente droghe per me?» chiese ironica, bevendone il contenuto. Sapeva che non doveva fidarsi ma non le importava molto in quel momento. 
Hannibal prese l'unica sedia a disposizione, la sollevò e la posizionò di fronte alla donna. Il suo volto liscio e ossuto era illuminato dalla luce del fuoco, ma solo dalla parte destra. Faith ne guardò ogni particolare, ogni ruga, ogni segno del tempo.
«Il trauma della perdita di un genitore lascia un segno indelebile nell'essere di una persona» le disse Hannibal invogliandola a parlare «Ci mostra le nostre debolezze ed enfatizza i nostri bisogni: affetto, denaro, famiglia, sicurezza»
«Tutti questi bisogni li avevo anche qualche ora fa, quando ancora non sapevo nulla della morte di mio padre» lo imbeccò lei.
«Non crede che tale circostanza l'abbia segnata?» le chiese lui poggiando i gomiti sulle ginocchia per supporto.
«Direi che mi abbia cambiata, credo» ammise Faith poggiando la testa sulle sue ginocchia piegate e vicine al busto «Ho imparato che bisogna far attenzione quando si esprime un desiderio, potrebbe avverarsi in ogni istante»
«Ha desiderato la morte di suo padre?»
«Si» sussurrò lei «L'ho desiderata ogni giorno, da quando ha varcato quella soglia e non è più tornato»
Faith sapeva che non poteva, non doveva, confidarsi con nessuno ma, questa volta, era solo un problema suo.
«In psicologia vi è un gran numero di disturbi comportamentali legati alle figure genitoriali, giusto?» chiese lei e vide un capo abbassarsi in segno d'assenso.
«Mia madre è una persona orribile» continuò lei «Venale e prepotente. Ricordo che avevo cinque anni quando decise di lasciare mio padre. Lui era uno scansafatiche cronico e non portava mai soldi a sufficienza, ma era una brava persona: sempre sorridente e positivo, forse anche passivo. Lui mi promise che ci sarebbe sempre stato per me e io gli credetti. Mantenne la sua parola e ogni tanto ci incontravamo al parco, o in qualche triste bar di periferia. Un giorno poi ha smesso di presentarsi, avevo quattordici anni forse. Quando fui grande abbastanza lo cercai e, grazie all'aiuto di qualche vecchio amico, lo trovai in un vicolo buio vicino a un bidone infuocato. Gli andai incontro e gli offrii il mio aiuto, gli diedi tutto quello che avevo al momento e gli dissi di tornare da Isobel e di rimettersi in sesto. La sera dopo bussò a questa porta, ma fu solo per chiedere altri soldi, ancora e ancora, notte dopo notte. Iniziai a non rispondere, a non farmi trovare in casa. Per lunghi periodi si dimenticava di presentarsi, ma alla fine tornava sempre. Ogni notte che si presentava ho desiderato che morisse di stenti, di qualche malattia, d'overdose» disse piano sussurrando l'ultima parola «Qualche notte fa, ho sperato che avesse tutti i soldi che potesse desiderare fino a morirne... evidentemente qualcuno mi ha ascoltata»
«Si sente colpevole per questo desiderio?» le chiese Hannibal, penetrando nei suoi pensieri e cercando di carpirne il fulcro.
«No» rispose lei, sorprendendolo e sorprendendosi «Mi sento grata»
«Verso chi?»
«Verso chi ha realizzato il mio desiderio» Faith sorrise «La colpevolezza è ben altra cosa dottor Lecter, lei per primo lo dovrebbe sapere bene»
«La colpevolezza è un sentimento che colpisce solo chi si pente delle sue azioni» affermò lui poggiandosi sullo schienale della sedia, tornando in posizione eretta.
«E lei non ne prova neanche un po', scommetto» continuò lei.
Si fissarono qualche secondo.
«Lei crede in Dio, dottor Lecter?» chiese Faith, poi alzò una mano per fermarlo: non le interessava la sua risposta. «Io si, ma credo anche che mi abbia abbandonata, credo di trovarmi di fronte a una grande bivio» disse lei unendo i palmi delle mani e scostandone le punte «Da una parte c'è tutto ciò che è giusto fare, dall'altra c'è lei, con il suoi completi d'alta sartoria e i capelli ben pettinati, che mi indica un'altra strada, una più verde e rigogliosa»
Faith lo guardò e lo colse curioso delle sue parole «Come pensava che avessi agito, una volta mostratosi così chiaramente?»
Hannibal sorrise «Sicuramente non mi sarei aspettato questo colloquio»
Faith si alzò e si chiuse nella sua vestaglia rosa. «Farò di lei il più grande personaggio mai esistito nella narrativa americana, se me lo permetterà»
«E' una proposta senza dubbio lusinghiera» ammise lui «Ma come potrei essere sicuro di potermi fidare di lei?»
Faith sorrise, poggiò il bicchiere sul bancone della cucina. «Posso assicurarle che mi hanno insegnato bene a mantenere i segreti»

 

   
 
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