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Autore: _Elwing    01/06/2014    1 recensioni
Dal testo: "... La sua vita le sembrava poca cosa in fondo: se il soldato l’avesse sparata e uccisa o se cadendo fosse morta sarebbe stato comunque meglio che vivere ancora rinchiusa. Rischiare ed essere libera, rischiare e morire, entrambe le alternative che le si prospettavano davanti sarebbero state comunque meglio di un altro solo giorno di prigionia, perché in ognuno dei due casi tutto sarebbe finito in quell’istante..."
Purtroppo, temo che il titolo della storia già sveli molto: la protagonista, Jade, è infatti una bambina di Ishval. Benché io ami i due protagonisti della serie, almeno per ora, credo che non compariranno, perché volevo con questa fan fiction parlare della guerra di Ishval, approfondirla cercando di immaginare come è stata vissuta dai suoi abitanti, cercando di trattare un tema difficile come quello della guerra esprimendo le mie riflessioni tramite i personaggi di Full Metal e Jade, che ho inventato io. Ma non parlerò solo degli abitanti di Ishval: la guerra si combatte sempre su due fronti e in questo caso dal lato opposto ci sono i soldati e gli Alchimisti di Stato.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il turno di Jade per l’ennesima simulazione di combattimento era passato ormai da un paio d’ore. Era stato fisicamente sfiancante, come al solito, ma mai come la pressione del suo sguardo che scrutava ogni singolo movimento che compiva.
C’erano molti altri bambini, ragazzini e ragazzi di diverse età con lei durante quelle simulazioni, tutti vestiti allo stesso modo, tutti con i capelli cortissimi e pettinati allo stesso modo, troppi per riuscire a distinguerli uno dall’altro: eppure, lei sapeva che lui riusciva sempre ad individuarla in quella mischia ordinata, sapeva che non osservava altri che lei con quel fastidiosissimo sguardo pieno di disprezzo, risentimento e ironia. E lei, schiacciata dalla paura, eseguiva gli ordini che riceveva senza battere ciglio, senza manifestare emozioni, come un cane obbediente. Neanche il grilletto di una pistola avrebbe saputo obbedire al dito del suo cecchino con maggior diligenza.
Finito l’addestramento, l’avevano riportata nella sua cella, collocata in mezzo alle tante che ospitavano altri bambini come lei, divisa dalle altre da due spessissime pareti di cemento.
Sdraiata nel duro lettino di legno, avvolta solo in una coperta di lana ruvida e irritante, si era addormentata, senza mangiare il pasto che le era stato portato, essendo troppo stanca per farlo.
Non aveva badato nemmeno alle scomode manette che le mettevano ai polsi, con le quali lottava quasi quotidianamente e che le isolavano le mani, quelle mani pericolose che non doveva assolutamente poter usare.
Il rumore di un’esplosione, simile a quello delle bombe che le insegnavano a disinnescare durante i duri addestramenti, ma molto più forte, la svegliò bruscamente, facendola sobbalzare così forte che si fece male alla schiena sbattendo contro il letto. Frastornata dal sonno, pensò di aver sognato tutto – spesso le accadeva di rivivere di notte in modo storpiato ciò che succedeva di giorno – perché sembrava che fuori dalla sua cella regnasse il solito silenzio; ma si dovette ricredere quando l’assordante rumore di una sirena d'allarme risuonò per tutto l’edificio.
Si sollevò dal letto, rimanendo seduta sul bordo, lasciando che la coperta le scivolasse di dosso, finendo per terra. Doveva essere successo qualcosa, forse un incidente durante un'altra simulazione o in uno dei laboratori nei sotterranei. Non ebbe quasi il tempo di porsi queste domande che la porta di ferro della sua cella si aprì e le manette che le serravano i polsi le si sfilarono di dosso, cadendo con un acuto tintinnio sul pavimento.
Non capiva cosa stesse succedendo e non riusciva a pensare a causa di quell’allarme che continuava a strillare. Quando, finalmente, come abbagliata da una luce improvvisa, realizzò quel che stava accadendo. La porta della sua cella, le manette, gli ostacoli della sua libertà si erano arresi. Forse la colpa era di un cortocircuito, ma non le importava molto saperlo: un altro pensiero le occupava in quel momento la mente e il brivido di quel pensiero la scosse, facendole battere il cuore in petto così forte che sentì la testa girarle. Il sangue le pulsò sulle guance e i suoi occhi rossi come il fuoco brillarono, eccitati all’idea di mettere in atto un piano perfetto.
Mosse pochi passi e arrivata sulla soglia della cella si sporse per guardare cosa accadeva all’esterno. Non c’era nessuno nel corridoio, ma si sentiva un vociare confuso provenire dal piano inferiore, nel quale le parve di distinguere un gruppo di voci che si facevano sempre più vicine.
Infatti, degli uomini vestiti con la stessa divisa blu stavano salendo, armati di pistola. Appena li vide, si ritrasse spaventata nella cella.
Una strana agitazione, un senso di inquietudine si impadronì di lei, che cominciò a contorcersi nervosamente le mani e a vagare con lo sguardo confusamente, come alla ricerca di un’idea. L’occhio le scivolò sulle mani, avvolte in un paio di aderenti guanti bianchi.
Le voci dal corridoio si facevano sempre più vicine. Non poteva più aspettare: si sfilò i guanti, che infilò prontamente in una tasca dei pantaloni e toccò la parete di fondo della cella con il palmo delle mani: subito ci fu un’esplosione sorda e il muro si sgretolò come fosse stato di sabbia. Una brezza gentile le accarezzò il viso, portando con sé il profumo caldo dell’aria aperta, un piacere di cui di rado le era concesso di godere. Per la prima volta vedeva aprirsi davanti a sé uno sprazzo di libertà. Quell’illusione si infranse subito, perché nuovi ostacoli comparvero davanti ai suoi occhi.
Da dove si trovava lei a terra era un salto di cinque metri. Poi, si sarebbe trovata a dover superare il cancello, sorvegliato dai soldati dell’esercito. Per quest’ultimo non aveva paura, si sarebbe servita delle sue mani, l’aveva già deciso. Ora che poteva le avrebbe usate per ciò che voleva e non per eseguire ordini imposti.
L’altezza invece la faceva rabbrividire. Se solo avesse avuto una corda o delle lenzuola più lunghe di quella misera copertina di lana le avrebbe legate ad un piede del letto e calate dall’apertura sul muro.
« Si sono aperte tutte le prigioni! »
Una voce alle sue spalle la fece voltare di scatto, ricordandole che non aveva più tanto tempo e che se voleva scappare doveva farlo subito.
« Che i prigionieri non fuggano! – sentì dire ancora.
Guardò in basso: proprio sotto di lei, al di qua di un basso recinto in ferro, c’era una lunga siepe che seguiva tutto il perimetro del recinto, sparendo agli angoli dell’edificio.
« Tu, cosa credi di fare? Fermati o sparo! »
Jade lo guardò: teneva una pistola puntata contro di lei e sembrava davvero pronto a sparare in qualsiasi momento.
Decise che avrebbe saltato: quella libertà tanto agognata era a portata di mano, doveva fare il possibile per riuscire ad afferrarla, a rischio anche della sua vita. La sua vita le sembrava poca cosa in fondo: se il soldato l’avesse sparata e uccisa o se cadendo fosse morta sarebbe stato comunque meglio che vivere ancora rinchiusa. Rischiare ed essere libera, rischiare e morire, entrambe le alternative che le si prospettavano davanti sarebbero state comunque meglio di un altro solo giorno di prigionia, perché in ognuno dei due casi tutto sarebbe finito in quell’istante.
Saltò e un colpo di pistola risuonò alle sue spalle.
Mentre si lasciava cadere nel vuoto non sentiva altro se non la pressione dell’aria: era come se la stesse tagliando col suo corpo. Non riusciva nemmeno a capire se il proiettile l’aveva colpita.
Una scarica di adrenalina le attraversò il corpo, non si era mai sentita bene come in quella manciata di secondi.
Cadde sulla siepe, incastrandosi tra i rametti e le foglie, procurandosi qualche graffio ma nessuna ferita seria. Evidentemente, anche il proiettile aveva mancato il bersaglio.
A fatica si alzò ed era appena riuscita a mettersi in piedi quando un altro proiettile le sibilò vicino all’orecchio, penetrando nella terra sottile sotto ai suoi piedi. Il soldato dalla sua cella aveva sbagliato di nuovo di poco la mira.
Si guardò attorno: i soldati l’avevano vista e alcuni stavano già correndo verso di lei, imbracciando le loro armi da fuoco.
Scavalcò il recinto e corse verso le alte mura che circondavano l’edificio, attraversando la pioggia di proiettili che la investì: nemmeno lei seppe come, ma riuscì a schivarli, o meglio, nessuno riuscì a colpirla.
Senza arrestare la sua corsa, come se temesse che se si fosse fermata non sarebbe più riuscita a ripartire, si gettò con le braccia tese in avanti contro il muro, che come quello della sua cella crollò non appena l’ebbe toccato.
A lungo i soldati la rincorsero per le strade della città, una città che lei non aveva mai visto e che non si soffermò nemmeno a guardare e di cui non sapeva nemmeno il nome. Poi, d’un tratto, guardandosi indietro, si accorse che non la stavano più seguendo. Non sapeva quando fosse successo, ma dovevano averla persa di vista, o forse aveva corso così veloce da riuscire a seminarli.
Si infilò in un vicolo molto stretto e lì si fermò per un momento a prendere fiato; e a riflettere.
Ora era libera da quel laboratorio che l’aveva tenuta prigioniera per tre lunghi anni, ma non era il momento di sentirsi sicura e abbassare la guardia. Aveva visto troppe cose che non sarebbero dovute uscire dalle mura della sua prigione, i soldati l’avrebbero cercata e non si sarebbero dati pace finché non l’avrebbero trovata perché lui la voleva dove potesse sempre vederla.
Mentre saltava nel vuoto e correva inseguita dai soldati si era dimenticata di lui e ora che se ne era ricordata cominciò a insinuarsi in lei la paura che forse avrebbe fatto meglio a restare dov’era. Inoltre, c’era un altro, grosso problema, specie considerando il fatto che era solo una bambina di quasi sei anni: dove sarebbe andata? Non aveva un luogo in cui rifugiarsi e non sapeva nemmeno dove trovarlo, dal momento che non conosceva la città in cui si trovava ed era la prima volta che ne vedeva una, eccetto quel vago ricordo che aveva di un posto simile proveniente dal suo passato.
Un altro pensiero distolse la sua attenzione da quelli sulla sua sorte da lì in avanti: non si era ancora rimessa i guanti. Rischiava, in un posto affollato come la città, di fare inavvertitamente del male a qualcuno.
Non appena si fu rimessa il guanto uscì dal vicolo dalla parte opposto a quella da cui era entrata, ritrovandosi nel mezzo della frenetica vita della città.
 

 
  
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