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Autore: Sen    04/06/2014    2 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il Vento dal Mare



Sage aveva gli occhi del colore della laguna ridotti a due fessure, mentre ascoltava, attento, il resoconto di Minos del Grifone.

L’arrivo a Rodorio di un cosmo di quella portata, una manciata di ore prima, aveva mobilitato i Santi d’Oro rimasti. Erano accorsi al Tempio agitati e pronti alla battaglia.

Persino Manigoldo, zoppicante, il ghigno fiero, la sigaretta stretta fra le labbra, per una volta lontano da Francine, che, ai suoi occhi, cominciava ad assomigliare ad una di quelle anfore panciute nelle quali le ancelle conservavano olii ed unguenti.

Ostentando la calma che l’età ed il suo ruolo gli avevano conferito, il saggio era quindi sceso presso la dimora di Agathê per constatare di persona quale ulteriore emergenza avrebbero dovuto affrontare, più per tranquillizzare i suoi paladini che per un effettivo, concreto rischio.

Aveva, infatti, trovato ad attenderlo la ragazza, le mani sui fianchi, lo sguardo fiero.

“Venga, Santo Padre. Da questa parte”, aveva sussurrato, con una deferenza che non si rispecchiava affatto nel suo atteggiamento. “Stia attento a non inciampare nei vasi e a non sbattere la testa contro le porte”, aveva quindi aggiunto, inerpicandosi per una stretta scala interna e facendo cenno al suo voluminoso copricapo.


Quello che vide, al piano superiore, avvalorò la sensazione iniziale.

Il Giudice del Grifone giaceva, riposando, nel letto al centro della stanza luminosa. Il bianco puro delle lenzuola, dei suoi capelli e perfino del colorito della sua stessa pelle, davano l’idea di una fragilità che il Grande Sacerdote, sapeva, non gli era affatto propria.

“Eccolo, Santo Padre”, iniziò Agathê. Il tono perentorio e sbrigativo fece aprire gli occhi al guerriero, che, una volta riconosciuti i suoi interlocutori, fece un mesto cenno col capo.

“Non sono qui per nuocerti, Minos del Grifone”, cominciò Sage, prendendo posto su una sedia avvicinata appositamente dalla ragazza.

Il Giudice annuì lentamente, i suoi occhi fieri del colore della tempesta sembrarono rilassarsi leggermente.

Nulla nella sua condizione suggeriva a Sage che potesse, nell’immediato futuro, rappresentare una minaccia per il Santuario.

“La tua presenza qui, tuttavia, ha creato non pochi problemi ai miei Santi”, continuò, paziente. “Abbiamo conservato un potenziale Specter per troppo tempo per potercene permettere un altro”, concluse accavallando le gambe. Il ghigno che gli attraversò le labbra assomigliava in maniera impressionante a quello del suo allievo.

“Quindi?”, lo incalzò Agathê, le braccia conserte in una posa talmente perentoria che avrebbe reso fiero Rasgado del Toro. Sage sorrise, suo malgrado; tutto era mutato a Rodorio, tutti avrebbero preso parte, a modo loro, a questa guerra, e la dolce ragazzina innamorata che portava fiori per Athena aveva lasciato il posto ad una giovane donna decisa e determinata.

“Quindi”, riprese col tono paziente che più di una volta era stato costretto ad utilizzare con i suoi sottoposti, “se vuoi restare qui, dovrai dimostrare la tua effettiva utilità.”
I suoi occhi diventarono di ghiaccio.

“Altrimenti ti riconsegnerò ad Hades io stesso”, concluse cupo, il cosmo sopito e appena percettibile, di colpo trasformato in una spirale soffocante.

Minos sorrise, scuotendo il capo.

“Non temo la mia sorte, vecchio, né l’agonia di una morte lenta”, asserì con la voce bassa e stentorea. “Sono un Giudice, non un semplice soldato e con me”, continuò cercando, senza successo, di alzarsi su un gomito ,“questi trucchi non funzionano”.

Ignorò la risata sommessa della ragazza e l’espressione di bonario divertimento del Grande Sacerdote

“Tuttavia”, continuò non appena riuscì a racimolare abbastanza forze, “vi fornirò le informazioni in mio possesso, riguardo l’attacco che stanno preparando.”. Riprese fiato, mestamente, mentre la stanza attorno a lui cominciava a vorticare senza controllo. “Se sarò in grado di reggermi in piedi, combatterò al fianco dei vostri Santi”, concluse, chiudendo gli occhi e soffocando un gemito.


Sage si sporse verso di lui, una mano sulla sua spalla, quasi a volerlo trattenere.

“Perché, Minos?”, domandò, senza preoccuparsi di nascondere una nota di genuino stupore nella voce.

“Anche se tornassi da Hades, ora, mi rinchiuderebbero nel Cocito senza nemmeno ascoltare ciò che avrei da dire sul vostro conto.” Parlava lentamente, scandendo con dolorosa precisione i concetti. La sua voce sembrava l’unico suono in tutto il villaggio.

“Se vi aiutassi, tuttavia”, continuò dopo una pausa che sembrò sfiorare l’eternità, “lei potrebbe avere un luogo a cui tornare”, aggiunse mentre la voce veniva meno. Il respiro si faceva sempre più veloce e poco profondo, mentre combatteva per rimanere cosciente.

Sage si affrettò ad alzarsi e a posare una mano sulla fronte del Grifone; il suo cosmo di stelle e nebulose lo accompagnò nel sonno, garantendo che, almeno le ferite del corpo, fossero sanate.

Eranthe, avresti mai immaginato che il tuo risveglio avrebbe causato tutto questo?, si trovò a pensare, rammentando Areia e la notte nella quale era giunta da lui, con quel fagotto tra le braccia.

«Cosa faccio adesso, Sage?»
E lui l’aveva consigliata, aprendole le porte del Tredicesimo Tempio, mentre la stella oscura di quella neonata brillava feroce nel cielo nero.

Aveva costruito un rifugio sicuro alla Surplice nella cantina della loro dimora, ché nessuno potesse avvertire la sua oscura presenza e l’aveva inchiodata a Rodorio, l’unico luogo al mondo nel quale nessuno l’avrebbe cercata.

Poi era arrivato quel ragazzo di ombra e di fuoco, ed aveva catalizzato un vortice di eventi che era sfuggito al controllo dei suoi occhi attenti.

Ed era nata quella bambina dagli occhi verdi, come il mare, che condivideva quel destino terribile.

Quella bambina, che era già stata reclamata...

Sospirò, Sage, avviandosi verso l’uscita.

“Sei stata coraggiosa, figlia di Arsenios”, appellò la ragazza che lo seguiva in silenzio. “Forse questo tuo gesto ci porterà qualche vantaggio.”
Si stupì di sentire, chiara, la sua risata.

“Lo porti ad Athena, Santo Padre”, gli si rivolse con un sorriso, porgendogli un mazzo di fiori di campo. Sage notò che alcune delle corolle recavano piccoli schizzi di sangue. “Le ricordi che anche noi di Rodorio combatteremo”, concluse, lo sguardo deciso.

Sage annuì, una mano sul suo capo in un gesto di benedizione.



Dimitra sorrideva, del tutto ignara della guerra ormai alle porte, mentre passeggiava sulla riva del mare, sulle spalle di suo padre.

Intenta a guardare le onde rincorrersi mentre il vento le scompigliava i capelli chiari e riccioluti, quelli di Deuteros, invece, erano irrimediabilmente appiccicati dal miele che colava, copioso, dal baklavà che la piccola stava sbocconcellando.

I suoi occhi chiari, che di tanto in tanto assumevano espressioni di trattenuto fastidio, strappavano una risata ad Eranthe, che camminava accanto a loro.

Sedettero all’ombra di uno sperone di roccia, i piedi affondati nella sabbia tiepida, mentre la piccola ne approfittava per costruire castelli sbilenchi che la marea avrebbe distrutto, presto.

“Domani vi porto alla casa di Kanon”, asserì lui, serio, passandole un braccio attorno alle spalle ed avvicinandola a sé. “So che non è comoda, o accogliente, ma è tutto ciò che ti posso offrire.”

Lei rise, prima di scuotere il capo. “Porta Dimitra ed Areia. Il mio posto è qui, Deuteros”, gli appoggiò il capo ad una spalla.

“Voglio rimanere ed aiutare. In fondo è anche casa mia.”

La bambina, ridendo, si tolse i calzari per lasciare che le onde calme e dispettose le bagnassero i piedi.

“Non permetterò che tu combatta, Eranthe. Non potrei sopportare di vederti ferita, o di perderti, ancora.” La sua voce era un ringhio cupo, se lei fosse stata una qualsiasi altra donna, avrebbe avuto paura.

Ma Eranthe alzò il viso a cercare le labbra di lui, in un bacio al quale Deuteros rispose con quanta dolcezza conosceva.

“Il mio posto è accanto a te”, affermò col tono di chi non ammette repliche. Lui sospirò, sapeva che discutere, adesso, sarebbe stato inutile. Così si limitò ad osservare sua figlia che giocava coi granchi, a riva, ed avvertire la presenza fisica e concreta, della sua donna, accanto a lui.

“Ognuno ha la sua guerra, Deuteros”, continuò quindi lei, la voce leggera. “Tu hai dovuto combattere la tua, per arrivare a me, per potermi portare a casa.” Gli carezzò il petto, con fare distratto. “Per poter riconoscere te stesso”, riprese, dopo un sospiro.

“Questa è la mia battaglia. Per proteggere ciò che è mio. Per accettare me stessa. Per poter sperare di costruire un futuro libero anche per Dimitra.”
Lo abbracciò.
“Non posso voltare le spalle e fare finta che non sia nulla, non ora, non dopo tutto questo, non dopo quello che hai messo in gioco, per me. Voglio farlo, insieme a te, so che andrà tutto bene”, concluse, mentre avvertiva i loro cosmi intrecciarsi, creando spirali d’oro e indaco.

La bambina rise, mentre la marea saliva, voltandosi verso i genitori che la richiamavano per rientrare a consumare la cena che, quella sera, si sarebbe tenuta in pompa magna al Tredicesimo Tempio.

Nessuno dei due, però, volle soffermarsi a notare le stelle dei Gemelli che stavano brillando, nella luce del tramonto, proprio di fronte a lei.



La cena, in realtà, era un vero e proprio ricevimento, aperto ai Santi d’Oro, alle loro eventuali compagne e alle ragazze della casa dei piaceri, che avrebbero concesso se stesse a quegli eroi, quella sera, senza pretendere alcun pagamento.


Hakurei sospirò, passando in rassegna tutti i commensali riuniti attorno allo stesso tavolo, il suo pensiero, veloce, a chi, invece, non sarebbe stato assieme a loro.

Il suo sguardo severo andò a Melina, seduta accanto a lui, tesa, gli occhi lucidi di lacrime e le occhiaie segnate nonostante la cipria e i pigmenti che le sottolineavano lo sguardo.

La sua mano ruvida si strinse alla sua, di nascosto, come un’adolescente, strappandole un sorriso e un singhiozzo.

Il suo sguardo si soffermò sul Santo dei Gemelli, sovrapponendo al ragazzo di fuoco e di ombra l’immagine sfuggente ed oscura di Aspros. Per quanto terribile poteva apparire questo pensiero, le stelle dei Gemelli erano in pace, ora, come non le aveva avvertite da anni, ormai.

Nè ricordava, peraltro, di aver visto Deuteros così disteso e rilassato, nonostante la scontata preoccupazione che precede ogni battaglia.

Il suo sguardo di mare, di tanto in tanto, si posava su quello scuro di Eranthe condividendo con lei un dialogo muto, fatto di comprensione, di amore e di quelle interminabili notti di tenebra, nelle quali lei era stata il suo unico rifugio.

Agathê aveva provveduto agli addobbi floreali della tavola e dell’intero salone, lavorando alacremente per tutto il giorno, ma non aveva preso parte alle libagioni, preferendo assistere quell’ospite pallido, ormai in via di guarigione.

Notò che Sage stava osservando di sottecchi Francine, seduta accanto a Manigoldo. Abbassò il capo per nascondere il sorriso all’espressione preoccupata del fratello.

Avesse campato altri duecento anni, mai avrebbe compreso le motivazioni che avevano spinto El Cid a cercare la protezione del Cancro per la sua adorata moglie.

Avrebbe scommesso su Sisifo, che il Capricorno considerava di buon grado un fratello, o, al massimo, Degèl, che con la giovane, condivideva l’origine francese.

Poi notò la cura con la quale il ruvido italiano si sforzava di trattarla, nel versarle da bere o nel tenerle la mano, abbozzando un ghigno, quando i suoi occhi diventavano tristi e distanti.

L’avrebbe accompagnata a Thyra, il giorno successivo, al centro esatto della caldera spenta, e, a costo di tranciargli di netto la gamba ferita, Hakurei si sarebbe sincerato che non tornasse a combattere, lasciandola sola.

Quel ragazzo aveva già pagato il suo debito alla dea, per quella vita e tutte le altre a venire.

Poi i suoi occhi cercarono Sasha, la dea Athena, seduta a capotavola, Sisifo alla sua destra, Sage alla sinistra.

Il suo sguardo azzurro perso in quello di cielo del Sagittario, come a volerlo imprimere nella memoria, per sempre.

Le loro mani, nascoste, intrecciate, al di sotto della tavola, le loro stelle così maledettamente vicine da risuonare, nel silenzio del cosmo eterno della via degli dei.

Ed il saggio Hakurei dell’Altare bisbigliò una silenziosa, antica, preghiera.

Per tutti loro.



Rhadamanthys era ancora inginocchiato di fronte al suo signore; accanto a lui Aiacos, la cui espressione recava chiari i segni della gravità di quanto accaduto.

Per una volta, Hades non stava dipingendo, sintomo evidente di come, giunti a poche ore dall’assedio al Santuario, quel ragazzino efebico avesse lasciato campo libero al dio dell’oltretomba.

“È decisamente insolito vederti ridotto in queste condizioni, Rhadamanthys”, esordì, gli occhi chiari, glaciali, puntati in quelli di fuoco del Giudice.

“Il Santo dei Gemelli è riuscito a giungere fino a noi, ha ripreso la Fenice, ed è scomparso. Pensiamo sia tornato al Santuario, in fondo è da lì che Bennu proviene”, concluse a mo’ di spiegazione. Nonostante le cure immediate delle guaritrici ed il suo cosmo di stelle oscure, le ferite lo disturbavano ancora, tirandogli la pelle e sfregando contro le crepe della sua Surplice.

Hades annuì lentamente, come a spronarlo a continuare.
“Minos del Grifone li ha aiutati”, riprese, grave e pacato. “È scomparso prima che potessi intervenire.” Chinò il capo. “Vi chiedo perdono, sommo Hades.”

Il dio ragazzo scosse una mano come a voler scacciare una mosca fastidiosa. “Non è importante, Rhadamanthys”, asserì, la voce leggera.

“Sapevo che cominciava a sentirsi legato alla Fenice. Dopo tutto, in fondo è stato il suo cosmo ad averla riconosciuta e, come dire, risvegliata. Tuttavia, non credevo che il Santo dei Gemelli si prodigasse per aiutarlo, arrivando a plasmare le stesse dimensioni”, continuò, guardando le spalle possenti dei Giudici rivestite dal nero lucido delle Surplici.


“Qualora ne fosse in grado, combatterà al fianco di Bennu, con i soldati di Athena. Siate pronti”, concluse spostando l’attenzione su Aiacos, che, fino a quel momento, era rimasto in silenzio.

“Ho provveduto a variare la strategia dell’incursione, sommo Hades.” La voce decisa del giudice dai capelli corvini riempì la sala, catalizzando immediatamente l’attenzione dei presenti, perfino quella di Hypnos, che sedeva, bonariamente annoiato, al tavolino dell’ampia balconata attigua e pareva completamente assorbito dalla sua partita a scacchi con Pandora.

“Porteremo le truppe al Santuario, attaccando contemporaneamente sia Athena stessa, su al Tredicesimo Tempio, sia i cittadini di Rodorio, come li avrà sicuramente informati Minos.”
Il dio annuì, interessato.

“Questo li porterà inevitabilmente a diminuire le difese sul villaggio e a potenziare quelle su al Santuario, lasciando parzialmente sguarniti gli accessi secondari del paese. Potremmo sfruttarli a nostro vantaggio. I civili non hanno mai preso parte alla lotta e non saranno sicuramente preparati ad una controffensiva.”

Hypnos li raggiunse, l’incedere lento e stanco, prendendo posto accanto ad Hades.

“Manigoldo del Cancro”, sputò a mezza bocca. “L’uomo che ha osato rinchiudere mio fratello Thanatos, assieme a quel vecchio”, continuò, acido. “Voglio occuparmi di loro personalmente”, concluse, lo sguardo intenso puntato negli occhi di Aiacos.

Il gelo che seguì paralizzò i Giudici che non osarono nemmeno annuire.

“Ma certo”, intervenne Hades, appoggiando bonario una mano sulla spalla di quel consigliere cupo e terribile. “Hai la mia approvazione, Hypnos”, continuò, sorridendo appena. “Athena e Tenma di Pegasus, invece, voglio siano miei”, concluse, alzandosi e tornando al dipinto dietro di lui, notando, con occhio critico, di come all’Italia ivi raffigurata, mancasse un’isola.



“L’hai combinata grossa, Rhadamanthys”, lo redarguì il collega di Garuda, una volta giunti alla sala ristoro adiacente ai loro alloggi privati.

La Viverna lo guardò come se la sua Surplice fosse improvvisamente diventata d’oro.

“Cosa vai blaterando?”, lo apostrofò, la voce profonda e roca.

“Dico”, riprese questi serio, “che hai commesso una leggerezza da novellino contro i Gemelli”.

“E sarebbe?”, riprese l’altro, piccato e vagamente infastidito dal tono saccente che Aiacos si ostinava a mantenere.

Ad aumentare la sua irritazione, il cameriere li aveva appena serviti del loro caffè bollente ed il giudice dai capelli neri aveva iniziato a sorseggiare la bevanda con gesti lenti e misurati.

“Non hai tenuto conto dei sentimenti.”

Dal tavolo accanto giunsero, sguaiate, le risa di un gruppo di Specter.

“Non hai prestato attenzione ai segnali..”, continuò, sibillino come una pizia di Apollo, gli occhi accesi di un interesse che rare volte aveva dimostrato.

“Ma se sono stato l’unico a mettere in guardia quell’idiota albino!”, replicò la Viverna. Un pugno sul tavolo fece rovesciare alcune gocce scure sulla tovaglia immacolata.

Si appoggiò allo schienale della poltrona facendola scricchiolare sotto al suo peso.

“Era tardi, troppo tardi”, sorrise Garuda, gli occhi luccicanti come una comare di paese al mercato che incontra un’amica.

“Senti, non è che perché Behemoth ha scoperto quanto è divertente essere femmina, tutti dobbiamo, di contratto, correre dietro ad una gonnella”, sibilò a denti stretti Rhadamanthys cercando di ignorare il fatto che gli occhi violetti della signora Pandora, di tanto in tanto, si prendevano il disturbo di visitare i suoi pensieri.

“Noi non abbiamo tempo da perdere in queste stupidaggini”, concluse, a bassa voce.

“Stupidaggini, dici?”, commentò Aiacos, genuinamente sorpreso, accavallando le gambe inguainate di nero.

“Può darsi, ma”, lo guardò dritto negli occhi improvvisamente serio, maledettamente serio, “fai attenzione. Queste stupidaggini di cui parli possono trasformarsi in un’arma terribile e letale. Sei stato testimone anche tu della potenza del Santo dei Gemelli. E non credere che Athena abbia ordinato di venirla a recuperare...”
Tornarono a bere il caffé, il silenzio tra di loro pesante come il piombo.



Non c’erano più le rose di Albafica a proteggere Rodorio, né i suoi occhi chiari e il suo portamento fiero.

Non c’era più la spada di El Cid a proteggere i loro sogni, né la grande stella di Rasgado a brillare tra le colonne.

Non c’era Asmita, sacrificato dal suo stesso cosmo per creare un rosario sacro, in grado di intrappolare le anime degli Specter, e nemmeno Kardia, bruciato dal suo stesso fuoco.

Presto, troppo presto, molti li avrebbero seguiti, uniti per l’eternità in quell’Elisio che ospitava gli eroi.

Sage le schioccò un bacio sulla fronte, rompendo, quindi, il silenzio dopo quella che gli era sembrata un’eternità.

“Addio, Areia”, sussurrò, sorridendole, accompagnandola verso la scalinata di marmo che conduceva alle case sottostanti.

La bambina le stringeva seria la mano, dietro di loro Eranthe e Deuteros a chiudere quella fila improvvisata che si dipanava tra le generazioni.

Poco distanti Manigoldo e Francine, una borsa capiente ai loro piedi, lo scrigno con l’Armatura accanto a lui, il viso teso. Il ragazzo la sosteneva, un braccio attorno alla vita, come se anche il solo incedere le costasse un’enorme fatica.

Shion dell’Ariete giunse poco dopo, scuro in volto, a garantire che il trasporto delle astanti fosse rapido e sicuro.

Eranthe abbracciò Dimitra, le lacrime agli occhi. “Quando tutto sarà finito verremo a prenderti, tesoro, e ti cucinerò tutti i baklavà che vuoi, capito?”, le sussurrò, baciandole le guance. “Ora, però devi comportarti bene e stare vicina alla bisnonna. Ci vedremo prestissimo, te lo prometto.”
E la bambina dai ricci di grano e gli occhi verdi le sorrise. “Tranquilla, mamma.” Poi puntò lo sguardo su suo padre, specchiandosi nel medesimo colore, fermo e dritto accanto a loro. “Io ho le stelle che mi proteggono!”

Hakurei dell’Altare era giunto attimi dopo il suo allievo, nel grande spiazzo di fronte al Tredicesimo Tempio, ad accompagnare Manigoldo e Francine alla loro dimora provvisoria, una casupola in un piccolo villaggio al centro di un’isola di case bianche e tetti azzurri.

Lì avrebbero dovuto essere al sicuro, a suo parere, nessuno Specter si sarebbe sognato di cercarli in un luogo talmente anonimo e distante.

“Se bruci il Cosmo o anche solo starnutisci, vengo qui e ti trancio le p...” Si fermò appena in tempo, guardando sottecchi la ragazza comodamente seduta accanto alla finestra che dava sul mare. “La gamba! Ti taglio di netto la gamba, chiaro?”

Il ragazzo annuì, serio, accendendosi una sigaretta. Aprì la bocca per ribattere soffiando una nuvola di fumo, ma il vecchio, saggio guerriero, fratello del suo Maestro, e altrettanto tremendo, era già scomparso, lasciando dietro di sé una cascata di scintille azzurre.

Scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli scuri, mentre, guardandosi attorno, osservava la piccola casa.

Le pareti bianchissime, i mobili di legno chiaro erano stati dipinti e, anche se un poco consunti, davano un’impressione di famigliare conforto, di vita vissuta, di quotidiano, tutte sensazioni delle quali si perdeva consapevolezza, quando si era Santi d’Oro.

La cucina, i cui armadietti erano ben forniti di cibo e bevande, era una stanza abbastanza grande da ospitare anche un divano fungendo da salotto. La grande finestra dalle persiane azzurrissime, dava direttamente sul mare, era provvista anche di un balcone di medie dimensioni, con gerani rossi ad abbellire la ringhiera.

C’era solo una camera da letto, con un armadio modesto, ma lui non vi badò. Avrebbero dovuto soggiornare per pochi giorni, almeno così sperava, ed il divano sul quale avrebbe dormito sarebbe stato comunque una valida alternativa.

“Vuoi un caffè, picciridda?”, domandò sottovoce, quasi a non volerla distogliere dai suoi pensieri.

“Grazie, Manigoldo”, ribatté lei, voltandosi a sorridergli, e lui, per un attimo, si accorse di come anche gli occhi le brillassero, nel riflesso del sole sull’acqua.

Forse era questo ciò che aveva visto, in lei, El Cid? Forse era quel sorriso che lui poteva assaporare, sempre, e quella voce delicata e vagamente roca?

Sorrise gettando il mozzicone, e porgendole la tazza, mentre sedeva di fronte a lei, dalla parte opposta del tavolo.

Tutto era talmente surreale da sembrare perfino convincente, e loro, di fronte all’intera Thyra sarebbero stati solamente Milos ed Ekatherina, una coppia di giovani sposi in attesa del loro primo figlio.

Tuttavia, Manigoldo si avvide di come, finalmente lontana dal Santuario, lontana da Rodorio, la giovane francese sembrasse più rilassata e serena, come se un peso le fosse stato sollevato dall’anima.

L’aveva avvertita canticchiare, minuti prima, mentre sistemava i vestiti nell’armadio, laboriosa, ricavando uno spazio anche per i suoi pochi stracci, ed ordinando le loro cose.

L’aveva vista ridere di cuore, a cena, ad una delle sue battute scontate, e rilassarsi sul divano, accanto a lui, appena dopo, a conversare sui progetti di esplorazione di quella città nuova e sconosciuta, come una normalissima coppia.

Aveva assistito ad una piccola, leggera trasformazione, evidente, per i suoi occhi attenti, ma così sottile da risultare invisibile a chiunque.

Qualcosa che poteva fargli sperare che, presto, lei sarebbe stata in grado di camminare da sola, senza necessitare più il suo aiuto.

Sorrise, scuotendo il capo. Nei mesi trascorsi alla Decima Casa, aveva imparato ad apprezzare quella ragazza e a godere della sua compagnia, finendo con l’addolcire alcuni suoi spigoli, solo per lei.

Forse era lui, ora, a non essere pronto a lasciarla andare...

Si alzò dal divano, trattenendo a stento un gemito: il tempo stava rapidamente mutando. Già a cena aveva osservato dalla finestra cupi nuvoloni scuri che si accalcavano sul mare e lampi sinistri squarciare il buio. Si erano affrettati, dunque, a chiudere imposte e finestre per impedire che il vento impetuoso potesse farle sbattere.

Un tuono ruppe il silenzio, improvviso, mentre lui zoppicava verso la porta aprendone uno spiraglio per sbirciare all’esterno. L’odore umido della pioggia ormai imminente lo investì, portando con sé gli aromi della città addormentata.

“Ti duole molto?” La sua voce preoccupata giunse appena dietro di lui.

Manigoldo avrebbe voluto mentirle, ma, tanto, lei avrebbe comunque letto al di là dei suoi occhi.

“Fa un male bastardo”, spiegò, affrettandosi a richiudere la pesante porta d’ingesso per evitare che lei potesse prendere freddo.

“Togliti i pantaloni”, continuò lei, congelandolo sul posto, una mano ancora saldamente stretta alla maniglia.

“Forza! Cosa stai aspettando?”, continuò rovistando in borsa di cuoio di notevoli dimensioni che campeggiava su un ripiano della cucina.

“Trovato!”, esclamò alla fine brandendo una boccetta d’unguento come se fosse un’arma.

“Questo è miracoloso!”, gli aveva spiegato, mentre lui prendeva nuovamente posto sul divano, la gamba ferita allungata sui cuscini.

Francine spalmò quell’olio denso che sapeva di fiori sul rosso arrabbiato della cicatrice che spiccava ancora sulla sua pelle.

Le mani piacevolmente fresche sul calore malsano che ancora lo infastidiva, sulla cicatrice larga e frastagliata che avrebbe reso testimonianza eterna di quanto lui e il suo maestro erano riusciti a compiere.

“Grazie”, la voce roca, mentre con una mano le prendeva delicato un polso, fermando i suoi movimenti, prima che risvegliassero una differente necessità.

“Ora è meglio se andiamo a riposare”, concluse, con la voce strozzata, alzandosi lentamente ed accompagnandola verso la camera da letto.

Sprofondò nel sonno appoggiato ai cuscini del divano, i pantaloni dimenticati a terra, la camicia malamente gettata sulla sedia, una mano a coprirgli gli occhi.

Era ormai notte fonda, quando i tuoni fecero tremare i vetri delle finestre e la pioggia, battente, rinfrescava i tetti riarsi dal sole del giorno.

Manigoldo sospirò cercando di voltarsi sul fianco per cambiare posizione, impresa non semplice dato l’esiguo spazio a sua disposizione ed il fastidio alla gamba. Aprì di scatto gli occhi, adattandoli all’oscurità circostante, quando avvertì una mano fresca sul suo braccio.

Dovette impiegare tutto il suo controllo per non bruciare, d’istinto, il cosmo, riconoscendo, con i suoi sensi ben allenati, che non v’era in effetti, alcuna minaccia.

“Mani...Manigoldo.” La voce un sussurro, mentre lui si alzava a sedere.

Picciridda...” Lei abbassò il capo, imbarazzata, chiedendosi come la sua voce, solitamente roca e sprezzante, potesse diventare così dolce.

“Stai bene? E’ successo qualcosa?”, continuò, preoccupato dalla sua presenza accanto a lui, a quell’ora inusuale.

Nelle sparute notti durante le quali si era fermato a dormire nella stanza degli ospiti della Decima Casa, lei, in caso di necessità, semplicemente lo chiamava dalla camera da letto attigua.

“Ho paura”, ammise Francine, la voce sommessa, la mano fresca, inosservata, era scivolata in quella calda di lui.

“Potresti, ecco, restare di là con me, per stanotte?”, concluse, l’accento marcato era tornato prepotente nella sua parlata fluida, e lui aveva sorriso, annuendo.

Disteso con lei, nel letto comodo e tiepido, mentre fuori i tuoni, il vento e la pioggia avevano spazzato via le stelle e i suoni della città.

“Ti chiedo perdono, Manigoldo.” Lui vestì un’espressione di stupita sorpresa, prima di accorgersi che, effettivamente, lei non la poteva vedere.

“Per cosa?”, domandò, quindi, la voce bassa e roca.

“Ho approfittato della tua disponibilità, del tuo impegno preso con El CId”, il ragazzo notò come la sua voce non si incrinasse più nel pronunciare il nome del marito, “e in tutti questi mesi tu mi sei sempre stato vicino, ugualmente”, continuò, mesta.

“Io, ora, ti considero sul serio una persona cara. E ti chiedo scusa per come ti ho trattato all’inizio, e per tutto il disturbo che la mia condizione ti ha arrecato.”

Manigoldo sorrise, una mano ad arruffarle fraterno i capelli.

”Naturale, picciridda. È dura per tutti perdere qualcuno che si ama, credimi. Ma sono fiero di te: hai saputo rialzarti e farti forza. Questo ti fa onore. Io sono felice di essere riuscito a darti una mano.”

Francine si avvicinò a lui, posandogli un leggero bacio sulla guancia.

“Grazie, Manigoldo.” I suoi occhi luccicavano nella penombra della stanza e a lui tornarono alla mente i ricordi di quando, bambino, sedeva al limitare dei cimiteri, a sera inoltrata, ad attendere qualche ignaro gentiluomo da derubare.

Le mille anime dei defunti si rincorrevano attorno a lui, evanescenti e luminose come lucciole.

Quel lucore che per lui aveva significato morte, ora preludeva alla vita.

Così, come uno che non ha più nulla da perdere, Manigoldo fece scivolare una mano sulla nuca di lei, attirandola verso il suo viso, per posare su quelle sue labbra lucide un bacio casto e ruvido.

“Adesso siamo pari, picciridda. Buonanotte.”

Sorrise, quando l’avvertì ridere, sommessamente, accanto a lui.



Eranthe gemeva, sotto di lui, mentre le stelle brillavano, su quello scampolo di spiaggia, dove si erano rifugiati, a spendere assieme quella notte disperata.

Appena una manciata di minuti prima, Minos del Grifone stava sorseggiando un caffè a casa loro, ancora un po’ livido ma praticamente guarito, accompagnato da Agathê, stranamente quieta e scura in volto.

Aveva avvisato il Santuario del fatto che il suo cosmo avesse cominciato a fremere; probabilmente l’armata di Hades stava preparando l’attacco.

Athena in persona, col suo viso da bambina e gli occhi chiari, gli aveva conferito la propria benedizione per la sua coraggiosa scelta di combattere al suo fianco.

“Non lo faccio per voi, somma Athena”, le aveva ricordato con un mezzo sorriso, al quale lei aveva risposto, comprensiva.

Era quindi sceso a Rodorio, conferendo con i responsabili civili delle vie di accesso principali, mentre Degél ghiacciava le strade rendendo impervio e pericoloso l’avanzare, e le fiamme indaco di Eranthe, guidate dal cosmo dei Gemelli, sostituivano le rose di Albafica.

Poi si era fermato a casa sua, invitato dalla ragazza e da quel suo uomo cupo, per un caffè, un momento insieme, come un addio sopito.

I suoi occhi grigi erano rimasti a lungo in quelli scuri di lei, mentre la accompagnava sulla grande balconata che dava sul mare, la sigaretta stretta tra le sue labbra rosse, il fumo azzurrognolo che saliva al cielo, lento, assieme ai pensieri ingarbugliati di lui. Il cosmo di Deuteros, terribile e soffocante, che, dall’interno, lo ammoniva di tenere mani, labbra, voce e persino pensieri, lontani da lei.

“Abbiamo combinato un bel casino eh, Minos?”, cominciò lei, sorridendo. Gli occhi leggermente a mandorla ricordavano quelli di una gatta.

Lui annuì sorridendo.

“Ti confesso che non pensavo che l’averti risvegliata, salvata e poi difesa avrebbe scatenato questa trasformazione, in te, in Rodorio.” Fece una pausa. “In me.”

Lei si voltò, appoggiandosi alla ringhiera azzurra, guardandolo come se lo vedesse per la prima volta.

“Minos, io non so cosa dire”, sospirò lanciando il mozzicone alle sue spalle. “Sono sempre stata solo una puttana, e nemmeno una di quelle di classe, come le ragazze di mia zia Melina”, aggiunse ridendo. “La nonna mi ha tenuta sempre lontana dal Santuario, a causa della mia ascendenza, temendo che qualcuno potesse insospettirsi o riconoscere il cosmo.” Si portò una mano al cuore.

“Ma non si può nascondersi in eterno”, concluse sorridendo.

Lui si avvicinò appoggiando i gomiti alla ringhiera a pochi centimetri da lei.

“Vi aiuterò, come posso, Eranthe”, sostenne lui, serio, lo sguardo deciso verso il mare scuro, prima di voltarsi di nuovo ad ammirare il suo profilo.

“So che non avrà alcun senso, per te, ma ti prego di ascoltare”, continuò, prendendole una mano ed ignorando una vampata di calore che gli scottò le nocche provenire dal cosmo dei Gemelli.

“Domani arriveranno i nostri soldati, i nostri Generali, ed io non credo di riuscire a cavarmela, ancora”, riprese, respirando a fondo. “Non voglio partire con rimpianti a gravarmi sull’anima. Quel cretino di Lune me la farebbe pagare!”, scherzò, mentre le sue dita si intrecciavano a quelle di lei.

“Io ti amo, Eranthe. So che non potrò mai averti. Ma ti amo ugualmente. È come...” Si interruppe cercando le parole. “Come se tu ed io fossimo due facce della medesima medaglia, come se ci completassimo.”*

La guardò in quei suoi occhi di stelle, sorridendo alla sua dolente sorpresa.

“Ti prego, ora non dire nulla”, abbozzò una risata, lasciandola andare. “Ti proteggerò, domani. Sempre”, concluse, spingendola gentile verso la portafinestra e seguendo con lo sguardo i suoi passi. Sorridendo.

Quando i loro ospiti lasciarono la casa, Deuteros la cinse, protettivo, baciandola dolce e dominante, come se fosse la prima, l’ultima volta. Sollevandola alla sua altezza, mentre le sue gambe gli cingevano la vita.

“Non qui, Deuteros”, gli sussurrò, leccandogli le labbra. “In riva al mare, sotto le stelle.”



Agathê era inquieta, mentre, a notte inoltrata, camminava freneticamente nel lungo corridoio che separava le camere da letto.

Minos emerse dalla stanza a lui assegnata, assonnato ed arruffato, guardandola sottecchi tra uno sbadiglio e l’altro.

“Cosa ti prende? Non riesci a dormire?”, le domandò appoggiandosi allo stipite della porta, le braccia conserte, gli occhi stanchi.

La ragazza si fermò di colpo, voltandosi verso di lui, inchiodata sui suoi passi, lo sguardo improvvisamente terrorizzato.

“Agathê, tutto bene?”, lui mosse un passo verso di lei, che, contro ogni aspettativa, si lanciò tra le sue braccia, cercando le sue labbra.

E lui, rispondendo, per puro istinto, d’un tratto, comprese, tutto ciò che non avrebbe potuto vivere, tutto ciò che avrebbe lasciato indietro, incompiuto.

Tutto ciò che sarebbe stato, se il domani non fosse mai giunto.

“Puoi chiudere gli occhi e fingere che sia lei.”

E lui, di rimando, guardandola a lungo in quel verde liquido di lacrime, a cercare un segnale, uno qualsiasi, che gli indicasse di desistere.

“Puoi chiudere gli occhi e fingere che sia lui.”

E nel suo letto, le mani di lei cercavano, perse nei suoi capelli, lunghi e lisci, un azzurro che non possedeva, mentre le labbra di lui volevano un sapore di menta, che, invece, lo assaliva come ciliegie mature.

Poi, però, entrambi aprirono gli occhi, studiandosi per lunghi momenti, uno dentro l’altra, per distruggere quell’illusione di cuore e di sensi ed accogliere la realtà di quanto avevano da offrire.

“Minos”, sospirò lei, mentre lui sorrideva, all’ironia della sorte che l’aveva costretta a scegliere proprio quel nemico terribile che le aveva portato via l’uomo che amava.

Il Santo che, se solo avesse corrisposto quel sentimento disperato, l’avrebbe condotta alla tomba, solo con un bacio.

“Vieni con me, Agathê”, le sussurrò, il verde del bosco contro l’indaco del mare profondo.

E alla fine, mentre la stringeva fra le braccia, a calmare i suoi singhiozzi, lui aveva notato di come il rosso e il bianco, su quel lenzuolo umido, avessero creato i petali di una rosa perfetta.

Poi la notte si fece cupa, piena di presagi di guerra, oscura, come le ali maestose della sua Surplice.



NOTE:

Grazie a Francine, ad _Haushinka e a tutti quanti passano.

*La Fenice (Bennu in Egitto), è un simbolo controverso. Nella mitologia greca arcaica, prima ancora del Pantheon conosciuto, era associata al Grifone, spesso si indicava per entrambi la medesima costellazione, come una sorta di compagna, per questo la scelta di Minos. Per la mitologia induista è Garuda, ma ho preferito evitare di chiamare in causa Aiacos!

  
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