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Autore: fourty_seven    04/06/2014    2 recensioni
Se vi state chiedendo chi io sia... beh lasciate perdere non ne vale la pena. Tuttavia per coloro che sono ugualmente interessati posso dire che sono un ragazzo con dei "problemi".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Entro in un bilocale abbastanza spoglio; gli unici mobili sono un tavolo circolare di legno, al centro della stanza, accompagnato da due sedie, una piccola cucina, cioè forno, fornello e frigo; mentre nell’altra stanza vi è un letto singolo, un armadio e una libreria, traboccante di libri, al cui centro è stato ricavato lo spazio per un piccolo televisore.
Andiamo nella cucina/sala da pranzo e mi fa cenno di sedermi su di una sedia. Mi accomodo mentre lui prende del ghiaccio dal congelatore, che mi passa, e uno straccio, che appoggia alla fronte per asciugarsi il sangue. Poi si siede anche lui.
“Vuoi qualcosa da bere?” chiede.
“Dell’acqua va più che bene”. Si alza nuovamente, prende due bicchieri e li riempie con l’acqua del rubinetto; li appoggia sul tavolo e si risiede nuovamente. Rimaniamo entrambi in silenzio, lui fissa fuori dall’unica finestra di questa stanza, mentre io guardo l’acqua nel mio bicchiere.
“Penso che tu sia curioso di sapere perché quei due ce l’avevano con me?” inizia a parlare.
“Più che altro sono curioso di sapere il legame fra te e il tizio che era a terra semisvenuto”, lui sposta lo sguardo su di me.
“Beh, le due cose sono collegate”.
“Su questo non avevo dubbi”. E cade ancora il silenzio tra di noi.
Vedo, capisco che si sta sforzando di tirare fuori le parole; so quanto è difficile far uscire la verità quando la si vorrebbe tenere nascosta, chiusa in una camera blindata della propria mente, lontana da tutti, poiché, dopo che l’avranno sentita, dopo che avranno visto nel profondo della nostra essenza, non ci guarderanno più come prima, non ci tratterranno più come prima; ma nei loro occhi, nei loro atteggiamenti vedremo riflessi i crimini e le colpe che abbiamo commesso e che volevamo tenere segreti.
“Hai detto che sai chi sono, presumo tu intendessi dire che conosci la mia storia” parlo io per primo questa volta; lui annuisce: “A grandi linee”.
Mi sposto sulla sedia per cercare una posizione più comoda, poi bevo un sorso d’acqua.
“Ero in India già da quasi un mese. Facevo parte di una squadra il cui compito era localizzare la base operativa nemica” smetto di parare e lo guardo.
“Questo lo so già; questa parte di storia è stata di dominio pubblico per un po’ di tempo”.
“Bene, allora posso saltare qualche passaggio”.
 
 
“Coraggio continua a camminare ragazzo” mi esorta Marco, ma io sono stanco. Odio essere debole, odio essere un peso per gli altri, ma ho raggiunto il limite. Due giorni, due giorni di cammino ininterrotto, di vagabondaggio senza meta con un unico obbiettivo: allontanarsi il più possibile dall’esercito nemico che resta sempre e comunque vicino a noi; indipendentemente dalla direzione che prendiamo alla fine troviamo loro.
L’arbusto a cui sono aggrappato si spezza, perdo la presa e cado. Ma non faccio molta strada; fortunatamente ho accanto Marco che mi afferra al volo.
“Grazie”.
“Coraggio continua”. Pochi metri e mi aggrappo alla mano di Philip che mi aiuta a raggiungere la cima del piccolo pendio, su cui sto cercando di salire.
“Non mi sempre che la situazione sia migliorata” commenta Fred.
“Già; invece di vedere i tronchi, vediamo le cime degli alberi” continua Philip.
“Dateci un taglio” dice perentorio Marco, Phil si volta e gli sorride: “Magari! Se solo avessi una motosega gigante taglierei volentieri tutte queste piante, così potremmo finalmente capire dove andare!”, poi io, lui e Fred ci mettiamo a ridere, mentre Marco, scuotendo la testa, raggiunge Tom che è più avanti, in piedi sul ciglio. Mi avvicino anch’io; effettivamente Phil ha ragione, non ci ha aiutato molto l’aver scalato questa bassa collina rocciosa, non si vede altro che alberi in ogni caso!
Tuttavia quando raggiungo il ciglio mi rendo conto che fare tutta quella fatica non è stata del tutto inutile, almeno da qua il panorama è stupendo.
Il “piccolo” pendio, che ho appena scalato, lo è solo da un lato, l’altro lato è uno strapiombo di un centinaio di metri da cui la vista può spaziare indisturbata per chilometri e chilometri, perdendosi in un mare di verde, in continuo movimento, bagnato dalla luce del sole che risplende al centro di un cielo del colore dell’oceano.
Però che poeta! Questa me la sarei dovuta segnare, non era male.
Il mio sguardo viene catturato da un particolare strano; proprio ai piedi del dirupo si vede una macchia scura in mezzo al verde brillante degli alberi; qualunque cosa sia non può essere naturale.
“Che è quello?” chiedo.
“Potrebbe essere un villaggio o un accampamento, in ogni caso al momento sembra essere vuoto” mi risponde George.
“Di che state parlando?” chiede Phil avvicinandosi anche lui, “Ah! Quello. Sì, non penso che tutti quegli alberi possano essere caduti di loro spontanea volontà, e sicuramente non avrebbero mai potuto formare uno spiazzo così regolare” aggiunge lasciandoci tutti stupiti, dato che non è da lui fare ragionamenti del genere.
“Che avete tutti da guardare! Se faccio l’idiota non vuol dire che lo sia veramente!”.
“Sarà” commenta Marco.
“Chi l’avrebbe mai detto” aggiunge Fred. Io continuo a guardare in basso: “Dobbiamo scendere a vedere di che si tratta?” chiedo.
“Direi proprio di sì” risponde George guardando Tom per avere conferma, il quale, dopo un attimo di riflessione, annuisce.
Ci rimettiamo in marcia, costeggiando il ciglio del dirupo, che digrada dolcemente verso il basso.
 
Non so di preciso quanto tempo ci impieghiamo, ma comunque non poco, dato che quando siamo arrivati il sole è sta per iniziare a tramontare.
“Okay, abbiamo avuto la conferma che si tratta di un accampamento militare e ora cosa si fa?” chiede Fred, quando ci fermiamo al limitare degli alberi che circondano l’accampamento.
“Andiamo dentro a controllare?” chiedo io guardando la palizzata che si erge attorno ad esso, nascondendo l’interno alla nostra vista.
“Sì, potremmo trovare qualcosa di utile” risponde Tom, poi si volta verso di noi: “Marco, Jen e George con me”, abbassa lo sguardo su di me: “Tu, Philip e Fred pattugliate la zona, al minimo segno di pericolo...”.
“Facciamo un fischio. Capito” completa Phil, mettendomi un braccio sulle spalle, “Coraggio ragazzi, di pattuglia!” dice allegro, poi mi spinge via.
Ci inoltriamo fra gli alberi percorrendo tre percorsi diversi per pattugliare l’area più ampia possibile attorno all’accampamento.
Dopo mezz’ora, forse, si sente un fischio; così mi volto e torno sui miei passi, fino al punto in cui Tom e gli altri sono entrati nell’accampamento. Sono l’ultimo ad arrivare e noto immediatamente un paio di zaini in più.
“...Munizioni e un paio di fucili” sta dicendo George.
“Ottimo” dice Phil, prendendo un fucile in mano; vedo che anche gli altri sono tutti armati, finalmente abbiamo qualcosa con cui difenderci.
“Oh eccoti qua!” esclama Philip appena mi vede, “Ho un regalo per te” continua alzando uno zaino da terra, “Prego è tutto tuo!” e me lo lancia. Lo prendo al volo, ma è più pesante di quanto mi aspettassi, così mi cade dalle mani. Ovviamente Phil scoppia a ridere, ma decido di ignorarlo e mi carico lo zaino sulle spalle.
Tom si avvicina, noto che in mano ha un oggetto nero; “Tieni, non abbiamo trovato altre armi e questa ha pochi colpi, usala bene” dice allungandomi una pistola. Un po’ titubante la afferro; ovviamente ho già maneggiato un’arma, ma solo durante esercitazioni; per adesso non ho mai avuto occasione di provarne una in un’esperienza reale e sinceramente mi auguro che non capiti mai quest’opportunità.
Restiamo accanto all’accampamento per altri cinque minuti, giusto il tempo che serve a Tom per riferirci ciò che hanno trovato, o meglio ciò che non hanno trovato, poiché, sebbene sia evidente che quest’accampamento venga usato, non ci sono tracce recenti della presenza di esseri umani.
Finito il resoconto ci mettiamo in cammino, ancora una volta senza una meta precisa, dato che non siamo ancora riusciti a trovare indicazioni precise sulla nostra posizione.
 
Percorriamo qualche chilometro in mezzo alla vegetazione, poi all’improvviso risuonano attorno a noi delle voci.
Immediatamente ci fermiamo, dopo qualche istante Tom ci fa segno di nasconderci da qualche parte e io seguo Fred sotto le radici di un grande albero. Restiamo in ascolto, armi in pugno, mentre le voci si avvicinano sempre di più; è evidente che non sono altri soldati americani, dato che non capisco nulla di ciò che dicono, ma c’è la speranza che siano di altre nazioni alleate, anche se mi sembra alquanto improbabile. All’improvviso scoppia una risata praticamente di fronte al nostro nascondiglio e dopo qualche istante compare un gruppo di uomini armati. Non ho più dubbi: sono i ribelli. Non ci vedono e passano oltre tranquillamente, dirigendosi, credo, verso l’accampamento che abbiamo appena lasciato. Però questi non sono gli unici, dato che si sentono altre voci un po’ più distanti; improvvisamente, tra le voci straniere, una famigliare che grida qualcosa e dopo le grida risuonano degli spari. Io e Fred abbiamo la stessa reazione; tutti i nostri muscoli si contraggono, preparandosi per scattare via. Altri spari più vicini, io esco dal nascondiglio, seguito a ruota da Fred, cominciando a correre verso di essi; ma prima di raggiungerli ci imbattiamo in altri uomini, che si stanno guardando attorno confusi con le armi in mano. Ci vedono e Fred apre il fuoco, falciandone tre prima che abbiano il tempo di reagire, poi mi spinge via e continuiamo a correre, inseguiti dai proiettili. Corro, corro e improvvisamente non ho più terra sotto i piedi; cado in avanti e inizio a rotolare giù per un pendio. Riesco a fermarmi solo quando colpisco violentemente con la schiena qualcosa di duro.
Rimango immobile, stordito, per qualche minuto; poi, quando il mondo smette di girare e il dolore alla schiena è un po’ diminuito, provo a mettermi in piedi. Un po’ barcollante faccio qualche passo, uscendo da dietro il gruppo di rocce contro cui ero andato a sbattere, e vedo due cose: Fred, vivo ma svenuto, e un uomo accanto a lui con un fucile in mano. Rimango fermo, paralizzato, incapace anche solo di pensare mentre guardo le braccia dell’uomo alzarsi, mentre vedo la canna del fucile sollevarsi e puntare contro la testa di Fred; poi qualcosa dentro di me scatta. Se avessi la pistola gli avrei già sparato, ma, dato che la tenevo in mano quando sono caduto, l’ho persa, così agisco in maniera differente.
Corro verso di lui gridando e nel momento in cui si volta nella mia direzione gli sono addosso; lo spingo a terra, prendo il suo fucile e con uno strattone glielo tolgo dalle mani; lui è troppo stupito per reagire prontamente, così appoggio la canna dell’arma contro il suo sterno e premo il grilletto.
Tolgo il dito solo quando il caricatore è vuoto, poi mi rialzo e mi allontano dal corpo.
 
Solo quando è il sole è quasi calato Tom riesce a trovare anche l’ultimo soldato ribelle; lo capisco perché risuona un altro sparo nel silenzio.
Dopo una decina di minuti lui, Marco e Phil ritornano all’accampamento che abbiamo allestito. La prima cosa che Tom fa è guardarmi; Jen gli va in contro e cominciano a parlare, cercando di non farsi sentire, ma io li sento comunque.
“È da quando lo abbiamo trovato che è in quello stato. Penso che dovresti parlargli”.
“Per quale ragione; è una situazione che deve affrontare da solo...”.
“Tom! È solo un ragazzo e a differenza nostra non ha scelto questo mondo di sua spontanea volontà” continua lei. Penso che queste parole convincano Tom, dato che lo sento avvicinarsi. Tuttavia ha ragione lui; è una situazione che devo affrontare da solo, anche perché non sono in questo stato per la ragione che credono loro.
Tom si siede accanto a me sul tronco su cui io sono seduto da quasi un’ora, seduto immobile con lo sguardo perso nel vuoto.
“Senti, so come ti senti; è difficile da...”.
“No” dico interrompendolo, “No, è questo il punto; non è difficile, non è stato difficile, ho semplicemente agito, agito senza pensare”; smetto di parlare, ma lui non aggiunge nulla, così continuo io: “Anche adesso... Nulla, non provo nulla. Pensavo, ero convinto che non sarei mai riuscito ad uccidere un uomo, che sarebbe stata un’esperienza terribile; invece no, non sento nulla, sono solo sollevato, felice che Fred sia ancora vivo, felice che io sia ancora vivo e sinceramente non me ne frega nulla che per ottenere queste due cosa sia dovuto morire un uomo. L’ho già dimenticato; ho il suo sangue addosso, sui vestiti, sul volto, eppure non mi ricordo più nulla di lui, nemmeno che faccia avesse. Ormai è solo un corpo, quasi un oggetto, là fra gli alberi, un oggetto di cui non mi devo più preoccupare dato che ho, dato che abbiamo altri problemi più importanti al momento”. Prendo fiato, poi continuo ancora: “È questo il mio problema. È giusto reagire in questo modo?”.
Tom alza lo sguardo verso di me: “No, non è giusto. Non è giusto e è nemmeno sbagliato; non qui, non ora che stai lottando per la tua sopravvivenza. Dopo, solamente quando sarai riuscito a tornare a casa, potrai riflettere lucidamente sulle tue azioni, solamente quando sarai tornato nel mondo civile potrai giudicare il tuo comportamento e ti assicuro che ci riuscirai benissimo, ad autoaccusarti; sarai il giudice più spietato che esista al mondo quando esaminerai i tuoi crimini e ti infliggerai una condanna terribile. Stai tranquillo, è successo a tutti noi” dice indicando gli altri, “Hai detto che già non ti ricordi più il suo volto? Non ti preoccupare, poi lo ricorderai; li ricorderai tutti alla perfezione e non sarai mai più in grado di dimenticarli” conclude, poi si alza e va ad aiutare Jen.
 
 
“E aveva ragione. Quello è stato il primo uomo che ho ucciso, il primo di una lunga serie e adesso tornano tutti, abbastanza puntualmente, a trovarmi” concludo, poi bevo l’ultimo sorso d’acqua rimasto nel bicchiere.
Jason è ancora fermo, le braccia appoggiate sul tavolo con le mani giunte, i suoi occhi fissi nei miei; ha ascoltato, ha capito e non mi ha giudicato un assassino.
Rimaniamo in silenzio per un bel pezzo; qualcosa, una macchina o forse un mezzo più pesante, passa nella strada sottostante, il primo segno di vita dopo molto tempo.
Quando si è allontanato, quando è scomparso anche l’ultimo segno del suo passaggio, Jason si riscuote, si posta dal tavolo e si appoggia allo schienale della sedia.
“Invece io non posso saltare qualche passaggio” dice.
“Non preoccuparti, ho a disposizione tutto il tempo che serve”, lui annuisce; poi anche lui finisce in un sorso solo l’acqua rimasta e comincia a parlare.
“Come penso tu abbia notato, io non sono americano, ma sono di origini colombiane. Mio padre era un narcotrafficante, non un pezzo grosso di fama internazionale, ma abbastanza importante da potersi permettere una bella casa e una bella vita per se e sua moglie; non gli ho mai conosciuti. Mia madre è morta di parto, mentre mio padre è stato coinvolto in una sparatoria quando avevo solo due anni. Sono stato cresciuto da mio zio, uno dei signori della droga più famigerati al mondo, ad Houston, da dove poteva controllare al meglio i sui traffici”, si ferma e mi guarda; forse si aspetta di vedere qualcosa sul mio volto, un segno che testimoni il fatto che io lo stia giudicando, che sentendo le sue parole mi sia già fatto un’idea su di lui e sulla sua storia; ma non è così e lui lo capisce, e sembra apprezzarlo. Con un sospiro continua a raccontare: “Aveva un villa immensa, ancora ricordo le stanze in cui giocavo da bambino, assieme ad una domestica; non si può dire che abbia avuto un’infanzia difficile, anzi ero abbastanza viziato e coccolato, almeno fino al giorno in cui mio zio decise che ero abbastanza uomo per cominciare ad interessarmi al suo mondo”.
 
 
Finalmente oggi ho dodici anni! È da un pezzo che lo zio dice di avere una grossa sorpresa per me e io non vedo l’ora di scoprire che cosa sia.
“Sei agitato giovanotto?” mi chiede.
“Un po’. Non mi puoi proprio anticipare nulla Carlos?”, lui mi sorride: “Certo che no! Tuo zio non mi perdonerebbe mai se rovinassi la sorpresa. Tanto siamo arrivati” mi risponde fermandosi di fronte alla porta dello studio dello zio, uno dei posti che fino a questo momento sono stati inaccessibili per me, e quindi ora non resisto più alla curiosità di vedere che cosa ci sia dentro. Non aspetto nemmeno che Carlos mi apra la porta, lo precedo e la spalanco. Ciò che vedo un po’ mi delude, ero convinto che contenesse chissà quali meraviglie; invece scopro che non è molto diversa dalle altre parti della casa, forse ci sono solo più oggetti preziosi, come statue e quadri appesi alle pareti.
“Oh, buenas dias niño!” esclama mio zio appena mi vede. Porto gli occhi su di lui, distogliendo l’attenzione dal resto della stanza; è seduto dietro una grande scrivania di legno di fronte a cui ci sono altre tre persone, solo adesso noto la loro presenza. Due le conosco, sono le guardie di mio zio, l’altra invece è un uomo, seduto su una sedia, che mi sta fissando con gli occhi spalancati, come se avesse paura di me, ma non ne capisco il motivo.
“Vieni qui figliolo” dice ancora mio zio; mi muovo verso di lui, ma continuo ad osservare l’uomo, che ha riportato l’attenzione su mio zio. La paura dai suoi occhi non è ancora scomparsa.
“Ti presento il signor Hernandez” dice indicandomi l’uomo.
“Perché ha paura?” chiedo, mio zio scoppia a ridere.
“Che ragazzo sveglio!” dice guardandomi, poi torna ad osservare l’uomo: “Ha paura che lo sgridi poiché non ha restituito ciò che mi appartiene”; a queste parole l’uomo si agita sulla sedia e comincia a parlare: “Non è vero, ho solo...” ma ad un cenno di mio zio le guardie gli tappano la bocca, impedendogli di continuare. Io guardo mio zio, non capendo cosa sta succedendo. Lui si alza dalla sedia e va verso l’uomo.
“Vedi figliolo, quest’uomo ha sbagliato e io lo devo punire, proprio come facevo con te quando eri piccolo” mi dice posizionandosi di fronte a lui, poi mi fa cenno con la mano di raggiungerlo. Io obbedisco e mi metto di fianco a mio zio che si volta verso una delle sue guardie, questa prende qualcosa da dentro la giacca e la passa a mio zio che a sua volta la da a me.
Mi ritrovo una pistola in mano, una pistola vera. Ho sempre voluto toccarne una vera; le ho sempre viste, esposte assieme ad altre armi, in un mobile in salotto, ma non ho mai potuto toccarle. Ho solo ricevuto una pistola giocattolo due anni fa, mi piace usarla e sono anche bravo. Però ora, ora che finalmente posso toccare una pistola vera, non mi piace più; non mi piace questa situazione, io e mio zio in piedi di fronte a quest’uomo, un uomo adulto che sta piangendo come un bambino.
C’è qualcosa di sbagliato.
“Sparagli” ordina mio zio.
“Cosa?” chiedo. Non capisco, perché dovrei farlo.
“Ti ho già spiegato, deve essere punito. Coraggio, so che sei capace, tira fuori il vero uomo che c’è in te”.
“Ma... ma... Lui... No non sono capace” balbetto.
“Non è diverso da come fai di solito” dice mio zio mettendo una mano su quella con cui impugno la pistola, facendomela alzare verso la fronte dell’uomo, poi il suo dito indice spinge il mio verso il grilletto e me lo fa premere.
Parte un colpo, il corpo dell’uomo viene spinto all’indietro mentre io chiudo gli occhi. Qualcosa di caldo mi colpisce il volto.
Lascio immediatamente cadere la pistola e mi volto dalla parte opposta. La prima cosa che vedo, appena riapro gli occhi, è il volto di mio zio: è serio, ma non arrabbiato, con un fazzoletto toglie ciò che ho sul volto.
“Non devi sentirti dispiaciuto per ciò che hai appena fatto, ma non ti deve nemmeno essere piaciuto. Uccidere deve essere qualcosa che fai per necessità, non per piacere”, si rialza, “Comunque ricorda sempre che finché non si conosce la morte non si può apprezzare la vita”.
 
 
“Quello è stato il primo uomo che ho ucciso, il primo di una lunga serie” finisce di parlare e mi guarda; mi guarda e capisce che nemmeno ora che conosco la sua storia l’ho giudicato, che non mi ha nemmeno sfiorato il pensiero di considerarlo un assassino, che per me lui è e rimarrà sempre un essere umano.
Restiamo in silenzio ancora per qualche minuto, poi gli devo assolutamente chiedere una cosa: “E quella come te la sei fatta?”. Lui  prima mi guarda sorpreso, poi si mette a ridere.
Si alza per mettere i bicchieri sporchi nel lavandino; “Questa” e indica la sua cicatrice, “Me la sono fatta a quindici anni, spaccando la legna assieme a mio padre”, si volta e ride ancora vedendo la mia espressione perplessa.
“Quando avevo quattordici anni mio zio è stato arrestato e io sono stato affidato ad una tranquilla famiglia canadese, il più lontano possibile da lui. Quello è stato veramente il periodo più bello della mia vita; e la mia cicatrice risale a quei tempi”.
“Come mai adesso sei qui e non in Canada?”.
“Mio zio è stato rilasciato. Alla fine del processo, invece di venire condannato alla pena capitale, gli hanno dato solo una trentina d’anni, che in realtà sono stati solo cinque”.
“Com’è possibile! Non era un criminale Internazionale?”. Lui annuisce: “Sì certamente, ma il suo nome non compariva mai; qualunque cosa abbia fatto, dal comprare una casa a far ammazzare una persona, ha sempre agito nell’ombra, usando prestanome o altri espedienti simili. Agli occhi della legge lui era solo un rispettabile cittadino Texano. Lo hanno preso solo perché ha commesso una piccola imprudenza. Ha sempre affermato di essere in grado di capire le persone al volo, di saper distinguere i codardi da quelli che invece gli avrebbero potuto creare problemi; beh una volta non ci è riuscito. Ma a quanto pare ha molte amicizie e tutte molto in alto, le quali non si sono tirate in dietro nel momento del bisogno. E così, appena uscito dal carcere, la prima cosa che ha fatto è stata quella di trovarmi e riprendermi con sé. Ho ripreso a lavorare per lui, anzi mi sono trasferito in questa città un paio d’anni fa proprio per conto suo, poiché ha deciso di aprire un’attività in zona, affidandone la gestione ad un suo conoscente, e ha mandato me a controllare”.
“Capisco. Quindi anche i tizi di prima...”.
“Sono collegati alle mie... mansioni”.
Mi alzo dalla sedia e do una veloce occhiata alla casa: “E questa topaia? È una sorta di copertura per non destare sospetti?” chiedo.
“No, semplicemente non posso permettermi altro. L’unica cosa che sono riuscito a rifiutare sono i soldi; la possibilità di non vivere sfruttando i soldi di mio zio è l’unico atto di ribellione che mi rimane. Purtroppo il mio stipendio di bibliotecario part-time è molto, molto misero”.
Si alza anche lui e va nella stanza con il letto; “Vivere solo con quello che guadagno e studiare” aggiunge al discorso di prima, mentre prende in mano un libro, un grosso tomo di una qualche materia a me sconosciuta. Poi lo rimette al suo posto e mi guarda, io gli sorrido.
“Questo è quanto” conclude. Io abbasso gli occhi sull’orologio: cinque minuti e scatta il coprifuoco.
“Ora dovrei proprio andare”.
 
Arrivo a casa con venti minuti di ritardo e, considerate anche le condizioni della mia faccia, posso affermare con sicurezza che sono nei guai.
Busso alla porta per farmi aprire dal momento che non mi sono portato dietro le chiavi di casa quando sono uscito oggi pomeriggio, preparandomi mentalmente per affrontare ogni possibile reazione che potrebbe avere mia madre; prendo addirittura il cellulare, pronto per comporre il numero delle emergenze. Ma chi mi apre la porta è Sarah.
  
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