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Autore: Anbu Scream    04/06/2014    0 recensioni
Si tratta di un piccolo testo in cui si può leggere all'interno della mentre di un ragazzo, tanto giovane quanto disperato. Lasciatemi citare una parola: Giochiamo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Il Joker era appena uscito dalla sala, lasciando il ragazzo solo, ancora grondante di sangue e legato sulla sedia. Sentiva in bocca quel gusto metallico, ormai familiare dopo giorni e giorni passati in quel modo e sentiva stringere il filo metallico attorno alle mani gonfie. Provò a muoverle un poco per poter lasciar scorrere un po' di sangue negli arti, ottenendo solo altro dolore. Ne era quasi accecato , tuttavia si sentiva ancora abbastanza lucido. Sapeva che le guardie lo avrebbero lasciato lì ancora per un po' di tempo a meditare sui suoi "errori" almeno fino a quando non avesse perso i sensi, per poi svegliarsi di nuovo nella sua cella con un vassoio con sopra un ago e del filo per potersi "ricucire". 
Facciamo un piccolo salto indietro.
Perchè si trovava in quel posto? Perchè il padre voleva giocare. La sua nascita era stata un gioco, volto a creare la bambola perfetta. Esperimento fallito, contando che al posto di un'unica bella ragazza brava in tutto erano nati due inutili gemelli: uno, quello che fra i due era l'esperimento più azazzeccato in quanto forte e disciplinato, era morto suicida dopo essersi reso conto che la sua vita sarebbe rimasta per sempre tale e quale a quella che stava vivendo, al contrario di quanto gli veniva raccontato. L'altro era lui, un poveraccio che non sapeva far nulla al di fuori di disegnare. E pensare. Da quando gli venne confiscato anche l'ultimo pezzo di carbone che usava per disegnare e rimase solo in quella stanza fredda e umida non faceva altro che pensare. A cosa? Lui stesso non sarebbe stato in grado di dare una risposta precisa. Quado venne a sapere che il gemello era morto cadde in depressione. A parte il suo crudele padre non aveva mai conosciuto nessun'altro, le guardie non erano niente meno che fantasmi che si facevano beffe di lui. Trovò il modo di reprimere il dolore mentale con quelo fisico. Passava le nocche contro il muro, avanti e indiero, premendole sempre più contro il cemento rugoso della parete, fino a lasciar scivolare strisce di rosso sangue, così bello, così luminoso e "diverso". Era l'unica cosa colorata che riusciva a scorgere all'interno della stanza, che però con i minuti degradva in uno scuro marrone. No, pensava, ho bisogno di colore. E cotinuava.
A lungo andare la solitudine aumentava. Era solo. Unico passatempo sfregiarsi le mani. Poi, da un giorno all'altro, capì. 
Il padre voleva giocare. E sia. Giochiamo. Smise così, da un giorno all'altro di farsi del male e decise che la libertà se la sarebbe guadagnata con il sudore della fronte. Come? Fuggendo e mai pregando. Ormai da tempo gli era chiaro che non sarebbe mai venuo nessuno ad aiutarlo, ad a sciugargli le ferite. Era solo e questo lo sapeva, ma non faceva male. Anzi, iniziò a credere che tutte le persone fossero come le guardie, fantasmi tutti uguali e senza volto e la solitudine divenne quasi un piacere. Il colore rosso che aveva imbrattato le sue paeti non sarebbe più stato suo. Ma di altri.
Le punizioni come quella che stava vivendo in quello stesso momento divenivano via via sempre più frequenti, ma quasi non ci faceva più caso. 
Faceva tutto parte del gioco.
Lasciò che gli angoli della sua bocca s'increspassero in un sorriso. Un sorriso malato, nel quale si poteva leggere tutta la solitudine della sua vita.
  
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