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Autore: Paperetta    05/06/2014    1 recensioni
Andromeda rinnegò la propria famiglia.
Sirius rinnegò la propria famiglia.
Per tutta la vita si cercarono. Una vita trascorsa ad ascoltarsi, a sostenersi a vicenda, a inseguire i ricordi di quel passato vissuto insieme che li aiutò a diventare ciò che sono.
[Storia partecipante al concorso "Di fiabe e di canzoni" indetto da Mary Black]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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***


Ti cercavo.

Ogni estate, col sole che picchiava sulla mia testa piena di domande, con i miei genitori che mi guardavano sospettosi e si chiedevano perché cercassi proprio te. Andromeda, la cugina strana, che non seguiva il protocollo, che si interessava di cose a lei proibite. Andromeda, la mia preferita.

Ti piaceva stare seduta sotto l'albero grande del vostro giardino, in un angolo lontano e difficile da raggiungere. Non lo avrei mai scoperto se non mi ci avessi portato tu, un giorno di tanti anni fa. Avevo sette anni e ti chiesi di spiegarmi cosa fosse quello strano oggetto in legno acquistato per pochi spicci al mercato dell'usato, quel paese delle meraviglie che scovai durante una fuga dagli occhi distratti dei miei genitori. Capisti subito la provenienza della piccola motocicletta giocattolo che tenevo tra le mani e mi portasti via, lontano da occhi indiscreti – lontano dalle nostre famiglie –, fino al rifugio dei tuoi pomeriggi solitari.

“Sirius, lo sai che devi stare attento” mi dicesti, spaventata e severa. Lo sapevo, eccome se lo sapevo, ma era stato più forte di me; era sempre più forte di me, un bisogno quasi fisico di parlarti e raccontarti le mie scoperte e chiederti cosa fossero.

“Sì lo so, scusa... ma devi proprio dirmi che cos'è! Mi piace moltissimo!” ti risposi e il tuo sguardo ammonitore si addolcì col mio entusiasmo. Trascorremmo più di un'ora a chiacchierare di mezzi di trasporto babbani, io che pendevo dalle tue labbra e tu felice di poter parlare con qualcuno. Di poterci parlare veramente, col cuore aperto, come nel resto della tua disciplinata esistenza non ti era concesso.


 

Mi cercasti.

Fosti l'unica. Gli amici mi credevano un traditore, i nemici godevano nel sapermi in prigione – la nostra famiglia ne godeva. Ma il tarlo del dubbio ti toglieva il sonno, ti diceva che qualcosa non andava, che il cugino scappato di casa grazie al tuo aiuto non avrebbe mai potuto vendere i suoi amici, la sua vera famiglia. Sentivi il bisogno di parlarmi, di conoscere la mia versione, e non fu un problema per te varcare la soglia di Azkaban, braccata dai Dissennatori che ci tenevano d'occhio. Ti raccontai la mia verità e lo feci con la speranza negli occhi e il terrore nel cuore, perché dopo di te non sarebbe più venuto nessuno; perché la tua fiducia mi era sempre stata vitale, era la carica che al mattino che mi dava la forza di reagire a un destino già scritto e firmato.

“Dromeda. Ho bisogno che tu mi creda” ti dissi, stringendo i pugni sulle sbarre arrugginite e sudicie. Mi guardasti negli occhi, a lungo, immobile di fronte a me.

“Sai, Sirius, certe volte mi sento in colpa. Se ti avessi ignorato ogni volta che mi cercavi, ora forse saresti il Serpeverde vigliacco e docile che tutti volevano e saresti al sicuro, nella tua grande casa sicura e con la tua selezionata moglie sicura”.

La tua mano strinse la mia, e in quel momento compresi la tua risposta. Per un attimo, un solo attimo, mi concessi un sorriso: fu uno degli ultimi che riuscisti a strapparmi.

“Non puoi più venire qui, Dromeda. Se ti fai vedere con questo pericoloso assassino sospetteranno di te”.

L'indignazione scintillò nei tuoi occhi.

“Sirius, non ti lascerò mai a marcire qui da solo”

“Non puoi fare più niente per me, e io non voglio vederti dividere la cella con tua sorella!”

Ero fermo nella mia decisione, ti avrei cacciata via urlando se fosse servito a proteggerti. E tu questo lo sapevi, ma non t'importava. Tornasti ancora ogni volta che potevi, con il sole o con la pioggia, senza dare nell'occhio. Ti sedevi sul vecchio sgabello traballante accanto alla mia cella e cominciavi a parlare, mi raccontavi della vita che scorreva tranquilla senza di me, rispondevi a tutte le mie domande. Quelle brevi chiacchierate erano come ossigeno, tu eri come ossigeno, e io pendevo dalle tue labbra come quando ero bambino e ascoltavo le tue storie.

 

 

Ti cercai.

Eri sorvegliata, sapevano che da te avrei sempre trovato una mano pronta ad aiutarmi, ma io e te conoscevamo mille modi per vederci in segreto.

Gettai al vento la sicurezza, rischiai la vita pur di parlarti per qualche ora. Come sotto l'albero, in quelle giornate estive, perché quel desiderio di ascoltarti era sopravvissuto al tempo.

Ci incontrammo in un vecchio albergo babbano, lontano da occhi indiscreti – lontano dal mondo. Non ti vedevo da prima della mia fuga, ma eri ancora la stessa Andromeda di sempre, bella e fiera come ti ricordavo. Ti chiesi cosa succedeva fuori dalla mia seconda prigione, di darmi notizie che già conoscevo, perché avevo bisogno di vederti, di parlarti, di ascoltare i tuoi pensieri; di ricordare quei pomeriggi in cui mi trasformasti in ciò che sono. Parlammo e ricordammo per ore che parvero istanti. Pendevo ancora dalle tue labbra, quelle labbra che baciavano la mia pelle e sussurravano il mio nome; quelle labbra che cercavano disperatamente le mie mentre mi muovevo in te e ti stringevo la mano, i miei occhi fissi nei tuoi per trovarvi la mia forza, ancora e ancora.

Fu l'ultimo incontro. L'ultima volta che mi ricordasti chi sono.


 

***

Note dell'Autore: a quanto pare si tratta di una coppia non molto amata, visto che non è nemmeno presente nell'elenco, ma ho voluto comunque provare a cimentarmici (anzi, forse proprio per questo!).

Da quel poco che sappiamo dal libro, Sirius e Andromeda condividevano lo stesso punto di vista e non sarebbe così strano se avessero quantomeno un rapporto di amicizia più profondo che con gli altri parenti e cugini.

Qui provo a spiegarne la ragione!

  
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