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Autore: yayo    06/06/2014    0 recensioni
Noll Miles è un ragazzino di undici anni come tanti, anche se più piccolo della sua età, senza amici e con due genitori tristi che non parlano più né tra loro né con lui.
Ma come gli dice sempre Thabo, il suo amico immaginario africano, un giorno le cose cambieranno...
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Noll Miles era un ragazzino di undici anni come tanti. Aveva i capelli biondo scuro, che un giorno sicuramente sarebbero diventati castani, gli occhi pallidi e qualche lentiggine sparsa a caso sulle guance, come quando cade un pacco di riso mezzo vuoto sul pavimento. Sembrava più piccolo della sua età, infatti le rare volte che andava al luna park non poteva mai salire su nessuna giostra interessante perché non era alto abbastanza.
Abitava a Coventry, nel Warwickshire, quartiere di Potters Green.
Andava a scuola cinque giorni a settimana per sei ore al giorno. Non gli piaceva matematica e, secondo la sua prof di inglese, era affetto da una leggere forma di dislessia. Come se fosse una malattia contagiosa, e lui avesse dovuto rimanere a casa per evitare di far ammalare gli altri.
Il martedì e il giovedì la madre passava a prendere William Marlow, suo compagno di classe, e li portava entrambi a hockey. In macchina non parlavano. Appena sceso dalla macchina, William Marlow biascicava un “grazie, signora Miles” e schizzava via.
«Nemmeno lo avessi torturato, porco cazzo» commentava lei, con la solita eleganza British che la contraddistingueva.
Durante le due ore di allenamento (se così si poteva chiamare) Noll e William non si rivolgevano parola, ovviamente.
In effetti Noll non rivolgeva la parola a nessuno. E nessuno, d’altro canto, sembrava notare la sua presenza. Nemmeno l’allenatore, il signor Chiamatemi-Coach-Owen, faceva mai molto caso a lui. Poteva sì rivolgergli un sorriso di commiserazione quando lo vedeva spiaccicato per terra dopo uno scontro con un bambino molto più grosso di lui, o dargli qualche pacca sulla spalla alle sei meno due minuti, come a dirgli che la volta dopo sarebbe andato tutto “in maniera brillante, quindi non preoccuparti Jeoffrey”, ma nulla di più.
Il venerdì usciva di casa da solo e percorreva a piedi i tre isolati che lo separavano dalla casa di Ervin Gould, il suo maestro di pianoforte.
Era stato un alunno della signora Miles, che insegnava storia alle medie. E lei letteralmente stravedeva per lui.
Era un tipo strano, con un occhio verde e uno castano, i capelli sempre spettinati, che amava coinvolgerlo in discussioni profonde e filosofiche sul senso della vita e sull’insensatezza dei fast food ogni cento metri.
Noll lo ascoltava e stava zitto, senza sapere cosa dire.
La domenica c’era il “pranzo di famiglia” insieme ai parenti di suo padre. Tutto si risolveva in un due ore molto tristi che vedevano alcune persone sedute intorno a un tavolo a mangiare in silenzio, odiandosi un po’ e provando rancore per vicende lontane decine di anni.
Per esempio, zia Jennifer non aveva ancora perdonato il signor Miles per uno scherzo avvenuto negli anni Ottanta, che aveva riguardato una palla da bowling, della colla e un appuntamento “con la grande occasione della sua vita” completamente rovinato. Zia Jennifer non faceva altro che lanciargli occhiate di fuoco dal lato opposto del tavolo, incolpandolo tacitamente del suo matrimonio alla deriva con lo zio George, evidentemente in sovrappeso, con il vizio del fumo e di una media di dodici rutti a pasto.
 
Catapultato in quella vita a cui faceva da semplice spettatore (probabilmente in piedi, in fondo alla sala, vicino alla porta del bagno), Noll osservava le cose intorno a lui.
A volte si faceva domande, a volte no.
Per esempio, aveva smesso di domandarsi perché i suoi avessero sempre quella faccia grigia, senza colore né allegria. Perché non si parlassero tra loro e non parlassero con lui. Perché sua madre dicesse una parolaccia ogni volta che apriva bocca. Perché suo padre si assentasse inspiegabilmente per giorni senza dire a nessuno dove andasse. Perché nessuno avesse mai più parlato di Shauna, o perché non gli avessero mai chiesto come si sentisse al riguardo.
Si chiedeva invece perché non gli avessero mai comprato un cane, o si rifiutassero entrambi categoricamente di apparecchiare a cena per Thabo, il suo migliore amico africano immaginario.
Thabo era un tipo a posto. Aveva dei capelli un po’ strani e a volte cominciava a cantare canzoni dal nulla, ma era simpatico. Gli raccontava delle cose meravigliose su mondi fantastici e magici.
«Ma Thabo, tu lì ci sei stato?»
«Ma è ovvio, altrimenti come farei a saperlo?»
«Perché te lo inventi»
«No invece, non mi invento niente. Un giorno ti porterò con me e vedrai»
«Quando?»
«Un giorno. Quando sarai pronto».
Ovviamente Noll non ci credeva. Non era stupido. Ai maghi e alle streghe non ci credeva. E nemmeno alle fate, ai giganti e ai fantasmi. Però credeva a Babbo Natale.
Anche se molto spesso gli faceva trovare regali assolutamente discutibili.
 
Poi un giorno arrivò una lettera, e tutto cambiò.
   
 
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