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Autore: ezrambling    07/06/2014    2 recensioni
Louis pensava che la maglia della nazionale fosse tutto quello che desiderava, ma non è poi così sicuro di meritarla davvero.
Una larry football au, più o meno.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le note le metto su perché devo premettere una cosa. Questa è la prima volta che mi viene in mente un'idea e la scrivo di getto dall'inizio alla fine, e ci tengo perché tratta anche se in modo davvero lieve una parte della storia balcanica che mi sta molto a cuore.
Mi rendo conto che Louis ed Harry non sono proprio due nomi slavi, ma in questo momento solo loro mi portano a scrivere determinate cose per cui mi dico che alla fine vale la pena prendersi qualche libertà di questo tipo. La storia della nazionale bosniaca è molto romantica, perché si porta dietro anche la storia di una nazione, ma forse anche di un popolo, che è nato con lei. E anche se quello è solo il pretesto ed il rapporto tra Harry e Lou ne è solo la cornice, c'era un pensiero da cui è nato il tutto che spero venga fuori.

La dedico a Nat, che probabilmente si sta prendendo una bronchite a Wembley solo per vederli.


***



Louis pensava che mettere il primo piede in quel campo sarebbe stato più facile, per non parlare del secondo.
Certo che  un po’ di emozione iniziale era accettabile, ma sarebbe andato tutto liscio, tutto tranquillo.
Invece sente il nervosismo impadronirsi del suo corpo e delle sue gambe appena calpesta l’erba verde e poco uniforme del rettangolo di gioco dove si allena la nazionale bosniaca, proprio come quando per la prima volta, sceso da una macchina francese ultimo modello, aveva messo piede a Sarajevo.
Se lo ricorda bene quel momento, quando lui non voleva scendere dal veicolo e sua mamma con la forza lo aveva trascinato per un braccio, in lacrime, e lo aveva fatto camminare per quelle strade acciottolate in cui tutti parlavano una lingua che lui era abituato a sentire solo qualche volta a casa, in Francia, e che gli sembrava veramente troppo dura e fredda per potergli piacere.
Quando guardava la gente con un misto di diffidenza e curiosità, e la gente ricambiava senza troppi complimenti, con un velo triste che gli copriva gli occhi, mentre sbrigava gli affari propri.
Quando si erano chiusi alle spalle il cancello della casa dei nonni, e prima che nonna Lejla, una sconosciuta, aprisse la porta con un sorriso radioso, aveva fatto in tempo a scorgere un grosso buco da proiettile proprio nel muretto che circondava il giardino, e poi non aveva più spiccicato parola per tutto il giorno.
Come osava sentirsi fuori posto, se era solo per quel senso di orgoglio e di affetto per quella maglia, per quella terra, che si era spinto a rifiutare la convocazione della nazionale francese in attesa di quella della Bosnia, il cui sangue gli scorreva nelle vene?
Che aveva tanto atteso, anche quando aveva vinto la Premier con il Manchester, e poi anche la Champions League, e Niall gli diceva che era ridicolo, che un giocatore del suo calibro avrebbe dovuto giocare con una nazionale che gli avrebbe permesso di andare ai mondiali, lui che poteva, che poteva scegliere la Francia, dove era nato e cresciuto, ed invece stava alle speranze di una nazionale che era nata dopo di lui, che non aveva mai partecipato a nessuna competizione importante e che, in fin dei conti, neanche lo voleva.
Ma lui voleva essere il trascinatore di quella nazionale, del paese dei suoi genitori e di tutta la sua famiglia, anche se la sua certezza un po’ barcolla mentre raggiunge il gruppo dei suoi compagni che fanno stretching sotto il sole e lo guardano arrivare con dei sorrisi tirati. O almeno così a lui sembrano.
«Dobrodošli!»
Harry gli si avvicina con gli occhi socchiusi per via del sole ed i capelli abbastanza in disordine perché Edin l’ha rincorso per tutto il campo dopo che Harry gli ha calciato una pallonata in faccia. Gli si avvicina con un braccio teso, e poi invece di stringergli la mano lo abbraccia forte, e Louis è un po’ sorpreso ma sente che i suoi muscoli si stanno finalmente rilassando sotto quell’abbraccio caldo, e Harry gli dice in inglese che è proprio contento che lui sia lì, e che con il suo aiuto magari almeno qualche goal alla Lituania quest’anno riusciranno a farlo.
Tra i ragazzi ci sono bosniaci, serbi e croati, e Louis pensa com’è facile certe volte per il calcio mescolare cose immiscibili, e li guarda affascinato e un po’ geloso parlare e scherzare, e ogni tanto sente lo sguardo di qualcuno sulla sua nuca, e non può dirlo, ma ci scommette che è lo stesso sguardo diffidente che la gente gli riservava  la prima volta a Sarajevo.
E Louis lo sa che non è proprio uno di loro, che i suoi sono andati via prima che la guerra iniziasse, che anche dopo essere tornato era andato subito via di nuovo, quando degli osservatori del Manchester avevano detto che forse qualcosa di buono da quel ragazzo mingherlino e un po’ troppo basso si poteva ricavare, ma va bene così, lui non è venuto a pretendere niente, vuole solo giocare per quella gente, per la Bosnia.
Quando è nello spogliatoio per cambiarsi Harry gli si avvicina di nuovo.
«Perché non hai aperto bocca durante l’allenamento? Sergej pensava neanche  parlassi slavo»
«Lo conosco.» il suo accento è strano e fa ridacchiare Harry per il tentativo.
«Ma non lo parlo mai.» aggiunge a bassa voce, un po’ in imbarazzo.
Harry piega la bocca in un sorriso e lo scruta con attenzione.
Quasi tutti i suoi compagni di squadra sono cresciuti mentre nel paese c’era la guerra e da bambini hanno vissuto cose incredibili, quando le colline attorno a Sarajevo erano assediate, e da un momento all’altro sapevano che potevano trovarsi un buco nel muro della cameretta ma non potevano dire con la stessa certezza se i genitori sarebbero tornati dal lavoro.
I suoi invece erano partiti, anche senza niente, perché non si sa mai quello che può succedere. Era stato fortunato. Ma per questo non poteva nemmeno capire, non passava giorno che qualcuno non glielo ricordasse. Anche se si sforzava di farlo, quando si allenavano nel campo da cui si scorgevano i palazzi ignorati e quelli frettolosamente rimessi a nuovo, e gli veniva il mal di testa a furia di contare i buchi nei muri e a seguire i residui di filo spinato attorno al campo, ed Harry lo guardava pensieroso.
Louis non lo sa cos’era prima quel campo, e non è nemmeno tanto sicuro di volerlo scoprire.
Harry quella sera lo porta in un posto a bere, sul piccolo palco vicino al bancone suona un quartetto folk e quella lingua tanto difficile, musicata così, già a Louis piace un po’ di più.
«Lo sai cosa c’era qui prima di questo pub? Un rifugio.» gli comunica Harry con un sorriso, e Louis è sconvolto.
«Non pensi sia quasi romantico, trasformare le atmosfere brutte in qualcosa di piacevole? Un posto dove la gente era impaurita e spaventata in un posto dove si balla spensierati?»
Una volta Harry lo porta in giro per la città e gli fa mangiare la baklva più buona di tutta Sarajevo.
Harry gli dice che non deve sentirsi in colpa se hanno perso con la Slovacchia, perché da quando è arrivato le cose vanno meglio, e non è giusto essere così frustrati.
Harry gli dice anche che se lui ha scelto quella maglia allora la merita, e nessuno può dirgli il contrario, anzi, dovrebbero soltanto ringraziare qualcuno di molto potente in cielo se Louis ha deciso di giocare per il loro Paese.
Harry gli dice anche che forse è meglio se la smette di leggere i giornali.
Mentre camminano gli mostra una chiazza rossa piuttosto casuale sul pavimento nella piazza tra la cattedrale e la moschea, una delle tante rose di Sarajevo.
«Riempivano i buchi delle granate di resina rossa» Harry lo prende per mano e lo fa inginocchiare a terra con lui.
Louis si chiede se una statua o un monumento non sarebbero stati più appropriati. Più rispettosi.
«Il mondo è pieno di statue ai caduti. Ma questa. Quando ogni giorno cammini sul terreno martoriato della guerra e non ci pensi, e poi invece ne vedi una e ti senti il cuore come pugnalato.»
Quando tornano dalla Lituania, sul pullman che dall’aeroporto li porterà in albergo a Sarajevo  c’è un’atmosfera di esaltazione un po’ brilla. Stanno percorrendo la via dei cecchini, costeggiata da palazzi da cui si sparava anche ai civili. In quel momento nessuno ci fa caso, tranne Louis.
Harry lo guarda pensieroso,  scivola nel posto accanto al suo e lo spinge un po’ contro il vetro del finestrino, poi lo bacia sorridendo.
Alla fine proprio quando contava hanno vinto, per 1-0, e Louis è felice, e ha anche segnato.
In aeroporto tutti cantavano per lui, e non contro di lui. A nessuno importa più da dove viene, sono felici anche loro e forse gli vogliono persino bene.
Ci sono riusciti, andranno ai mondiali per la prima volta.
La gente è scesa tutta in piazza a festeggiare, una gioia dopo tanta sofferenza.
Dalla stanza dell’albergo Louis li sente chiamare ancora il suo nome e sorride ad Harry, che chiama il suo nome anche lui, mentre lo bacia e fa correre le sue dita sul suo corpo.

  
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