Crossover
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Autore: Registe    08/06/2014    3 recensioni
Terza storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
"L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
-“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.-"
[dal primo capitolo].
E mentre nella Galassia divampa la guerra, qualcun altro dovra' fare i conti con il passato e affrontare i propri demoni interiori...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 15 - In nome del padre





Hyunkel


La creatura è completa. Mancano solo alcuni innesti secondari, ma il lavoro si può dire terminato.
Se tutto va bene, tra tre giorni aprirà gli occhi.
Guardami dal Regno di Anubi, Seymour, e schiatta d’invidia! Adesso chi è il più grande alchimista del mondo?
Dai diari di Aknadin, Grande Sacerdote sotto il regno del Faraone Atem, ottavo del suo nome.




Erano due ore che non si muoveva. Stava lì, immobile, appoggiato alla balaustra del Baan Palace, con lo sguardo spento e fisso verso un punto imprecisato dell’orizzonte.
Hadler si strinse nel mantello e sospirò.
Quelli erano gli ultimi raggi del tramonto, e la temperatura si era abbassata. Ma Hyunkel non sembrava accorgersene, fermo dov’era con le braccia incrociate, esposto al vento freddo senza nemmeno l’armatura indosso. In una mano stringeva la stella di carta.
Si era chiuso nel suo mutismo da quando erano tornati dalla battaglia: Hadler si era fatto carico di riportare al Grande Satana della sconfitta, risparmiando al suo compagno la seconda umiliazione della giornata. Quando era rientrato nelle vasche di guarigione i demoni gli avevano raccontato che era uscito senza proferire parola e lo aveva ritrovato lì, su una delle balconate meno utilizzate del Baan Palace, lontano dagli occhi di tutti. Il demone si avvicinò, ma non sapeva cosa dire. Le parole non erano mai state il suo forte. Certo, avrebbe potuto dirgli che Bartosh era stato un guerriero esemplare, che era caduto per la causa del Grande Satana e che questo era il massimo dell’onore, ma … sapeva che quelle parole sarebbero cadute nel vuoto di quello sguardo fisso, spento.
“Aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione …”
La voce dell’amico era ridotta ad un soffio. Camminò accanto a lui, osservando il vento che scompigliava le ciocche di capelli azzurri, nascondendogli gli occhi.
“Lui aveva capito che si trattava di una trappola. Mi aveva chiesto di non farmi coinvolgere in un duello, che gli umani erano privi di onore … e io sono stato così stupido da non ascoltarlo”.
“Adesso non pensare che …”
“Lo penso. Sai quali sono state le ultime parole che gli ho detto?” disse, mentre la mano libera piantava le unghie nel marmo fino a sanguinare. “Gli ho detto che non era lui il comandante del Fushikidan”.
Cadde nel suo silenzio. Abbassò la testa, facendola quasi sparire tra le spalle robuste.
Hadler lo osservò, poi rivolse gli occhi altrove per non umiliare ancora il suo dolore. Avevano subito fin troppe perdite: i soldati che avevano portato su Coruscant rappresentavano oltre la metà della potenza bellica del Fushikidan, e Bartosh aveva scelto per quella battaglia solo i migliori soldati delle sue legioni. Il giovane umano stava elaborando il suo lutto, ma Hadler era il comandante di tutti i corpi d’armata, ed a lui spettava elaborare i danni: l’armata non-morta era tornata con meno di mille creature, stanca, debole, umiliata. E priva di un capo.
Non era un mistero che quelle creature riconoscessero in Bartosh, e solo in Bartosh, la loro guida. Rispettavano Hyunkel, ma era l’enorme scheletro dalle sei braccia quello che li univa, li spronava, li supportava con la sua voce gracchiante e l’intuito che lo aveva reso uno dei più grandi strateghi del loro mondo. Combattevano per la magia del Grande Satana, non per il Grande Satana. Una distinzione che il vecchio guerriero gli aveva ripetuto più di una volta, e che adesso gli rimbombava nella mente.
Non potevano permettersi il lusso di non avere la non-morte al loro fianco. E Hyunkel doveva tenere salde le loro fila, soprattutto dopo la clamorosa sconfitta. Il Grande Satana aveva puntualizzato questo aspetto, ma il giovane demone non se la sentiva di parlarne con l’amico. O almeno, non in quel momento.
“Non sarei mai arrivato quassù se non fosse stato per lui. Anzi, credo proprio che non sarei arrivato da nessuna parte senza di lui …” sussurrò il ragazzo, rialzandosi in piedi. I suoi occhi adesso erano puntati sulla stella di carta dal nastro azzurro. “In fondo cos’ero? Un bambino umano di pochi mesi con dei genitori così vigliacchi ed egoisti da lasciarlo indietro quando la non-morte si era presentata alle porte del loro misero, sporco e sudicio villaggio! Un fagotto rimasto in una catapecchia, quando invece tutto l’oro, l’argento ed i viveri erano stati portati in salvo! Ecco cos’ero, Hadler. ECCO COS’ERO!”
L’urlo risuonò per tutta la balconata. Fu seguito da un’eco debole, che fece scivolare il suono della voce tra una torre e l’altra.
“È stato lui a trovarmi lì dentro. Avevo una febbre così alta che sarei morto lo stesso, gli sarebbe bastato chiamare il primo necromante della sua legione e mi avrebbe trasformato in un minuscolo scheletro. Ma non l’ha fatto. Era un non-morto, ma per me scelse la vita … Una vita vera, una vita fatta di carne e sangue, una vita come lui la ricordava. Mi ha dato tutto. Persino il suo posto. E guarda come l’ho ripagato!”
Portò la stella di carta al viso, guardando la decorazione con uno sguardo perso. La decorazione aveva una forma infantile, eppure le venature brune delle tante battaglie la rendevano gloriosa come una medaglia. Il demone la osservò, ricordando la premura del generale dalle sei braccia nel proteggere un oggetto così effimero; lo rivide dischiudere le mani, riportando alla luce il suo prezioso tesoro dalle fiamme del mago imperiale. Invece in quel momento era lì, tra le dita di Hyunkel, quasi fuori posto nelle mani del suo stesso creatore. “Sei stata creata per lui” mormorò il ragazzo mentre le dita la sollevavano per il nastro. “Non c’è motivo perché tu resti qui. Torna da mio padre …”
Sospirò un’ultima volta, poi lasciò la presa. Il vento freddo catturò la minuscola decorazione e la portò verso l’alto. Hadler la seguì con gli occhi, guardando la stella danzare tra le torri senza mai toccarle, trascinata dall’aria come in uno strano ballo composto di inchini, toccate e fughe. Scomparve nella sera alle loro spalle, diretta verso le stelle della volta celeste.
“In un solo giorno ho deluso mio padre, i miei soldati ed il mio signore. Non ho più il diritto di stare in questo posto, Hadler”.
“Fino a prova contraria sono IO a decidere chi ha il diritto a stare quassù, generale Hyunkel”. Si voltarono verso l’origine della voce, e l’attimo dopo piegarono il ginocchio.
Il Grande Satana era apparso all’ingresso della balconata, una figura dalle vesti color porpora che si stagliava nel buio del corridoio; le luci del tramonto creavano uno strano effetto sulla stoffa pesante, illuminandola come se fosse avvolta dalle fiamme. Il demone anziano camminò verso di loro, ed il giovane demone vide il suo compagno tremare. Aveva i pugni stretti, quasi conficcati nel pavimento di marmo.
“Rialzatevi” comandò il Grande Satana. Hadler obbedì, ma Hyunkel non si mosse.
Il demone trattenne istintivamente il respiro.
“Generale Hyunkel, non sono abituato a ripetere due volte lo stesso ordine”.
Ma il ragazzo si curvò ancora di più, premendo la fronte contro il pavimento. “Non ne sono degno, mio signore. Mi ordini di gettarmi sulla mia spada, e la libererò della presenza di un sporco umano come me”.
“Se avessi voluto punirti per i tuoi errori, Generale Hyunkel, non ti avrei nemmeno permesso di mettere piede su questo palazzo. Se sei in ginocchio per onore, rialzati. Se lo sei per vigliaccheria o per scappare dai tuoi errori, vattene immediatamente da qui e non incrociare mai più la mia persona”.
Hadler cosa avesse fatto di sbagliato negli ultimi quattrocento o cinquecento anni per trovarsi in quella scomoda situazione. Lo sguardo del suo signore era granitico, immobile ed antico come quello delle statue dei demoni maggiori del passato, ed i suoi occhi scuri non tradivano altro che una profonda severità. I secondi di attesa trascorsero insieme ai battiti dei loro cuori. Gli ultimi raggi del sole svanirono dietro ai monti, sparendo con le lunghe ombre dei colli e gettando su tutto il castello fluttuante un manto scuro, illuminato solo dalle candele, dalle stelle e dal riflesso del marmo bianco. Fu in quel momento che Hyunkel si sollevò. Rimase immobile, in piedi davanti al Grande Satana, ma i suoi occhi non abbandonarono il pavimento.
“Molto bene, Generale Hyunkel” disse l’altro. Nessuna espressione solcava il suo viso. “Desidero conoscere le cause della disfatta del Fushikidan; molti giovani, valorosi e promettenti demoni sono caduti in questa battaglia, ed è mio preciso dovere spiegare ai loro cari perché non sono tornati vivi e carichi di gloria, mentre giacciono su un pianeta umano senza alcuna sepoltura”.
Hadler aveva fatto rapporto al suo signore un’ora prima. Al demone maggiore non interessava affatto un altro resoconto della battaglia; aveva fatto di tutto per evitare al suo amico quell’umiliazione, ma evidentemente il sovrano era di diversa idea. Il comandante dei non-morti respirò a fondo, poi rispose. “Ho peccato di presunzione, Grande Satana. Sono stato incosciente, ed ho agito per leggerezza. Sono stato messo in guardia dai pericoli degli umani da un soldato più esperto e valoroso di me, ma non ho ascoltato le sue parole. Sono stato superbo ed arrogante, proprio come il viscido umano che sono! Quando dovevo essere saldo, la mia natura inferiore è venuta meno. Questa è la mia colpa”.
“Invero, la tua natura è difettosa. Ma non è stata quella a condurti alla disfatta”.
Il demone anziano si mosse. Con un unico, fluido passo superò la distanza tra lui e Hyunkel. Il giovane non si mosse, continuando a fissare il pavimento; i suoi occhi erano nascosti sotto la coltre di capelli azzurri, e non si levarono nemmeno all’arrivo del sovrano. Una folata di vento scompigliò la barba bianca del Grande Satana. “Se cerchi qualcosa da accusare, accusa la tua giovinezza”.
“Ma io avrei dovuto …”
“Certo. Avresti dovuto. Ma non l’hai fatto. Credi che non conosca la fame di gloria? Il desiderio della giovinezza, la forza e la spregiudicatezza? La superbia di credersi migliori di tutti quei vecchi noiosi che ci impartiscono lezioni tirando fuori storie sull’esperienza, sulla pazienza, sulla tenacia? Il vento nei capelli, la magia nel petto, il corpo ed il sangue in fiamme? Li conosco molto bene, Generale Hyunkel. Molto più di quanto tu possa immaginare …”
Il suo sguardo abbandonò l’umano e si estese verso l’orizzonte. “Ma è dalla giovinezza che traiamo la forza. È dall’iniziativa, dall’intuizione, dal coraggio che prendiamo la spinta per andare avanti. I vecchi come me e Zaboera esistono per incanalarvi, consigliarvi, e soprattutto per evitare che voi giovani vi facciate troppo male. Se all’epoca avessi ascoltato il mio Grande Satana mi sarei evitato un livido o due …” disse quasi con un sorriso, portandosi la mano alla guancia sinistra. Per un attimo ad Hadler sembrò di intravedere qualcosa, cinque sottili segni rossi lungo la pelle chiara. “Ma non me ne pento. Tornando indietro commetterei lo stesso errore. Perché è sugli errori che si impara: non su quelli degli altri, quelli degli anziani che per noi sono solo racconti intorno al fuoco. Si impara sui propri errori, sulla propria pelle. E sul proprio dolore. Se imparerai qualcosa dalla tua sconfitta, giovane Hyunkel, allora diventerai davvero il grande guerriero che Bartosh sognava. Il grande guerriero in cui io ho creduto, facendoti entrare nella mia corte insultando l’onore di tutti gli altri demoni”.
Hadler vide la mano del suo amico sollevarsi velocemente e cancellare una lacrima. Cercò di farlo mentre il demone maggiore aveva lo sguardo fisso lungo l’orizzonte, ma non bastò ad ingannarlo. “Non sono qui per vederti piangere, generale Hyunkel. Sono qui perché voglio sapere chi ho di fronte. Non posso scendere in guerra senza sapere chi combatterà al mio fianco”.
Il ragazzo si voltò. Per la seconda volta cadde in ginocchio, ma lo fece in modo preciso, severo, senza alcuna esitazione. “Il Fushikidan combatterà per lei, Grande Satana. Se lei lo vorrà, lo guiderò di persona in capo al mondo. Non posso lasciare i miei soldati senza vendetta!”
“Ed io una vendetta vi concederò”.
Portò una mano al di sotto della tunica, e ne estrasse un oggetto che brillava di luce propria, quasi come fosse un minuscolo sole; il demone minore si coprì gli occhi per qualche istante, e quando li riaprì vide una scatolina dorata nel palmo della mano del suo signore. Il demone anziano la aprì tamburellando le dita sul coperchio, e quello si aprì di scatto senza fare alcun rumore: piccoli frammenti d’oro fecero capolino, e quando allungò il collo per vederli meglio quelli si sollevarono dalla scatola e danzarono in aria guidati dalla magia del Grande Satana.
Solo quando gli scintillarono davanti agli occhi li riconobbe: erano i frammenti di un puzzle. Il puzzle d’oro che avevano sequestrato ai Membri dell’Organizzazione non troppo tempo prima; non li aveva mai osservati così da vicino, ma la loro presenza faceva vibrare ogni fibra del suo corpo, quasi come qualche strumento musicale che cercasse con violenza delle corde con cui sprigionare la propria musica. Il suo amico osservava i pezzi che galleggiavano in aria, illuminando il volto del demone maggiore, con uno sguardo pieno di stupore.
“Gli umani lo hanno chiamato Puzzle Millenario. All’epoca interrogai i Membri dell’Organizzazione, ma non avevano alcuna idea del potere di questo artefatto. Sono stato anche io molto perplesso sull’argomento fino a qualche giorno fa, quando ho capito una cosa importante. Completarlo vorrebbe dire liberare qualcosa. Qualcosa di strano, di magico, di cui non so assolutamente nulla, né posso dire che sia buono o malvagio, favorevole alla famiglia demoniaca o alleato della razza umana. Ma il suo potere … è grande. Non sono in grado di fare una stima, ma potrebbe essere anche superiore al mio. Capite bene che non è un oggetto che posso far manovrare con leggerezza agli esponenti della mia corte”. Guardò l’umano, e quello respirò a fondo, ipnotizzato dalle rigorose figure geometriche che scivolavano proprio davanti a lui.
Più potente del Grande Satana?
“Lo spirito che dorme in questo puzzle può portare la famiglia demoniaca alla vittoria come alla sconfitta; e io voglio la vittoria. Sarai tu a portarmela, generale Hyunkel?”
Il suo amico sollevò la testa. Se vi erano delle lacrime doveva averle sepolte dentro di sé, perché quando guardò il sovrano erano fermi come prima della battaglia di Coruscant; tese la mano verso i frammenti del puzzle, e quelli tornarono nella scatola d’oro. “Lei mi dia la sua benedizione e la mia vendetta. Io le porterò la vittoria, e le giuro sulla memoria di mio padre che non fallirò di nuovo”.
“Non giurare cose vane” lo rimproverò il demone maggiore. “Fallirai, generale Hyunkel. Fallirai perché sei un umano, fallirai perché sei giovane, fallirai perché non sei perfetto. Ma posso tollerare i fallimenti. La debolezza. Persino l’incompetenza. Ci sono solo due cose che non perdono, tienilo bene a mente: la slealtà e la menzogna”. Lo disse in tono severo, ed anche Hadler chinò il capo. Sapeva quando il suo sovrano voleva impartire una lezione. “Fallisci quanto vuoi, generale Hyunkel. Ma non mentirmi mai”.
“Io … non lo farò mai! Mai, sul mio onore!”
“Bartosh ti ha cresciuto bene. Sono onorato di averlo avuto come soldato” rispose il Grande Satana, ma un suo cenno del capo indicò che la conversazione era terminata. Hadler si scansò, liberando il passaggio per il suo sovrano, che attraversò la balconata con lo stesso passo autoritario e silenzioso come quando era venuto. Gli chiese di presentarsi nel salone Kisshu entro un’ora, ma il comandante non fece in tempo a rispondergli che la figura maestosa era già svanita, scivolata tra le ombre senza la minima traccia di incantesimo. Hadler guardò il punto dove era svanito, poi i suoi occhi tornarono su Hyunkel. Il suo viso brillava di un inconfondibile miscuglio di dedizione e coraggio. Qualunque pensiero stesse attraversando la sua mente, era molto importante per lui. Aveva fatto una promessa, ed era disposto a rischiare tutto per portarla a termine. Una simile passione riaccese di cuori di Hadler, che fissò con tanta attenzione il suo amico con la preziosa scatola che non si accorse della mano che stringeva la sua spalla. “Temevo che non saresti tornato. È dunque un segno della tua vittoria?”
Si voltò, e tra le ombre il diadema che incorniciava l’occhio del Cavaliere del Drago risplendeva come se fosse attraversato dalle fiamme. “Gli unici segni che ho portato, amico mio, sono un esercito di lividi ed una collezione di cicatrici. La tua adorata avversaria aveva deciso che voleva combattere contro il Cavaliere del Drago … e non le ho fornito nemmeno un po’ dell’intrattenimento che desiderava. Tu non eri al fronte?”
“Sì, ma il Grande Satana mi ha convocato di persona, e la battaglia volge ad una tregua momentanea. Pensavo di andare direttamente al salone delle udienze, ma ho preferito fare una piccola deviazione”. Passò una mano sotto il mantello scuro, e quando la mano ne riemerse il demone non poté fare a meno di trattenere il fiato. Anche nella semioscurità la stella di carta di Bartosh riusciva a gettare una luce diversa. La luce di una non-vita. “Stavo volando verso il Baan Palace quando me la sono ritrovata davanti, trascinata dal vento. Quindi sono venuto per riportartela” disse, porgendo l’oggetto a Hyunkel.
“Ti ringrazio, Baran. Ma questa apparteneva a mio padre. Il suo posto è con lui”.
“Apparteneva a tuo padre? Un motivo in più per tenerla” rispose il drago, fissandolo con quello sguardo severo che riusciva ad incenerire anche gli amici. Eppure in quel momento ad Hadler sembrò di sentire qualcosa, una lieve incrinatura nel tono di quella voce che faceva tremare da sola il cielo e la terra. “Sono cose che a un padre … fanno piacere”.
Nessuno dei due riuscì a rispondere qualcosa di sensato, perché l’attimo dopo Baran aveva dato loro le spalle, diretto all’uscita. Hadler lo osservò di nuovo, poi aspettò con calma la decisione dei giovane umano. Quello strinse la stella, la baciò e si strinse il nastro azzurro intorno al collo.

Registe: “Narratore, smettila di agitarti come una fangirl! E no, anche se sei incorporeo ti vietiamo di agitarti lo stesso!”
Narratore: “Mi sto solo riscaldando, mie Registe! Mi sto calando nella parte, sto studiando le movenze, i gesti, lo sguardo, sto preparando il mio spirito di pura voce ad entrare nel corpo che gli è stato predestinato dalla notte dei tempi, l’invincibile an …”
Registe: “… ma perché non ripassi la strada che porta al primo secchio dell’immondizia? Una volta lì è facile, devi solo entrarci dentro ed aspettare che passino i netturbini a portarti nel luogo che ti spetta!”
Narratore: “Registe ingrate e senza cuore … vi divertite davvero così tanto ad infrangere il cuore del vostro leale Narratore con i vostri stivali chiodati?”
Registe: “Gli stivali chiodati? Ma che idiozie stai dicendo?... come minimo con una schiacciasassi! Adesso fila a narrare o ti scordi qualunque apparizione nei prossimi capitoli!”


L’umano tremava.
Piccolo, pallido, con gli occhi sgranati dal terrore che andavano prima su Baran, poi sul Grande Satana, poi su di lui e poi di nuovo su Baran. Stava accucciato sul pavimento, più simile ad un cucciolo ferito che al viceammiraglio che diceva di essere; non vi era nemmeno bisogno di legarlo. Da quello che sapeva, quella patetica imitazione di un essere vivente era a capo di una delle astronavi nemiche che si era fermata per fare rifornimento lungo la riva meridionale del fiume Riin: le armature incantate del Maegudan, spinte dalla volontà del Grande Satana in persona, stavano pattugliando quell’area e avevano intercettato la nave mentre era ancora a terra, impedendole di ripartire. Quell’umano aveva implorato per la propria vita, ed il suo signore aveva deciso di prestargli ascolto.
Il demone minore sbuffò. Se fosse stato catturato, i suoi nemici avrebbero sentito solo le sue urla sotto tortura. Ma non si sarebbe abbassato a supplicare. Mai.
“Non sono il tipo da torturare i miei nemici, specie se sono creature insignificanti come te, viceammiraglio Kratas” disse il Grande Satana, palesemente scocciato dallo spettacolo indignitoso. “Né ho intenzione di dedicare a te il tempo prezioso che spetta alla famiglia demoniaca. Sono certo che tu non desideri farmi perdere tempo, giusto?”
“M-mai, Grande Satana. Ma la prego, la supplico, la imploro, NON MI DIA IN PASTO AI DRAGHI!” squittì il soldato, strisciando per terra fino a toccare il pavimento con la fronte. “LE DIRO TUTTO, ASSOLUTAMENTE TUTTO, MA NON MI UCCIDA, ABBIA PIETA, MI FACCIA TORNARE A CASA!”
Tra quanti secondi Baran lo incenerisce con lo sguardo?
Il Grande Satana tamburellò le dita sul trono, facendo molta attenzione che il ticchettio risuonasse proprio nella pausa di silenzio che si era creata dopo le grida del soldato. Un giovane attendente entrò con un bicchiere di limonata demoniaca, ed il sovrano la sorseggiò lentamente, lasciando che il silenzio ed il rumore del vento parlassero per lui più di mille parole. L’umano non si mosse, a parte lievi tremiti che scuotevano tutto il corpo e disonoravano la stessa divisa che indossava.
“Di norma non tollero i traditori. Sono esseri della peggior specie, creature che si macchiano del peccato più spregevole. Questo lo sai, vero, viceammiraglio Kratas?”
La testa dell’umano sprofondò sotto le spalle. Stava per squittire una seconda volta, ma il Grande Stana lo zittì sollevando il mignolo.
“Ma …” mormorò, scambiando con lui e con Baran uno sguardo eloquente. “Non posso restare a guardare mentre i miei eserciti combattono e muoiono per me e per la libertà di Mistobaan. E sono anche convinto che basterebbero alcuni … come dire … suggerimenti da parte tua per ammorbidire il mio giudizio nei tuoi confronti. A differenza del vostro tanto osannato Imperatore Palpatine, so anche quando essere magnanimo. E non ti chiederò di consegnarmi i tuoi superiori o di colpire alle spalle nessuno dei tuoi vecchi compagni. Sono certo che un paio di informazioni su come funziona il tuo Impero siano più che sufficienti, non trovi?”
Mi chiedo perché il Grande Satana si preoccupi tanto anche di lasciare un po’ di onore a questi vermi … se dipendesse da me … sospirò, ma interruppe il pensiero. Il discorso di poche ore fa sulla terrazza era ancora fresco nella sua mente. Aveva agito in modo fin troppo sconsiderato nella battaglia, ma quello non era il suo campo di scontri. Se il suo signore l’aveva convocato lì era per ascoltare. E imparare. Rivestiva un ruolo troppo delicato per affrontare certe scelte con leggerezza.
“M-m-ma lei davvero …?”
“Ti do la mia parola che ti risparmierò la vita in cambio della tua collaborazione. O la mia parola non è sufficiente, umano?”
Hadler vide che anche il Cavaliere del Drago traboccava di sdegno al sentire la sacra parola del signore della famiglia demoniaca legarsi ad un umano. Con la differenza che Baran non fulminò con lo sguardo solo il vile viceammiraglio, ma anche il suo stesso sovrano. “So che disapprovi, Baran, e che speravi di portare questo umano ai tuoi cuccioli per pranzo. Ma posso sopravvivere con la disapprovazione del Cavaliere del Drago. Non sarebbe nemmeno la prima volta, in fondo …” disse, con la voce ridotta ad un sussurro. “Non possiamo permetterci una seconda sconfitta”.
“I miei draghi non mangiano vermi” borbottò Baran, ed istintivamente l’umano di nome Kratas si allontanò da lui camminando carponi come un coniglio. Strisciò fino ai piedi della scala che conduceva al trono, toccando i gradini con la fronte.
“Munifico signore, potente Grande Satana, io la ringrazio di cuore! Chieda e sarò il suo umile servitore, farò tutto quello che lei dice, la sua parola sarà …”
“Non sei un mio servitore. Sei un mio prigioniero. E fai bene attenzione a ricordare la differenza. Adesso direi di iniziare la chiacchierata” rispose in modo altero, mentre il Cavaliere del Drago venne congedato con un cenno del capo. “Direi di partire dalle vostre risorse …”

Dall’alto della collina Axel poteva rivolgere lo sguardo per miglia e miglia, senza che nulla ostacolasse la vista. Erano le ultime luci dell’ennesimo giorno privo di senso, segnato solo dalla stanchezza, dalla paura e dalla fame. A ovest le sagome triangolari delle navi misteriose si erano ridotte a dei puntini, ma gli bastava vederle per ricadere nella sensazione d’angoscia che ancora gli stringeva le spalle.
Dopo un’ora di vagabondaggio si era ritrovato sull’orlo di un colle roccioso e stretto che scendeva a picco su un lago. La vista dell’acqua lo innervosiva, ma si sedette lo stesso su un masso asciugandosi il sudore con una mano ed osservando il paesaggio devastato. Sotto il sentiero appena percorso i flussi di un ruscello ricordavano il mormorio di persone vive, e alcuni piccoli uccelli grigi volteggiavano e cinguettavano sopra la superficie verdastra dello specchio d’acqua. Ascoltò il brontolio del proprio stomaco e rimpianse di non avere un arco con sé. O una fionda. Prese un sasso sotto la sua mano e lo lanciò verso gli uccelli, disposto anche a buttarsi in acqua pur di recuperarne uno; il suo tentativo si trasformò in un tonfo, uno schizzo e nient’altro che l’ennesima pietra sul fondo di quel lago senza nome. Sospirò.
Erano quasi cinque giorni che non mangiava altro che radici ed erbe. Per Marluxia era tutto normale, lui era un’elementale dei fiori e trovava gustoso qualunque tipo di vegetale, ma lui no: sarebbe stato persino disposto a non bestemmiare per una settimana pur di affondare i denti in un pezzo di pane secco o nella zampa di un cerbiatto rachitico, e sapeva che anche Larxen era della stessa idea. La ragazza nascondeva la sua insoddisfazione pur di non sembrare debole, ma Axel sapeva che anche le sue apparentemente infinite energie stavano per raggiungere il limite.
Il villaggio di Donau non era stato l’unico ad essere distrutto dai raggi multicolori delle strane navi di metallo: Essan, Khalir, Myre erano svaniti nello stesso modo, trasformati in case carbonizzate da cui esalavano soltanto fili di fumo grigio e nero. Così come le campagne tra l’uno e l’altro. Si erano illusi di trovare qualcosa tra le rovine di quei piccoli paesi, ma oltre ai mattoni e a qualche armatura arrugginita non era rimasto nulla, nessun gioiello da predare, nessun animale da rosicchiare; le vigne di Khalir erano scomparse, e non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di sconforto che aveva attraversato persino l’altero viso di Marluxia mentre attraversavano quel terreno ormai completamente nero dove i filari verdi e rosati erano ormai solo un ricordo, i capelli coperti di cenere.
Si rialzò e riprese a camminare, con il primo freddo della sera che si faceva sempre più oppressivo. A mano a mano che il sole scendeva dietro il profilo delle montagne, il vento proveniente da nord aumentava fino a farlo rabbrividire. Si strinse nella tunica nera. Lontano all’orizzonte cominciarono ad accumularsi le nuvole, scure e minacciose. Ci sarebbe stata una tempesta prima dell’alba. Doveva riunirsi ai suoi compagni e trovare un posto dove ripararsi.
Scese dalla collina fino ad un sentiero coperto solo da arbusti contorti e senza foglie, e lì accelerò l’andatura. La nebbia si raccoglieva sul terreno morto, e l’aria si stava facendo sempre più fredda. C’era poca luce e faticava a capire da dove provenisse. Un fruscio si alzò alla sua sinistra, proprio dove i rami spinosi di una pianta grigia creavano una fitta barriera. Si sforzò di respirare più lentamente, poi si mise in posizione con i chackram in pugno; il rumore poteva appartenere a qualcosa di media taglia e, al diavolo il freddo ed il buio, non si sarebbe fatto sfuggire una preda di quel genere.
Una figura uscì dalla vegetazione secca, avvolta in un cencio marrone che aveva visto anni peggiori. Negli ultimi raggi del giorno Axel vide due grandi occhi castani incorniciati da ciuffi di capelli sporchi e raggrumati color sabbia. La ragazzina –non doveva avere più di tredici anni- era piccola e curva, e non appena vide le sue armi lo fissò impietrita, senza correre o gridare. Stringeva convulsamente al petto un rotolo di carta grande quasi come il suo braccio sottile. Axel abbassò le armi e sospirò, rinunciando a tutti i buoni propositi per la cena.
“Questo non è un posto per ragazzine. Specie a quest’ora. Torna a casa”.
Lei lo fissò ancora, gli occhi puntati sui suoi capelli. Axel si trattenne per non bestemmiare sulle stupide credenze del suo mondo. “Sì, sono roscio, va bene? Ma non sono un figlio del demonio. Ora gira i tacchi e torna a casa, che potresti trovare in giro gente peggiore di me!”
“Non … non sei una persona cattiva?” chiese lei, appoggiando la schiena contro un albero mentre gettava occhiate terrorizzate da tutte le parti. La sua voce era piccola, ridotta ad un sussurro.
“Non con le ragazzine come te, mettiamola così … O comunque meno cattivo di tante altre persone che circolano in questo bosco” rispose con un sorrisetto, pensando ai suoi due compagni di viaggio che lo attendevano oltre la collina. “Non ho alcuna intenzione di perdere tempo con te, quindi ti conviene approfittare della luce del giorno e tornare sui tuoi passi. Qualunque cosa tu stia facendo qui dentro a quest’ora non vale la tua vita, te lo assicuro!”
La ragazzina sgranò gli occhi, poi chinò il capo ed allungò un braccio verso di lui, con il palmo aperto. “P-per favore … sono due giorni che non mangio, la mamma è morta con la pioggia di fuoco … puoi farmi la c-carità, per favore … in nome degli dei splendenti …”
Axel girò gli occhi al cielo. Non credeva che sarebbe mai giunto il momento in cui qualcuno avrebbe chiesto la carità a lui, il ladro più straccione sulla faccia del mondo, uno che aveva passato i primi anni della sua vita chiedendo l’elemosina e rubando senza vergogna. “Gli dei non ti aiuteranno. Non l’hanno fatto con me, non credo che lo faranno con qualcun altro. E poi nemmeno io ho qualcosa da mangiare, quindi …”
“Ma i sacerdoti dicono che pregando in nome degli dei il cuore degli uomini si scioglie …”
“Beh, con me si dovranno impegnare parecchio. Ora non farmelo ripetere, gira i tacchi e tornatene a casa, dai sacerdoti, da chi ti pare ma lasciami in pace!”
Lo stomaco gli brontolò di nuovo. Si strinse nelle spalle, sentendo il vento freddo che aumentava. Tirò il cappuccio fin sopra gli occhi, e si stava riavviando quando la piccola voce riprese, quasi più flebile di prima.
“A-aspetta, per favore …”
Si voltò, preparando la più sonora bestemmia pur di scacciare quella ragazzina, ma le parole gli morirono sulla punta della lingua. La bambina aveva appoggiato per terra il suo prezioso rotolo di carta e si era levata il mantello lacero nonostante il freddo; non lo guardava neppure, gli occhi fissi sulla punta dei propri piedi, ma le mani si mossero in un attimo lungo i lacci rosa che stringevano il suo vestitino grigio e quello cadde a terra, rivelando il suo corpo nudo e tremante. Non solo per il freddo. “S-se ti va puoi fare qualcosa c-con me … ti prego, anche solo per tre monete di rame …”
Axel scrutò quel corpo piccolo, dalle forme ancora abbozzate. Il cielo sapeva quanti giorni erano che non andava con una donna, e quanti altri ne sarebbero ancora passati considerata la sua situazione. Si avvicinò a lei, cercando di guardarla in faccia, ma i capelli color sabbia le ricadevano sul viso piegato impedendogli di incrociare lo sguardo. “Tre monete di rame? Ma fammi il piacere …”
Raccolse il vestito e glielo rimise indosso, evitando anche solo di sfiorarle la pelle chiara. Lei non oppose nessuna resistenza, ma un lacrima scivolò sulle sue guance e rotolò sul suo guanto nero. “Torna quando ti saranno cresciute un po’ le tette, signorina! E non farti più venire in mente idee simili almeno per i prossimi quattro anni, che di pezzi di merda che si divertono con le ragazzine ce ne sono più di quanto immagini!”
“Ma io ho fame …” mormorò lei, ed in quell’attimo esplose in un pianto dirotto. Sollevò la testa, ed Axel vide i grandi occhi color nocciola arrossarsi e velarsi di una fontana di lacrime. Li conosceva fin troppo bene quegli occhi.
Aveva perso il conto di quante volte li aveva visti, quando guardava il suo riflesso nelle pozzanghere del villaggio chiedendosi quanti giorni gli sarebbero rimasti da vivere.
Sospirò, sapendo che si sarebbe pentito di quello che stava per fare. “Ho capito, prendi!”
Fece scivolare fuori dalla tunica il portamonete che teneva legato all’interno, dove vi era praticamente una buona parte dello sciacallaggio di quei giorni. Vi immerse le dita, e quando tra le tante monete di rame ne trovò una più grande, quella delle grandi occasioni, la prese in mano ed aprì il palmo proprio davanti al viso della bambina. Anche nella semioscurità lo scintillio dell’argento era perfettamente riconoscibile.
“Considerala come un acconto! Ci vediamo tra cinque anni e allora, se ne avrai voglia, mi farai fare un bel giretto gratis, d’accordo? Con tanto di preliminari, guarda che me lo ricordo!” le disse, chiudendo la moneta d’argento nelle dita minuscole, strizzandole l’occhio. “E ricorda: se proprio devi fare una cosa simile, non venderti a meno di cinquanta pezzi di rame. Sei una ragazza carina, guai a te se ti svendi per tre stupide monete, intesi?”
“I-io …”
“Guarda che ho l’occhio abituato, so quando una ragazza promette bene. Ora fila via prima che cambi idea. Cinque anni, intesi?”
“G-grazie, signore …” disse lei, con lo sguardo incredulo ancora fisso sul piccolo tesoro che stringeva in mano. Axel sapeva fin troppo bene quanto monete come quelle si vedessero poco nelle strade fangosi dei villaggi come quello in cui era nato. “Grazie di cuore. Allora non sei il figlio del demonio!”
“Ecco, dillo pure ai sacerdoti! Ora torna a casa!”
La ragazzina gli rivolse un ultimo, caldo, largo sorriso. Fece scivolare la preziosa moneta sotto i vestiti, strinse al petto la pergamena che portava con sé e sparì nel sottobosco devastato non senza aver lanciato un paio di lunghe occhiate nella sua direzione. Axel guardò nella sua direzione, chiedendosi se sarebbe riuscita a trovare la via di casa da sola, poi si strinse nelle spalle e si accorse che la fame non aveva mai smesso di abbandonare il suo stomaco. Imprecò tra i denti per il freddo e si inerpicò oltre la collina, sicuro di ritrovare il naso all’insù di Marluxia nella tipica espressione ehi-tu-plebeo-sei-in-ritardo. Ma non accelerò il passo. Bocciolo di Rosa poteva aspettare.
Il borsello sembrava molto più vuoto contro il suo petto. Lui ed i suoi compagni si erano ripromessi di tenere le sporadiche monete d’argento da parte, in attesa di qualche momento davvero proficuo per utilizzarle. Iniziò subito a pentirsi di aver dato uno dei loro tesori ad una mocciosetta che -in quel momento se ne era ricordato- non gli aveva detto nemmeno il suo nome; mise i piedi sempre più avanti, cercando di resistere alla tentazione di tornare indietro e riprendersi quella piccola fortuna.
La verità era che non poteva farci niente. Non poteva farci niente quando vedeva dei ragazzini ridotti a quel modo.
I sacerdoti erano degli ipocriti: i loro sermoni erano pieni di lodi verso i bambini come frutto di speranza, di gioia, amore e tante altre boiate che non aveva le forze per elencare. Poi appena una ragazzina finiva sulla strada per mangiare la bollavano come un’inguaribile peccatrice. Se aveva i capelli rossi era finita. Axel ne aveva conosciute tante. Più di quante ne sapesse contare, poco ma sicuro. Se fosse nato femmina avrebbe probabilmente fatto la fine di quella ragazzina.
Non gli sarebbe dispiaciuto. Una prostituta non moriva mai di fame.
I preti li guardavano con disprezzo, guardandoli dall’alto delle loro armature luminose. Qualcuno diceva che i Cavalieri d’Oro fossero così buoni da perdonare persino gli assassini e gli scienziati, ma lui non vi aveva mai creduto. Nemmeno dopo aver conosciuto Mu e Camus. I due sacerdoti al Castello dell’Oblio avevano mostrato la loro dolcezza, ma anche un’ingenuità senza pari che non aveva mai sopportato. Come tutte le persone religiose erano pieni di idee e parole, ma non avevano idea di come girasse il mondo fuori dal loro bel tempio di marmo. Non avevano idea di quanti bambini dai capelli rossi venissero cacciati a sassate dai templi perché i sacerdoti minori li credevano figli del demonio, o di quante ragazzine si vendessero per dar da mangiare alle loro famiglie.
Ed il vero problema era che la gente dava retta alle loro idiozie. Per un attimo gli venne in mente lo sguardo dubbioso di Roxas il giorno che si erano conosciuti: era imbottito di superstizioni, preghiere ed altre cavolate che aveva eradicato da lui dopo molto tempo. Ma non indugiò troppo sul pensiero. Faceva male.
“Ehi, Axel, non sei tu quello che dice che pensare troppo fa male?”
La voce di Larxen squillò del suo cervello come cento campanelli d’allarme, e l’ex n. VIII dell’Organizzazione si accorse di essere arrivato al loro punto di ritrovo senza nemmeno accorgersene, seguendo più i pensieri che i propri passi. Se la Ninfa Selvaggia aveva fame, lo mascherava meglio di lui: aveva scelto un povero albero come vittima dei suoi allenamenti, e si stava divertendo ad intaccare la sua corteccia annerita dalla pioggia di fuoco lanciando i kunai. Non aveva dubbi che la ragazza bionda stesse immaginando di colpire i punti vitali del n. IV. “Dov’è Marly? Non era il suo turno di riposo?”
“Mi hai preso per la badante di Mister Fucsia? Starà parlando con le sue piantine, e se non vuol dormire sono problemi suoi!”
Axel bestemmiò trai denti, raccolse alcuni sterpi da terra e diede loro fuoco, immergendo le mani nella fiamma e cercando di prendere tutto il calore possibile dal suo elemento. In lontananza tuonava. Al ritorno del loro compagno si sarebbero mossi. Ignorò lo sghignazzare di Larxen e chiuse gli occhi, cercando di isolare tutti i suoni, le paure, i pensieri che ancora lo agitavano. Non sapeva quanto ancora sarebbero riusciti ad andare avanti. Ogni secondo che passava, anche quelli in cui chiudevano gli occhi per riposare, poteva arrivare un drago affamato e scambiarli per pranzo. O un demone. O una raffica di quelle enormi navi di metallo poteva avvolgerli e farli sparire in un soffio di fiamme danzanti. Si accorse di provare la stessa paura di quando era bambino, quando fissava i soldati delle famiglie nobili, i ladri, i contadini, i cani feroci quanto dei licantropi e si chiedeva quale tra quelle figure enormi gli avrebbe schiacciato la testa come un insetto lasciandolo a crepare sotto a un ponte. Si era illuso di dimenticare quella sensazione quando aveva indossato la tunica dell’Organizzazione. Se l’era lasciata del tutto alle spalle quando aveva scoperto i poteri del Castello dell’Oblio e aveva progettato persino il complotto contro il Superiore. Ma adesso la sensazione era tornata, gelida come l’idea stessa che per lui il cerchio potesse solo concludersi in quel modo, morire come un ladro cencioso dopo aver cercato di conquistare il mondo.
“Ma cosa vedo? Il cervello pragmatico del gruppo perso nei suoi pensieri?”
Axel sobbalzò a quelle parole sussurrate quasi nel suo orecchio. Detestava quando Marluxia gli giungeva alle spalle in quel modo. Ed era pronto a giurare che l’altro provasse un certo piacere nel farlo. Si tirò subito in piedi, con la luce del giorno ormai scomparsa e la radura illuminata solo dal piccolo fuoco che scoppiettava tra i suoi piedi. Nonostante gli anni per strada gli avessero affinato tutti i sensi non riusciva ancora a percepire il passo di Marluxia quando si spostava su un letto di foglie.
“Mi pare di averti già detto di non venirmi mai alle spalle in questo modo, Marly! Non lamentarti quando ti ritroverai un chackram tra le costole!”.
“Siamo aggressivi stasera?” disse lui. Forse era l’assenza di luce, ma la fiamma riflessa nei suoi occhi azzurri dava un effetto inquietante ed un brivido gli percorse la schiena. L’ex n. XI si appoggiò con grazia alla sua inseparabile falce, poi gli rivolse un sorriso che non aveva nulla di amichevole. “Io invece mi sento di buon umore. Ho trovato qualcosa che potrebbe rivelarsi interessante”.
Il n. VIII non fece in tempo ad osservare il suo compagno che Larxen scivolò in mezzo a loro, sottraendo all’uomo dai capelli rosa un foglio arrotolato che teneva sotto il braccio. Marluxia la incenerì con lo sguardo per l’impertinenza, ma lei gli rispose con una linguaccia; aprì il foglio davanti al fuoco, ed il suo viso si illuminò di un grande sorriso. “Sembra una vera mappa del tesoro! Con tanto di gigantesca X rossa! Dove l’hai trovata, Marly?”
“Da qualcuno a cui non serviva più, ovviamente”.
“Che c’è, hai finalmente scoperto che lo sciacallaggio è la tua vocazione?” gli chiese Axel, rendendosi conto che l’altro non aveva mai staccato gli occhi di dosso da lui nemmeno per un istante. Si sentiva osservato, braccato. E gli occhi dell’altro non facevano altro che fargli salire i brividi lungo la spina dorsale. “E poi che ne sapete che quella X sia un tesoro? Suvvia, smettiamo di fare gli idioti e cerchiamo un posto dove ripararci prima che venga a piovere”.
“Il mio istinto di Cercatrice di Tesori mi dice che non stiamo sbagliando!” saltellò Larxen, d’improvviso dimentica della fame e della stanchezza. Axel conosceva bene il significato della luce nei suoi occhi verdi, la luce che indicava che la Ninfa Selvaggia avesse trovato un nuovo gioco. Lei iniziò a saltellare in tondo ed a raccogliere i kunai. “Al diavolo il GSB, al diavolo le navi! Da domani tutti in marcia verso il tesoro!”
Sempre che ci arriviamo vivi a domani …
Marluxia e Larxen avevano deciso. Due a uno. Come molte altre volte in cui viaggiavano insieme.
Preparandosi all’inutile viaggio a vuoto che lo avrebbe atteso alle prime luci dell’alba, Axel scosse la testa e si accoccolò vicino al fuoco cercando di riprendere il sonno interrotto. Stava per chiudere gli occhi quando uno scintillio attraversò lo spazio tra le sue palpebre. L’istinto guidò la sua mano, ed acchiappò al volo qualcosa di piccolo e rotondo.
Quando guardò da vicino vide il tipico scintillare di una moneta d’argento. “Ti eri perso qualcosa, Axel?”
La voce di Marluxia cadde nel silenzio, affilata come una lama.
“Non ho idea di cosa tu stia parlando, Marly!”
“Meglio così” rispose lui, sedendosi con noncuranza proprio vicino a lui. “Allora non ti dispiace se la tengo io?”
“Fai come ti pare”.
Axel la fece scivolare sul guanto nero dell’altro, cercando di calmare i battiti del proprio cuore. La moneta d’argento svanì tra le sue dita, riposta con cura dentro un borsello con una rapidità di mano che non avrebbe mai creduto possibile in un nobile viziato come Marluxia. Ma l’altro rimase dov’era.
“Grazie. Sarebbe stato davvero un peccato smarrire una moneta come questa considerato quanto vale …” sorrise. “Le nostre ricchezze ce le siamo guadagnate insieme. E le spendiamo insieme. È il modo migliore per gestire l’economia di un piccolo gruppo come il nostro, se tutti spendessimo in maniera irrazionale la nostra fortuna resteremmo senza nemmeno una moneta di bronzo. È bene che tutto il gruppo decida come investire i soldi, l’azione dei singoli sarebbe davvero … intollerabile”.
Stavolta il brivido lo attraversò fino al cervello. “Vieni al punto, Marly. Ho sonno”.
“Oh, non c’è nessun punto. Se non sei stato tu a smarrire questa moneta allora la mia … lezione non è necessaria, dico bene?”
Si alzò, appoggiandosi alla falce. Per un attimo Axel vide delle macchie scure lungo la lama rosa, ma il padrone la fece vorticare da una mano all’altra, costringendolo ad incrociare il proprio sguardo con il suo. “Sai quale era una delle massime preferite di mio padre, Axel? Homo homini lupus”.
  
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