I’m
not a Murderer
11
Cauti
sospiri e sporadici attimi surreali
«Forse… possiamo iniziare con il conoscerci un
po’, che ne dici?»
Max
strisciava un piede per terra, osservando
ostinatamente un cespuglio alle spalle del rosso.
Sarebbe potuto andare a casa con i compagni di
squadra, ma uscito dall’ospedale, lo aveva visto salutarli e
tornare verso di
lui, raggiungerlo al parcheggio e appoggiarsi al muretto dove Castor si
era
seduto ad aspettarlo.
Quando lo aveva accompagnato in ospedale, ore
prima, lo aveva lasciato sulla porta. Gli aveva passato la giacca,
distrattamente abbandonata sul sedile posteriore, e sfiorato appena le
dita.
Poi
si era voltato ed era tornato in macchina.
Sei
ore.
Quello era il tempo passato senza muoversi.
Semplicemente aveva acceso la radio e lasciato che la musica coprisse
il
silenzio – sempre meno sopportabile – e lo scorrere
delle ore.
Solo
quando aveva visto un nutrito gruppo uscire,
si era destato dall’apatia in cui era caduto ed era sceso
istintivamente
dall’auto, preoccupato dalle condizioni di Maximillian.
O
meglio, preoccupato dall’effetto che la salute
di Bach potesse avere su di lui.
Poi
lo aveva visto ridere e si era bloccato,
improvvisamente indeciso su cosa fare.
E
Max si era avvicinato.
Concedendogli quella che sembrava – a tutti gli
effetti – una seconda occasione.
«Ma… Bach?» decisamente era rimasto
senza parole.
«Bach si riprenderà» affermò
insicuro, evitando
volutamente il doppio senso della domanda e rispondendo solo in favore
della
salute.
Mordendosi il labbro, Max decise che non avrebbe
mai, assolutamente confessato al rosso quello che lui e
l’amico si erano detti,
compresa la parte riguardante della gaffe sentimentale e tutta la
faccenda dei
pensieri indotti e presunta gelosia.
Never!
All'inizio, aveva fatto fatica a districarsi dal
groviglio di emozioni che lo avevano assalito nel momento in cui,
uscito dall'ospedale,
aveva visto l'auto di Castor parcheggiata nello stesso posto in cui
l'aveva
lasciata quella mattina.
Aveva visto l'uomo seduto, intento a scarabocchiare
qualcosa su un pezzo di carta stropicciato e aveva distrattamente
salutato i
compagni di squadra, chiedendosi con che faccia potesse ancora
presentarsi da
lui.
Con
che scusa sarebbe andato lì a parlargli.
Ma
poi Castor era sceso.
«Se non ti va non importa…» mise subito
le mani
avanti, alla vista dell’espressione stupita
dell’altro, per paura di aver
frainteso ancora un volta.
«No!» Castor non gli diede nemmeno il tempo di
finire la frase, facendo un mezzo passo avanti «no»
ripeté con maggior calma, rendendosi
improvvisamente conto di aver reagito come una ragazzina «mi
va, certo… mi
stavo solo chiedendo, sai-»
«Fossi in te non tornerei sull’argomento»
ribatté
Max, più seccamente di quanto avesse voluto «non
sai che figura!»
«Quindi voi non…» sul serio, come
diavolo faceva
a non finire nemmeno una frase? Castor avrebbe voluto prendersi a
pugni, ma il
primario istinto, in quel momento, era di mettersi a ridere come
un’idiota.
«Noi non. Punto» Max gli puntò il dito
contro «non
provare più a mettermi in testa una cosa simile approfittano
della mia
preoccupazione! Mi chiedo come cavolo farò a guardare ancora
Bach negli occhi!»
Al
che, finalmente, Castor si lasciò sfuggire una
breve risata, più leggero. Improvvisamente il mondo era
tornato a sembrargli un
posto migliore. Max, in piedi davanti a lui, sembrava ancora incerto su
come
comportarsi e lo guardava di sottecchi, tornando a strusciare la punta
della
scarpa sull’asfalto. Castor preferì trattenere
l’impulso di abbracciarlo
stretto proprio lì, sotto gli occhi dei suoi compagni di
squadra, che li
spiavano da dietro il furgoncino con cui erano arrivati.
«Senti» fece poi, vagamente a disagio, dopo un
minuto di silenzio «che ne dici di accompagnarmi a mangiare
qualcosa? Ho una
certa fame…»
°°°
Era
stato assurdamente difficile trovare un posto
per uno spuntino veloce.
Seduto dall’altra parte del tavolino rotondo a
cui un altezzoso cameriere li aveva fatti accomodare, Max stava ancora
guardando scettico il piatto di Castor.
Fast
food e paninerie erano state bocciate a priori,
ancora prima che il rosso lo invitasse a salire in macchina.
«Non mi piacciono particolarmente» era stato
quasi imbarazzato nel rivelare, facendogli cenno di entrare in macchina.
Allacciandosi la cintura – e dopo essersi chiesto
per’ennesima volta se fosse giusto, quello che stava facendo
– si chiese cosa
ci fosse di strano in una piadina veloce.
In
effetti, dovette ammettere, quella domanda
sembrava apparire sempre più spesso nella sua mente man mano
che l’auto si
allontanava dal centro, costeggiando numerosi locali e ristoranti, fino
ad un
enorme chiosco, ai margini dell’Independence Park. La
struttura in ferro
battuto, le ampie vetrate e le delicate decorazioni lo catalogavano
direttamente nel Pantheon dei bar, surclassando qualunque altro locale
fosse
mai entrato.
Anche se, di bar che servivano alle quattro del
pomeriggio del caviale marinato… non ne aveva mai visti.
Persino la sua
bistecca pareva del tutto diversa da qualunque altra avesse mai
mangiato.
E
sospettava inoltre che Castor si fosse fatto
preparare apposta quell’insalata perché,
ammettiamolo, quale sano di mente
avrebbe fatto degli accostamenti tanto azzardati?
Quindi,
trenta minuti di strada dopo, Max si trovava a contemplare una bistecca
ai
ferri con contorna di patate – per sé –
e un’insalata di melone, pere e
zucchine, insaporita con sfilaccetti di pollo impanati, cetriolini
sott’aceto,
ricotta alle erbe e scaglie di grana.
«Sei sicuro che sia commestibile?» gli aveva
chiesto, esitante, mentre Castor si faceva portare del salsa di soia
per
condire il tutto.
L’occhiata incredula che gli aveva rivolto in
risposta era stata piuttosto esauriente, ma Max si era ugualmente
rifiutato di
assaggiarlo, nonostante le insistenze dell’altro.
Presero il primo boccone dai rispettivi piatti,
studiandosi a lungo.
Castor pensava che non sarebbe mai arrivato ad
ammettere – a chiunque e soprattutto a se stesso –
di essere profondamente a
disagio. Non era abituato a quelle situazioni.
Certo, era stato lui a proporre che mangiassero
qualcosa insieme, ma era stato Max per primo a dire che andava bene,
frequentarsi un po’.
«Raccontami della tua famiglia» disse alla fine,
smettendo
di scervellarsi sulla mossa migliore. In fondo non poteva essere
così
difficile, uscire con qualcuno, no? Bisognava agire
d’istinto.
O,
almeno, così era solita ripetergli Clio.
Sorpreso da quella richiesta inaspettata, Max
arrossì.
«Non c’è molto da dire»
biascicò, rigirando un
pezzo di carne nella salsa «è abbastanza
ordinaria».
«Nessuna famiglia lo è veramente» rise
Castor «non
mi dire che ti vergogni».
«E la tua?» sviò il discorso Max
«Anche se devo
dire che un paio li ho conosciuti…»
«La mia… è un tantino sopra le righe,
lo ammetto»
rise ancora «ma non cercare di cambiare argomento!
Allora?»
«Faccio parte di una famiglia numerosa» Max si
mosse a disagio, prima di iniziare a raccontare «ci sono i
miei genitori: Julia
e Dom e la sorella maggiore di mio padre, Dora, che è venuta
a stare da noi per
un po’ dopo la morte dello zio» alzò gli
occhi al cielo come se facesse fatica
a ricordare – o, molto più probabilmente, per
sottrarsi allo sguardo fisso di
Castor, che lo metteva inspiegabilmente a disagio «ah, vengo
dall’Arizona, mi
sono dimenticato di dirtelo! Abbiamo una piccola fattoria e bene o male
ci
abbiamo lavorato tutti, anche se mia madre fa
l’infermiera».
Il
rosso si trovò a sorridere con lui, alla vista
dell’espressione dolce che aveva in volto, al ricordo dei
genitori e della
casa.
«Siamo sette fratelli – tutti maschi, riesci a
crederci? – e non saremmo potuti essere più
agitati! Mi ricordo una volta che
Liam – ah, è uno dei gemelli: Sean e Liam
– ha convinto tutti ad andare ad
imbrattare il furgone del parroco di paese – povero Padre
Gaston, quanto si è
spaventato una volta uscito dalla casa parrocchiale – con
vernice rossa. O
quando ci siamo persi nel bosco perché Sean era decisissimo
a trovare un
cucciolo di unicorno e non sarebbe tornato a casa senza di lui
– nostro padre
ci tenne a lavorare nei campi per tutta una giornata, quando
tornammo!»
«I gemelli sembrano essere parecchio…
pestiferi»
affermò Castor, cercano di immaginare due versioni
più giovani del ragazzo, e
identiche, con una copia sputata di sorrisi furbi.
Max
scosse la testa, l’imbarazzo evaporato nel
nulla.
«Non sono niente a confronto di Dominick, l’ultimo
nato. Ha solo sette anni, ma fa disperare più di tutti
noialtri messi assieme.
Eppure non si sa come, è il beniamino»
sospirò, sebbene somigliasse più ad uno
sbuffo divertito «io sono il primogenito e subito dopo di me
è nato Noah – il
genio di famiglia: sta studiando per diventare veterinario. Poi
c’è William,
che si è trasferito da me qui in città e con un
solo anno di distanza sono nati
Sean e Liam, che sembrano decisi a rilevare la fattoria»
alzò altre due dita
per la conta «e infine ci sono Ted e Dom jr, rispettivamente
di dieci e sette
anni» ridacchiò «siamo
parecchi».
«E io che pensavo che quattro fossero già
troppi»
annuì all’occhiata interrogativa
dell’altro «Orion, Clio, Eleo e io.
Quattro».
«Beh» alzò le spalle «credo
dipenda da quello che
combinate…»
«Vale rubare la macchina del Console Vaticano per
una sera e andare a rimorchiare ragazze?»
Max
lo guardò allibito, pensando che scherzasse,
al che Castor scosse la testa.
«Orion, a diciassette anni» confermò,
serissimo,
ricordando ogni singolo dettaglio di quel giorno, dal momento in cui il
fratello lo aveva spintonato di lato per uscire di casa a quando il
nonno era
dovuto andare a recuperarlo alla stazione di polizia «pensava
sarebbe stato
divertente. Il Console un po' meno, visto che ne ha denunciato il
furto».
«Non riesco quasi ad immaginarlo…»
esalò senza
fiato, ricordando la figura seria del maggiore tra i fratelli
O'Connell.
Incredibile.
«E non ti ho ancora raccontato di quando Clio ha
incollato il suo disegno sul Goya – dicendo che
così l'avrebbero ammirato
meglio – oppure quando Orion si è spacciato per il
nonno al telefono, per
prenotare una vacanza a Rajasthan con il jet privato della famiglia.
All'epoca
aveva solo quindici anni».
«Spero che
Dom non diventi così!» borbottò
angosciato – e sconcertato
dalla ricchezza di quella famiglia. Goya? Jet? Rajasthan?
Castor
sembrò riflettere su qualcosa con una punta di divertimento.
«Sai,
invece io credo di somigliare abbastanza a tuo fratello
Noah…»
Max
lo guardò interrogativo.
«Voglio dire…» cercò di
spiegarsi «anche io sono
una specie di genio».
A
quell'affermazione scoppiarono a ridere e
Castor tornò a sentirsi inspiegabilmente leggero. Era
diventato così facile… e
divertente. Perché non l'aveva mai fatto prima?
Tornando a guardare Max che finiva il suo piatto,
venne colto da un attacco di tenerezza.
Era
finalmente ovvio, il motivo per cui non
l'aveva mai fatto prima. Prima non
c'era stato Max.
Sentendosi osservato, il moro arrossì,
lasciandogli un'occhiata interrogativa a cui rispose con un sorriso.
«Senti…» il primo riprese la parola,
piegandosi
leggermente in avanti sul tavolo «è vero che hai
chiesto a tuo fratello di
assumere Bach?»
Castor si sentì inspiegabilmente
a disagio. O meglio, si sentì inaspettatamente
a disagio.
Non
è che avesse proprio chiesto a Orion di
assumere Bach… anche perché il fratello non lo
avrebbe minimamente ascoltato.
Diciamo che aveva più o meno amichevolmente messo se stesso
e Bach sul piatto
di una bilancia – lo stesso – e dall'altra parte il
suo contributo esclusivo per
un progetto per cui Orion lo arruffianava da mesi.
In
sostanza: Castor avrebbe preso parte
attivamente all'apertura di una nuova serie di… di qualcosa,
non aveva nemmeno
letto tutto il contratto, a dire il vero, e Orion si sarebbe impegnato
a dare
almeno un colloquio a questo fantomatico ragazzo.
Evidentemente, al fratello, questo Bach doveva
essere piaciuto.
In
ogni caso, non poteva dirlo a Max. Non ancora
almeno.
«Non proprio» alzò le spalle per darsi
un tono
meno impegnato «ho solo detto a Orion che c'era una persona
che avrebbe fatto
al caso suo. Sta cercando un sostituto per la sua assistente che presto
andrà
in maternità».
Nonostante il tono leggero, Max ebbe
l'impressione che non gli stesse dicendo tutto, ma preferì
sorvolare. Non
voleva certo rovinare quel momento con un'inutile presa di posizioni.
Era stato
inaspettato il piacere derivante da quella semplice conversazione.
Prima di quel momento non aveva mai avuto
occasione di parlare a Castor per un periodo di tempo sufficientemente
lungo –
e qui arrossì – ed era definitivamente contento di
aver dato retta a Bach sulla
questione della seconda possibilità.
«Grazie, comunque» ci tenne a dire.
Il
movimento della mano dell'altro poteva essere
interpretato come a sminuire la cosa.
«Non ho fatto niente. Mio fratello non è il tipo
che si lascia influenzare. Se gli ha proposto il lavoro significa che
gli è
andato a genio. Niente di più».
Niente di più? La punta di sconcerto di Max stava
diventando sempre più ampia.
Certo che aveva fatto molto di più!
Aveva trovato un lavoro a Bach. E lo aveva
inviato ad uscire. A lui, Max, non a Bach.
Castor, un ragazzo che sembrava letteralmente
vivere in un altro universo.
Il
silenzio scese nuovamente, mentre Max riponeva
le posate e osservava l'altro finire il pasto.
Non
gli era sembrata una faccenda così complessa,
quando l'aveva incontrato quella sera, nel locale. E nemmeno dopo.
«Tu di cosa ti occupi?» chiese improvvisamente,
spezzando
il silenzio. Aveva bisogno di un qualche appiglio reale, terra terra,
in
quell'incontro fuori dalla realtà.
«Scrivo, perlopiù» ammise
l’altro, rigirandosi la
forchetta tra le dita «romanzi» ci tenne a
specificare «anche se un paio di
volte ho dato il mio contributo al Daily
News e The Sentinel».
«Ma dai… sul serio?»
Uno scrittore!?
Un
vero scrittore era lì davanti a lui a finire
un'insalata di melone e… cos’altro c’era
lì dentro?
Per
un attimo Max si sentì in preda al panico.
Cioè, ricapitolando: lui, l’uomo che aveva
davanti, era uno degli eredi del fiorente impero O’Connell,
scrittore di libri
– presumibilmente
– di successo,
sfacciatamente ricco e irritante oltre che fissato modaiolo, fratello
dell’uomo
a cui aveva promesso di spaccare la faccia e che aveva appena trovato
lavoro al
suo migliore amico.
Aveva dimenticato qualcosa?
Ah,
già… era anche il primo – e unico – uomo con cui era andato
a letto.
Adesso sfidava chiunque a dire che non si
trattasse di una situazione surreale.
All’espressione sconcertata d Max, Castor aveva
annuito.
«Non so se li hai letti» alzò una mano
per elencare
«ho scritto Soul’s Color
e Sleep of Hearts. Sono due
thriller».
Max
scosse la testa. Non era esattamente il tipo
che passava le serate a leggere.
«Tra qualche mese dovrebbe uscire Morgue
Phantom. Ma non sono ancora
sicuro del titolo…» continuò allora, un
minimo scoraggiato dalla mancanza di
partecipazione da parte dell’altro.
Max
ricordò di aver letto qualche articolo a
riguardo, la settimana precedente. Per caso, ovviamente, non
perché di era
messo a cercare su internet tutto quello che lo riguardava.
Era
tutta colpa di Google.
E
Castor.
Era
sempre colpa di Castor. Specie perché non
riusciva a stargli troppo lontano.
«In realtà non è che non mi piaccia
leggere, ma
sono senza speranza» ammise – non
pensando alle informazioni rubate a internet
«perché se mi siedo con un libro
tendo ad addormentarmi».
«Questo significa che se qualcuno leggesse per
te, tu non ti addormenteresti?» rise Castor, scherzando.
Quello a cui non era preparato, invece, fu
l'espressione seria dell'altro.
«Esatto».
Un
fremito gli percorse la spina dorsale,
improvviso.
«Se vuoi, posso leggerti qualcosa» si
animò,
guardandolo da sotto le ciglia, diviso tra l’eccitato e il
timoroso «cioè… se
vuoi…»
A
Max venne da ridere alla vista di quel
comportamento infantile.
«Se hai uno dei tuoi libri a portata di
mano…»
«Nessun problema!» esclamò allegro
Castor,
balzando in piedi «Sono certo che uno dei camerieri ne ha.
Poco fa mi è
sembrato sul punto di venire a chiedermi un autografo».
Max
scoppiò a ridere nel vederlo raggiungere
l’altezzoso ragazzo che li aveva fatti accomodare e allungare
la mano, presto
riempita del peso di un volume e seguito da qualche occhiata adorante.
Prima di
tornare al tavolo con il libro – e la promessa di restituirlo
al proprietario –
vi appose una firma svolazzante tra le lusinghe del cameriere e le
risate di
qualche cliente.
«È il mio secondo manoscritto»
spiegò orgoglioso.
Max
annuì, sbirciando il titolo, scritto in lettere nere,
semplici, su sfondo
bianco e come unica decorazione una fiamma blu.
«Anima e Corpo sono mescolati, ma
non al punto tale che non sia
possibile distinguere alcune operazioni di pertinenza della sola Anima
da altre
del solo Corpo» iniziò, prima esitante e
poi sempre più convinto alla vista
di Max che si accomodava meglio per seguire la trama, cominciando ben
presto a
gesticolare dall'entusiasmo «Ci sono
volte in cui quello che ho sempre conosciuto, che mi ha fatto crescere,
che mi
ha reso l’essere che sono adesso, sembra toppo simile ad un
sogno. O ad un
incubo talmente bello da non desiderare di svegliarsi nel mezzo e, nel
contempo,
tanto effimero da crederlo una semplice fantasia. Talvolta, quando la
neve cade
e le strade sono deserte e gelate, mi ricordo tutto. E non posso fare
niente
per fuggire…»
Aveva una voce calda e
ipnotizzante.
Max,
rapito, non lo fermò
prima di due ore.
…
Lo so, non
ci sono scusanti (come sempre) per il
mio ritardo.
Ehm…
Aiuterebbe
sapere che in fondo, molto in fondo, mi
sto lapidando per questa mia – recidiva – mancanza?
…
baci
NLH