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Autore: aliasNLH    10/06/2014    4 recensioni
«Tu lo sai, vero, che quando un uomo compra dei vestiti alla propria ragazza, lo fa perché vuole toglierglieli personalmente?» mormorò, rispondendo finalmente all’interrogativo.
Max deglutì, improvvisamente accaldato per via del contatto di quella mano – per non dire altro, considerato il fatto che si trovava tra decine di corpi sudati e uno in particolare felicemente spalmato su di lui.
Molto felicemente, in effetti. Avvampò.
«M-ma… io non sono la tua ragazza» cercò di erigere una – blanda – difesa a quello che sembrava qualcosa di inevitabile.
«Questo è vero» gli sussurrò in risposta, sfiorandogli il lobo con le labbra «non sei una donna».
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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I’m not a Murderer

11
 
Cauti sospiri e sporadici attimi surreali
 
    «Forse… possiamo iniziare con il conoscerci un po’, che ne dici?»
    Max strisciava un piede per terra, osservando ostinatamente un cespuglio alle spalle del rosso.
    Sarebbe potuto andare a casa con i compagni di squadra, ma uscito dall’ospedale, lo aveva visto salutarli e tornare verso di lui, raggiungerlo al parcheggio e appoggiarsi al muretto dove Castor si era seduto ad aspettarlo.
    Quando lo aveva accompagnato in ospedale, ore prima, lo aveva lasciato sulla porta. Gli aveva passato la giacca, distrattamente abbandonata sul sedile posteriore, e sfiorato appena le dita.
    Poi si era voltato ed era tornato in macchina.
    Sei ore.
    Quello era il tempo passato senza muoversi. Semplicemente aveva acceso la radio e lasciato che la musica coprisse il silenzio – sempre meno sopportabile – e lo scorrere delle ore.
    Solo quando aveva visto un nutrito gruppo uscire, si era destato dall’apatia in cui era caduto ed era sceso istintivamente dall’auto, preoccupato dalle condizioni di Maximillian.
    O meglio, preoccupato dall’effetto che la salute di Bach potesse avere su di lui.
    Poi lo aveva visto ridere e si era bloccato, improvvisamente indeciso su cosa fare.
    E Max si era avvicinato.
    Concedendogli quella che sembrava – a tutti gli effetti – una seconda occasione.
    «Ma… Bach?» decisamente era rimasto senza parole.
    «Bach si riprenderà» affermò insicuro, evitando volutamente il doppio senso della domanda e rispondendo solo in favore della salute.
    Mordendosi il labbro, Max decise che non avrebbe mai, assolutamente confessato al rosso quello che lui e l’amico si erano detti, compresa la parte riguardante della gaffe sentimentale e tutta la faccenda dei pensieri indotti e presunta gelosia.
    Never!
    All'inizio, aveva fatto fatica a districarsi dal groviglio di emozioni che lo avevano assalito nel momento in cui, uscito dall'ospedale, aveva visto l'auto di Castor parcheggiata nello stesso posto in cui l'aveva lasciata quella mattina.
    Aveva visto l'uomo seduto, intento a scarabocchiare qualcosa su un pezzo di carta stropicciato e aveva distrattamente salutato i compagni di squadra, chiedendosi con che faccia potesse ancora presentarsi da lui.
    Con che scusa sarebbe andato lì a parlargli.
    Ma poi Castor era sceso.
    «Se non ti va non importa…» mise subito le mani avanti, alla vista dell’espressione stupita dell’altro, per paura di aver frainteso ancora un volta.
    «No!» Castor non gli diede nemmeno il tempo di finire la frase, facendo un mezzo passo avanti «no» ripeté con maggior calma, rendendosi improvvisamente conto di aver reagito come una ragazzina «mi va, certo… mi stavo solo chiedendo, sai-»
    «Fossi in te non tornerei sull’argomento» ribatté Max, più seccamente di quanto avesse voluto «non sai che figura!»
    «Quindi voi non…» sul serio, come diavolo faceva a non finire nemmeno una frase? Castor avrebbe voluto prendersi a pugni, ma il primario istinto, in quel momento, era di mettersi a ridere come un’idiota.
    «Noi non. Punto» Max gli puntò il dito contro «non provare più a mettermi in testa una cosa simile approfittano della mia preoccupazione! Mi chiedo come cavolo farò a guardare ancora Bach negli occhi!»
    Al che, finalmente, Castor si lasciò sfuggire una breve risata, più leggero. Improvvisamente il mondo era tornato a sembrargli un posto migliore. Max, in piedi davanti a lui, sembrava ancora incerto su come comportarsi e lo guardava di sottecchi, tornando a strusciare la punta della scarpa sull’asfalto. Castor preferì trattenere l’impulso di abbracciarlo stretto proprio lì, sotto gli occhi dei suoi compagni di squadra, che li spiavano da dietro il furgoncino con cui erano arrivati.
    «Senti» fece poi, vagamente a disagio, dopo un minuto di silenzio «che ne dici di accompagnarmi a mangiare qualcosa? Ho una certa fame…»
 
°°°
 
    Era stato assurdamente difficile trovare un posto per uno spuntino veloce.
    Seduto dall’altra parte del tavolino rotondo a cui un altezzoso cameriere li aveva fatti accomodare, Max stava ancora guardando scettico il piatto di Castor.
    Fast food e paninerie erano state bocciate a priori, ancora prima che il rosso lo invitasse a salire in macchina.
    «Non mi piacciono particolarmente» era stato quasi imbarazzato nel rivelare, facendogli cenno di entrare in macchina.
    Allacciandosi la cintura – e dopo essersi chiesto per’ennesima volta se fosse giusto, quello che stava facendo – si chiese cosa ci fosse di strano in una piadina veloce.
    In effetti, dovette ammettere, quella domanda sembrava apparire sempre più spesso nella sua mente man mano che l’auto si allontanava dal centro, costeggiando numerosi locali e ristoranti, fino ad un enorme chiosco, ai margini dell’Independence Park. La struttura in ferro battuto, le ampie vetrate e le delicate decorazioni lo catalogavano direttamente nel Pantheon dei bar, surclassando qualunque altro locale fosse mai entrato.
    Anche se, di bar che servivano alle quattro del pomeriggio del caviale marinato… non ne aveva mai visti. Persino la sua bistecca pareva del tutto diversa da qualunque altra avesse mai mangiato.
    E sospettava inoltre che Castor si fosse fatto preparare apposta quell’insalata perché, ammettiamolo, quale sano di mente avrebbe fatto degli accostamenti tanto azzardati?
    Quindi, trenta minuti di strada dopo, Max si trovava a contemplare una bistecca ai ferri con contorna di patate – per sé – e un’insalata di melone, pere e zucchine, insaporita con sfilaccetti di pollo impanati, cetriolini sott’aceto, ricotta alle erbe e scaglie di grana.
    «Sei sicuro che sia commestibile?» gli aveva chiesto, esitante, mentre Castor si faceva portare del salsa di soia per condire il tutto.
    L’occhiata incredula che gli aveva rivolto in risposta era stata piuttosto esauriente, ma Max si era ugualmente rifiutato di assaggiarlo, nonostante le insistenze dell’altro.
    Presero il primo boccone dai rispettivi piatti, studiandosi a lungo.
    Castor pensava che non sarebbe mai arrivato ad ammettere – a chiunque e soprattutto a se stesso – di essere profondamente a disagio. Non era abituato a quelle situazioni.
    Certo, era stato lui a proporre che mangiassero qualcosa insieme, ma era stato Max per primo a dire che andava bene, frequentarsi un po’.
    «Raccontami della tua famiglia» disse alla fine, smettendo di scervellarsi sulla mossa migliore. In fondo non poteva essere così difficile, uscire con qualcuno, no? Bisognava agire d’istinto.
    O, almeno, così era solita ripetergli Clio.
    Sorpreso da quella richiesta inaspettata, Max arrossì.
    «Non c’è molto da dire» biascicò, rigirando un pezzo di carne nella salsa «è abbastanza ordinaria».
    «Nessuna famiglia lo è veramente» rise Castor «non mi dire che ti vergogni».
    «E la tua?» sviò il discorso Max «Anche se devo dire che un paio li ho conosciuti…»
    «La mia… è un tantino sopra le righe, lo ammetto» rise ancora «ma non cercare di cambiare argomento! Allora?»
    «Faccio parte di una famiglia numerosa» Max si mosse a disagio, prima di iniziare a raccontare «ci sono i miei genitori: Julia e Dom e la sorella maggiore di mio padre, Dora, che è venuta a stare da noi per un po’ dopo la morte dello zio» alzò gli occhi al cielo come se facesse fatica a ricordare – o, molto più probabilmente, per sottrarsi allo sguardo fisso di Castor, che lo metteva inspiegabilmente a disagio «ah, vengo dall’Arizona, mi sono dimenticato di dirtelo! Abbiamo una piccola fattoria e bene o male ci abbiamo lavorato tutti, anche se mia madre fa l’infermiera».
    Il rosso si trovò a sorridere con lui, alla vista dell’espressione dolce che aveva in volto, al ricordo dei genitori e della casa.
    «Siamo sette fratelli – tutti maschi, riesci a crederci? – e non saremmo potuti essere più agitati! Mi ricordo una volta che Liam – ah, è uno dei gemelli: Sean e Liam – ha convinto tutti ad andare ad imbrattare il furgone del parroco di paese – povero Padre Gaston, quanto si è spaventato una volta uscito dalla casa parrocchiale – con vernice rossa. O quando ci siamo persi nel bosco perché Sean era decisissimo a trovare un cucciolo di unicorno e non sarebbe tornato a casa senza di lui – nostro padre ci tenne a lavorare nei campi per tutta una giornata, quando tornammo!»
    «I gemelli sembrano essere parecchio… pestiferi» affermò Castor, cercano di immaginare due versioni più giovani del ragazzo, e identiche, con una copia sputata di sorrisi furbi.
    Max scosse la testa, l’imbarazzo evaporato nel nulla.
    «Non sono niente a confronto di Dominick, l’ultimo nato. Ha solo sette anni, ma fa disperare più di tutti noialtri messi assieme. Eppure non si sa come, è il beniamino» sospirò, sebbene somigliasse più ad uno sbuffo divertito «io sono il primogenito e subito dopo di me è nato Noah – il genio di famiglia: sta studiando per diventare veterinario. Poi c’è William, che si è trasferito da me qui in città e con un solo anno di distanza sono nati Sean e Liam, che sembrano decisi a rilevare la fattoria» alzò altre due dita per la conta «e infine ci sono Ted e Dom jr, rispettivamente di dieci e sette anni» ridacchiò «siamo parecchi».
    «E io che pensavo che quattro fossero già troppi» annuì all’occhiata interrogativa dell’altro «Orion, Clio, Eleo e io. Quattro».
    «Beh» alzò le spalle «credo dipenda da quello che combinate…»
    «Vale rubare la macchina del Console Vaticano per una sera e andare a rimorchiare ragazze?»
    Max lo guardò allibito, pensando che scherzasse, al che Castor scosse la testa.
    «Orion, a diciassette anni» confermò, serissimo, ricordando ogni singolo dettaglio di quel giorno, dal momento in cui il fratello lo aveva spintonato di lato per uscire di casa a quando il nonno era dovuto andare a recuperarlo alla stazione di polizia «pensava sarebbe stato divertente. Il Console un po' meno, visto che ne ha denunciato il furto».
    «Non riesco quasi ad immaginarlo…» esalò senza fiato, ricordando la figura seria del maggiore tra i fratelli O'Connell. Incredibile.
    «E non ti ho ancora raccontato di quando Clio ha incollato il suo disegno sul Goya – dicendo che così l'avrebbero ammirato meglio – oppure quando Orion si è spacciato per il nonno al telefono, per prenotare una vacanza a Rajasthan con il jet privato della famiglia. All'epoca aveva solo quindici anni».
    «Spero che Dom non diventi così!» borbottò angosciato – e sconcertato dalla ricchezza di quella famiglia. Goya? Jet? Rajasthan?
    Castor sembrò riflettere su qualcosa con una punta di divertimento.
    «Sai, invece io credo di somigliare abbastanza a tuo fratello Noah…»
    Max lo guardò interrogativo.
    «Voglio dire…» cercò di spiegarsi «anche io sono una specie di genio».
    A quell'affermazione scoppiarono a ridere e Castor tornò a sentirsi inspiegabilmente leggero. Era diventato così facile… e divertente. Perché non l'aveva mai fatto prima?
    Tornando a guardare Max che finiva il suo piatto, venne colto da un attacco di tenerezza.
    Era finalmente ovvio, il motivo per cui non l'aveva mai fatto prima. Prima non c'era stato Max.
    Sentendosi osservato, il moro arrossì, lasciandogli un'occhiata interrogativa a cui rispose con un sorriso.
    «Senti…» il primo riprese la parola, piegandosi leggermente in avanti sul tavolo «è vero che hai chiesto a tuo fratello di assumere Bach?»
    Castor si sentì inspiegabilmente  a disagio. O meglio, si sentì inaspettatamente a disagio.
    Non è che avesse proprio chiesto a Orion di assumere Bach… anche perché il fratello non lo avrebbe minimamente ascoltato. Diciamo che aveva più o meno amichevolmente messo se stesso e Bach sul piatto di una bilancia – lo stesso – e dall'altra parte il suo contributo esclusivo per un progetto per cui Orion lo arruffianava da mesi.
    In sostanza: Castor avrebbe preso parte attivamente all'apertura di una nuova serie di… di qualcosa, non aveva nemmeno letto tutto il contratto, a dire il vero, e Orion si sarebbe impegnato a dare almeno un colloquio a questo fantomatico ragazzo.
    Evidentemente, al fratello, questo Bach doveva essere piaciuto.
    In ogni caso, non poteva dirlo a Max. Non ancora almeno.
    «Non proprio» alzò le spalle per darsi un tono meno impegnato «ho solo detto a Orion che c'era una persona che avrebbe fatto al caso suo. Sta cercando un sostituto per la sua assistente che presto andrà in maternità».
    Nonostante il tono leggero, Max ebbe l'impressione che non gli stesse dicendo tutto, ma preferì sorvolare. Non voleva certo rovinare quel momento con un'inutile presa di posizioni. Era stato inaspettato il piacere derivante da quella semplice conversazione.
    Prima di quel momento non aveva mai avuto occasione di parlare a Castor per un periodo di tempo sufficientemente lungo – e qui arrossì – ed era definitivamente contento di aver dato retta a Bach sulla questione della seconda possibilità.
    «Grazie, comunque» ci tenne a dire.
    Il movimento della mano dell'altro poteva essere interpretato come a sminuire la cosa.
    «Non ho fatto niente. Mio fratello non è il tipo che si lascia influenzare. Se gli ha proposto il lavoro significa che gli è andato a genio. Niente di più».
    Niente di più? La punta di sconcerto di Max stava diventando sempre più ampia.
    Certo che aveva fatto molto di più!
    Aveva trovato un lavoro a Bach. E lo aveva inviato ad uscire. A lui, Max, non a Bach.
    Castor, un ragazzo che sembrava letteralmente vivere in un altro universo.
    Il silenzio scese nuovamente, mentre Max riponeva le posate e osservava l'altro finire il pasto.
    Non gli era sembrata una faccenda così complessa, quando l'aveva incontrato quella sera, nel locale. E nemmeno dopo.
    «Tu di cosa ti occupi?» chiese improvvisamente, spezzando il silenzio. Aveva bisogno di un qualche appiglio reale, terra terra, in quell'incontro fuori dalla realtà.
    «Scrivo, perlopiù» ammise l’altro, rigirandosi la forchetta tra le dita «romanzi» ci tenne a specificare «anche se un paio di volte ho dato il mio contributo al Daily News e The Sentinel».
    «Ma dai… sul serio?»
    Uno scrittore!?
    Un vero scrittore era lì davanti a lui a finire un'insalata di melone e… cos’altro c’era lì dentro?
    Per un attimo Max si sentì in preda al panico.
    Cioè, ricapitolando: lui, l’uomo che aveva davanti, era uno degli eredi del fiorente impero O’Connell, scrittore di libri – presumibilmente – di successo, sfacciatamente ricco e irritante oltre che fissato modaiolo, fratello dell’uomo a cui aveva promesso di spaccare la faccia e che aveva appena trovato lavoro al suo migliore amico.
    Aveva dimenticato qualcosa?
    Ah, già… era anche il primo – e unico – uomo con cui era andato a letto.
    Adesso sfidava chiunque a dire che non si trattasse di una situazione surreale.
    All’espressione sconcertata d Max, Castor aveva annuito.
    «Non so se li hai letti» alzò una mano per elencare «ho scritto Soul’s Color e Sleep of Hearts. Sono due thriller».
    Max scosse la testa. Non era esattamente il tipo che passava le serate a leggere.
    «Tra qualche mese dovrebbe uscire Morgue Phantom. Ma non sono ancora sicuro del titolo…» continuò allora, un minimo scoraggiato dalla mancanza di partecipazione da parte dell’altro.
    Max ricordò di aver letto qualche articolo a riguardo, la settimana precedente. Per caso, ovviamente, non perché di era messo a cercare su internet tutto quello che lo riguardava.
    Era tutta colpa di Google.
    E Castor.
    Era sempre colpa di Castor. Specie perché non riusciva a stargli troppo lontano.
    «In realtà non è che non mi piaccia leggere, ma sono senza speranza» ammise – non pensando alle informazioni rubate a internet «perché se mi siedo con un libro tendo ad addormentarmi».
    «Questo significa che se qualcuno leggesse per te, tu non ti addormenteresti?» rise Castor, scherzando.
    Quello a cui non era preparato, invece, fu l'espressione seria dell'altro.
    «Esatto».
    Un fremito gli percorse la spina dorsale, improvviso.
    «Se vuoi, posso leggerti qualcosa» si animò, guardandolo da sotto le ciglia, diviso tra l’eccitato e il timoroso «cioè… se vuoi…»
    A Max venne da ridere alla vista di quel comportamento infantile.
    «Se hai uno dei tuoi libri a portata di mano…»
    «Nessun problema!» esclamò allegro Castor, balzando in piedi «Sono certo che uno dei camerieri ne ha. Poco fa mi è sembrato sul punto di venire a chiedermi un autografo».
    Max scoppiò a ridere nel vederlo raggiungere l’altezzoso ragazzo che li aveva fatti accomodare e allungare la mano, presto riempita del peso di un volume e seguito da qualche occhiata adorante. Prima di tornare al tavolo con il libro – e la promessa di restituirlo al proprietario – vi appose una firma svolazzante tra le lusinghe del cameriere e le risate di qualche cliente.
    «È il mio secondo manoscritto» spiegò orgoglioso.
    Max annuì, sbirciando il titolo, scritto in lettere nere, semplici, su sfondo bianco e come unica decorazione una fiamma blu.
    «Anima e Corpo sono mescolati, ma non al punto tale che non sia possibile distinguere alcune operazioni di pertinenza della sola Anima da altre del solo Corpo» iniziò, prima esitante e poi sempre più convinto alla vista di Max che si accomodava meglio per seguire la trama, cominciando ben presto a gesticolare dall'entusiasmo «Ci sono volte in cui quello che ho sempre conosciuto, che mi ha fatto crescere, che mi ha reso l’essere che sono adesso, sembra toppo simile ad un sogno. O ad un incubo talmente bello da non desiderare di svegliarsi nel mezzo e, nel contempo, tanto effimero da crederlo una semplice fantasia. Talvolta, quando la neve cade e le strade sono deserte e gelate, mi ricordo tutto. E non posso fare niente per fuggire…»
    Aveva una voce calda e ipnotizzante.
    Max, rapito, non lo fermò prima di due ore.
 
 
Lo so, non ci sono scusanti (come sempre) per il mio ritardo.
Ehm…
Aiuterebbe sapere che in fondo, molto in fondo, mi sto lapidando per questa mia – recidiva – mancanza?
 
 
baci
NLH
  
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