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Autore: Misaki Ayuzawa    10/06/2014    3 recensioni
Questa è la storia di William Herondale, da quando è arrivato all'Istituto fino a ... beh, fino alla fine. Tenterò di descrivere al meglio gli episodi di cui già siamo a conoscenza sia quelli che invece sono avvolti nel mistero, o meglio: nella mente del personaggio più complesso di TID. Spero passiate a dare un'occhiata! :)
I:"I libri mi fanno credere che c’è chi sta peggio di me, anche se ammetto che consolarmi con le disavventure di personaggi immaginari non è esattamente una cosa da persone normali, non che io mi creda sano di mente, anzi sto valutando, ultimamente, la possibilità di farmi visitare da uno strizzacervelli mondano …"
V:"La cerimonia è conclusa e i Cacciatori, fino ad un momento fa silenziosi, si alzano in piedi e applaudono. Io, in questo momento, ho soltanto un pensiero che mi occupa la mente: non sono più solo."
X:"Mi tocco il viso, contrariato, e fisso il mio sguardo in quello di Jem.
“Questo” e faccio un ampio movimento con il braccio “non deve saperlo nessuno.”
Le persone che stanno passeggiando nel parco hanno preso guardarmi, mentre a grandi falcate mi dirigo verso l’Istituto. Quelle anatre me la pagheranno …"
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charlotte Branwell, Henry Branwell, James Carstairs, Jessamine Lovelace, William Herondale
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’Angelo

King’s Cross è gremita: bambini che si rincorrono accanto ai binari inseguiti dalle madri che, giustamente, temono che possano cadere ed essere travolti dai treni in arrivo(non sono affatto rari gli incidenti di questo genere); giovani coppie che partono per la luna di miele; gentiluomini in abiti comodi, la valigetta sotto braccio, pronti ad una giornata di lavoro.

Nell’aria, l’odore è un misto di tabacco, profumo femminile e sudore. Più in là, scorgo Jem, che sta velocemente scortando Tessa dentro il treno, proteggendola da spintoni e colpi poco piacevoli di carrello.

Con un’espressione disgustata, e le narici invase dal puzzo del fattorino evidentemente ubriaco, consegno al suddetto i bagagli.
E’ a King’s Cross che sono arrivato a Londra, dopo aver preso il treno in Galles, circa cinque anni fa. E’ un viaggio che non potrò mai dimenticare: le montagne verdi che piano piano lasciavano spazio a colline più dolci, gli alberi quasi spogli, in vista dell’inverno, e qualche tenuta nobiliare, in lontananza. All’epoca, avevo portato con me soltanto una sacca di cuoio con dentro qualche libro, una borraccia piena d’acqua, uno spuntino e qualche sterlina, per pagare il viaggio.
Londra mi aveva fin da subito intimorito. Tutto era, tutto
è, così confusionario, frenetico. La gente passava senza neanche notarmi, senza chiedersi perché un ragazzino di dodici anni, da solo, fosse in lacrime e girovagasse per la stazione, e poi per le strade, tentando disperatamente di orientarsi con una vecchia mappa rubata dallo studio del padre. Solo una persona mi aveva fermato, durante il tragitto: un vecchio sporco in faccia con un berretto calcato sugli occhi. Con voce tremolante, mi chiedeva l’elemosina. Inutile nascondere che sono scappato, terrorizzata dall’idea che potesse trattarsi di un demone camuffato.
Chiudo dietro di noi lo sportello del treno che, meno di due secondi dopo, parte. E’ difficile trovare uno scomparto vuoto ma, dopo aver girato a vuoto per due vagoni, ne troviamo uno libero, e io e Jem ci sediamo accanto, mentre Tessa ha già il naso incollato al finestrino, sul sedile opposto. E’ fradicia di pioggia e il cappellino (che potrà anche abbinarsi splendidamente con la carnagione di Jessie, ma che su Tessa non sta affatto e continuo a non capire perché voglia rovinare la sua immagine con simili cappellini) non le è servito a ripararsi.
“Ti sei portata qualcosa da leggere in viaggio?” Domando con finta non curanza. E’ da ieri notte che non penso ad altro che a lei immersa in Vathek, ma lei risponde: “No. Ultimamente non mi è capitato nulla che mi ispirasse in modo particolare.” Contraggo la mascella. Eppure l’ho sentita ridere! Cosa devo fare, esattamente, per farmi perdonare? Ballare il tango con un’anatra? Baciare un’anatra? Farmi mordere da un’anatra nel-
Va bene, basta con le anatre. Con un brivido che mi attraversa la schiena, mi concentro sulla conversazione tra Jem e Tessa. Stanno parlando di campagne.
“Lo Yorkshire non ha niente di eccezionale.” Mi intrometto. “Colline e vallate, nessuna vera montagna come da noi in Galles.”
“Ti manca il Galles?” Mi chiede lei.
Ogni giorno.
“E cosa dovrebbe mancarmi? Le pecore e le canzoni? O quella ridicola lingua? Fe hoffwn i fod mor feddw, fyddai ddim yn cofio fy enw.” Il mio gallese è un po’ arrugginito, non parlandolo da molti anni, ma quella frase mi è rimasta impressa, da quando quel vecchio pastore l’aveva urlata per la casa, correndo come un pazzo. Era entrato nella nostra tenuta, prendendo la piccola Cecily, che allora aveva cinque anni, in braccio e sollevandola in aria, quasi fosse un aquilone. Papà aveva dovuto tramortire l’uomo con una bottiglia di brandy, prima di riuscire a liberarsene. Tuttora non capisco come abbia fatto un capraio ad entrare nella nostra tenuta …
“Che significa?” La voce di Tessa mi riscuote.
“Voglio ubriacarmi tanto da non ricordare più il mio nome.” Il capraio era stato accontentato. Qualche giorno dopo l’avevamo ritrovato in paese che girovagava senza meta, chiedendo a chiunque passasse se sapesse chi fosse.
“Non mi sembri molto patriottico. Non stavi ricordando le montagne?”
“Patriottico?” Sollevo il labbro in un ghigno. “Te lo dico io che cos’è patriottico. In onore del mio luogo di nascita, ho il drago gallese tatuato sul …”
Jem mi interrompe, un po’ turbato dalla mia voglia di
mostrarmi. “Sei di un umore incantevole, William.”

“Allora, James? Che ne pensi?”
Me ne sto accucciato sul letto di Jem, le gambe al petto e il mento sulle ginocchia, mentre lui si sta sciacquando nella penombra della stanza dell’Istituto di York (algida e monacale) prima di mettersi addosso gli indumenti per andare a dormire. Ha profonde occhiaie intorno agli occhi e, nonostante non ne faccia parola, è ovvio che il viaggio lo ha stremato.
“Penso che Starkweather abbia terrorizzato Tessa, con tutte quelle spoglie.” Strabuzzo gli occhi.
“Sì, su questo non c’è dubbio –era meno spaventata, quando l’ho trovata nella Casa Oscura, in effetti- ma non stavo parlando di Tessa. Mi riferivo a Mortmain.”
Jem si passa una mano bagnata sul volto. Decine di goccioline gli imperlano ciglia e sopracciglia, fino a colare lungo le guance, come lacrime,
“Direi che, talvolta, l’Enclave se le cerca. E che è una fortuna che oggi esistano gli Accordi, per quanto fragili.” Termina la frase sottovoce.
“L’Enclave si crede indistruttibile. E al di sopra di tutto.” Assento. “Persino al di sopra dei suoi stessi membri.” Penso al modo orribile in cui il Consiglio ha trattato Charlotte.
Cala il silenzio mentre, con metodici gesti, Jem prende una stecchetta di legno e, dopo averla immersa nella scatola dello yin fen, inala la polvere argentata che si è depositata sulla superficie.
Nei primi tempi, Jem voleva rimanere da solo, mentre assumeva la droga. Si sentiva ripugnante, niente meno di un oppiomane; ma già dal primo giorno in cui siamo stati uniti dalla cerimonia parabatai, gli ho imposto la mia presenza. “Dove andrai tu, andrò anche io.” Gli avevo ricordato, e lui mi aveva invitato a non prendere il giuramento così alla lettera.
“William, mi piacerebbe continuare a parlare, ma domani dobbiamo andare a Ravenscar Manor e io …” io suoi occhi terminano la frase per lui: non mi sento affatto bene. Mi alzo in piedi e gli stringo una spalla.
“Non fare brutti sogni, o sarò costretto a cantarti una ninna nanna.” Ghigno, in una rozza imitazione del già abbastanza rozzo Starkweather.
“Dormi, bambino
al demone rompo il canino.
Squartiamo e sbudelliamo
finchè non torna il mattino-”
“Buonanotte, William.”
Mi chiudo la porta alle spalle.

L’aria notturna di York è fresca. Dietro di me, la semplice chiesa che ospita l’Istituto appare come un rudere.
Sono venuto a York, una volta, con la mia famiglia. E’ stato molto tempo fa e non ricordo bene l’intere gita, ricordo però la felicità di quei momenti. Mamma e papà, ancora abbastanza giovani da non curarsi della gente che li guardava, mentre si baciavano teneramente per le strade acciottolate. Cecily che per fare qualche passo ci metteva tutta l’attenzione possibile e che, quando falliva miseramente, non piangeva mai, e di questo bisognava dargliene atto. Infine, Ella. Ella, la versione femminile di papà, badava a Cecily e cercava di tenermi sotto controllo, nonostante scorrazzassi di qua e di là, alla ricerca del luogo dove si sarebbe dovuta tenere la conferenza di Lewis Carroll, di cui avevo letto sulle pagine di un giornale.
“Sei morto per caso?”
Una vocina esile interrompe il flusso di ricordi. Abbasso lo sguardo, perché intorno a me non c’è nessuno, ma, seduta ai miei piedi, c’è la figura di una bambina. La manina aggrappata al mio soprabito e i contorni traslucidi.
“No. Ancora no.”
“Stai morendo?”
“Non che io sappia.”
“Peccato.” Borbotta.
Tento di ignorarla e faccio per andarmene, ma il mio senso civico mi impedisce di piantare in asso un fantasma in difficoltà.
“Hai bisogno di aiuto?” Mi inginocchio di fronte a lei, tentando di apparire affidabile. Non capisco come possa una bambina di sei, sette anni ad essere diventata un fantasma. Insomma, come fai ad avere questioni in sospeso, a sei, sette anni?”
“Sono sola. Non trova papà.” Piagnucola e gli occhi completamenti bianchi vengono parzialmente coperti dalla palpebre socchiuse, il viso improvvisamente impaurito.
“E’ morto anche lui?” L’espressione della bambina si tramuta nuovamente. Un ghigno, e la figura prende un aspetto completamente diverso: il mio.
Mi alzo di scatto, scansando un pugno.
“E io che pensavo di poter trascorrere una serata tranquilla!” Sbotto.
“E io che pensavo di poter trascorre una serata tranquilla!” Mi imita il demone.
Corro veloce dietro un carretto e recupero una spada angelica dalla tasca. Per fortuna ne tengo una in ogni capo di vestiario.
Rinforzando la stretta, corro fuori dal nascondiglio, ma la strada e vuota. Un sibilo.
“Aihel!” Evoco. Prendo l’Eidolon di sorpresa e, sempre con il mio aspetto (quanto mi ripugna, questa cosa), si accascia a terra, la lama angelica affondata nello stomaco fino all’elsa. Infine sparisce, rimandato nell’inferno da cui proviene.
Mi sembra ovvio che Starkweather non stia facendo un buon lavoro, come direttore dell’Istituto, ed è altrettanto evidente che l’Enclave stia aspettando che tiri le cuoia, per sostituirlo.

Il pendolo del corridoio segna la Mezzanotte. Mi avvio verso la camera assegnatami ma la mia attenzione viene rivolta verso un’altra stanza, dalla quale provengono delle deboli grida.
Lì dentro c’è Tessa, e non ci penso due volte, il cuore in gola che galoppa forsennato, prima di spalancare la porta e apprestarmi accanto al letto. Si gira e rigira sotto le coperte, come se fosse posseduta, e il sudore le imperla la fronte.
“Tess. Tess, stai sognando. Sveglati, svegliati …” Le sussurro, il battito più regolare, ora che ho la certezza che non c’è nulla che la minacci.
Si mette piano a sedere, gli occhi spalancati. Credo che in un primo momento non si renda veramente conto della mia presenza. Mi guarda, ma non mi vede. Poi, finalmente, sussurra: “Will …”
“Che cosa hai sognato?” Domando, mantenendo un tono di voce basso.
“Ho sognato che venivo smontata.” Indugia, come per riprendere fiato. “Che i miei pezzi venivano esposti alle risa dei Cacciatori.”
“Tess … Dio maledica quel demonio di Starkweather per averti mostrato quella roba, ma sappi che non è più così. Gli Accordi hanno vietato la memoria delle spoglie. E’ stato solo un sogno.” Le sistemo le ciocche sfuggite dalla treccia dietro un orecchio.
Tessa mi guarda meglio, esaminandomi con la lucidità che si può avere solo dopo che ti sei svegliato velocemente. “Dove sei stato?”
Penso all’Eidolon che ha preso il mio aspetto … alla bambina in cui si era trasformato … Sono stato proprio uno stupido a non accorgermi del pericolo.
“A fare il ragazzaccio. Come sempre.”
La invito a tornare a dormire, ma lei è ancora scossa. Non le posso dare torto, questo posto mette i brividi.
“Non lascerei che ti toccassero un solo capello. Lo sai, non è vero?”
Avvicino il volto al suo. Non stiamo così vicino da settimane, settimane in cui ho rischiato di diventare più matto di Starkweather. Sto per baciarla, ma lei si scosta e il mio sembra il bacio sulla guancia di un bambino imbranato. Perché quando Tessa è nelle vicinanze, improvvisamente io divento incapace di comportarmi normalmente? Qual è il mio problema?
“No … Non lo so, Will … Hai chiarito molto bene cosa sarei per te. Mi consideri un giocattolo con cui divertirti. Non saresti dovuto venire qui, non sta bene.”
Rimango a corto di parole. “Hai gridato …” biascico. Lo stomaco stretto in una morsa.
“Ti penti di quanto hai detto quella notte sul tetto? Puoi sostenere che non intendevi quanto hai detto?”
Distolgo lo sguardo dai suoi occhi. Rischierei di vuotare il sacco, se non lo facessi.
“No, l’Angelo mi perdoni, non posso.”
“Ti prego vattene.” Le trema la voce.
“Tessa …”
“Ti prego.”
Questa, decisamente, non è la mia giornata.

  
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