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Autore: Francine    13/06/2014    4 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Aldebaran. Milo
 
e arrivare in capo al mondo 
e alle stelle che non hai 
ma siamo storie di un secondo 
di chi non ha vinto mai 
 
 

Una bella mattina – o una brutta mattina,  a seconda del punto di vista – Adriano Souza da Lima si era svegliato con la testa sudata e pesante. Molto pesante. Aveva pensato fosse colpa dell’afa e del caldo assurdo delle colline dell’Attica, un clima umido e persistente che per lui, paulista di Paraisópolis, era impossibile concepire, abituato alla mitezza del suo paese.
Così Adriano si era alzato, ignorando lo sguardo curioso che i suoi compagni, ancora nei loro lettini, gli avevano rivolto. Ci era abituato. Gli altri non credevano possibile che un ragazzino come loro potesse essere così grande e così grosso, e quella mattina, con la testa gonfia come un pallone, quello era l’ultimo dei suoi problemi.
Aveva attraversato la camerata. La porta del bagno era aperta e lui l’aveva infilata, deciso a ficcare la testa sotto l’acqua e a lasciarcela per un bel pezzo, quando qualcosa aveva rallentato la sua andatura, strusciando contro gli stipiti di legno scrostato della porta.
Ma che?, si era chiesto, con un piede ancora nel mondo dei sogni e le palpebre a mezz’asta. E poi aveva capito. Si era visto, nello specchio tondo che pendeva storto sopra al lavabo, e aveva notato qualcosa attorno alla sua testa. Qualcosa di bianco. Di soffice. Di pesante. Il suo cuscino. Saldamente ancorato – incollato – alla sua chioma.


Non c’era stato verso di salvare i suoi capelli – lunghi e scurissimi, su cui tutte le sere passava l’olio di cocco che Zuleika gli faceva arrivare fino a quel villaggio sperduto tra le montagne. Il barbiere aveva preso le forbici e aveva iniziato a tagliare. Tutto. Zac, zac, zac. E ogni volta che le lame si chiudevano, lasciando cadere un’altra ciocca sul pavimento, lui tratteneva una lacrima. Di rabbia. Pura e cieca. Oh, il Sacerdote aveva deciso che tutti gli altri subissero la stessa umiliazione, colpevoli o innocenti che fossero; ma non era abbastanza. Non si era scoperto chi avesse avuto quella bella alzata d’ingegno, né qualcuno si era fatto avanti, nossignore. Adriano avrebbe gradito che accadesse, oh se l’avrebbe gradito. Così avrebbe scambiato due chiacchiere con il responsabile di quello scherzo atroce. E prima di scassargli tutte le ossa che aveva in corpo – tutte e duecentosessanta, dalla prima all’ultima – si sarebbe fatto spiegare perché avesse scelto proprio il suo di cuscino, tra quelli di tutti gli altri, su cui spargere tutta quella colla. Così, per sapere.
 

Aphrodite aveva strillato come una donnicciola mentre le forbici mietevano i suoi capelli, e le lacrime gli avevano inondato gli occhioni che a Zuleika sarebbero piaciuti tanto tanto. Zuleika che amava tanto i suoi capelli. Lui aveva pensato di tagliarseli, una volta toccato con mano quanto fossero pesanti gli allenamenti e quanto potesse essere assurdo e afoso il clima di Atene. Ma poi, quando aveva ricevuto il primo pacco da casa e aveva trovato l’olio, aveva deciso che no, non se li sarebbe tagliati. Per nulla al mondo.
L’unico a restare zitto e immobile, a non fiatare, a non protestare neppure con lo sguardo era stato Milo dello Scorpione. Si era seduto sulla sedia, quando era arrivato il suo turno, aveva stretto i pugni sulle ginocchia e aveva alzato la testa. E il sospetto che fosse stato lui, l’idiota che aveva sparso la colla sul suo cuscino come se dovesse riparare una barca, era nato in quel momento. Con la consapevolezza accecante del primo raggio di sole che fende le tenebre. Perché Milo aveva sostenuto lo sguardo di tutti, sfidandoli a ridere di lui, se ne avevano il coraggio; tutti, tranne il suo.
Adriano non aveva chiesto. Adriano aveva guardato quel ragazzino cambiare nel tempo. L’aveva visto arrabbiarsi e placarsi al soffio del vento. Ridere di tutto e tutti e anche di se stesso. Odiare ed amare con la stessa intensità. Con quel furore che solo la fame di vita ti può assicurare. L’aveva visto detestare cordialmente una persona fino a diventarne così amico, ma così amico da poterne essere considerato quasi come un fratello. O forse qualcosa di più.
Perché un fratello ha il tuo stesso sangue che gli scorre nelle vene. Ed è proprio quel sangue, quella vicinanza, a rendertelo speciale. Perché un fratello è una parte di te, una copia diversa, ma sostanzialmente simile, uscita dalla stessa matrice e con gli stessi ingredienti; qualcuno che, se i tuoi cromosomi si fossero mischiati diversamente, potresti essere tu.
Un amico, invece, è diverso.
Con un amico condividi l’anima. Lui non è come te. Lui può aver fatto – ha fatto – esperienze diverse ed è sicuramente uscito da un altro stampo e da un altro forno, ed è diverso da te, è un altro, pur se gli ingredienti che lo compongono sono gli stessi che tengono insieme te: acqua, aria, fuoco, terra e anima.
Un fratello lo scegli perché devi.
Un amico, perché lo vuoi.


Ed era stato davanti alla tomba dell’amico più caro che Milo avesse mai avuto, che Adriano era entrato in argomento.
«Sai», gli aveva detto accomodandosi accanto a lui, davanti alla lapide di Camus con una bella bottiglia di vino. Rosso, forte e corposo. Di quelli che se non stai attento ti mandano K.O. senza chiederti né permesso, né scusa, «niente e nessuno mi toglie dalla testa che quello scherzo idiota fosse destinato a lui, a Camus, e non a me. Quello della colla sul cuscino, dico.»
Aveva ignorato lo sguardo assassino di Milo che gli ringhiava di voler restare da solo sulla tomba dell’amico che aveva mandato all’inferno con le sue stesse mani. Perché avrebbe dovuto dargli retta? L’aria era ancora calda e placida, ed invitava a trattenersi fuori, la sera. Per bere qualcosa. E scambiarsi chiacchiere e verità sotto le stelle.


L’autunno, ad Atene, è una propaggine dell’estate, un terrazzo condonato che è troppo grande per poterlo chiamare balcone e troppo piccolo per essere una stanza vera e propria. Come quelli che spuntavano addosso alle case – come i funghi nel bosco dopo la pioggia – quando le famiglie si allargavano, accorpavano, moltiplicavano laggiù, a Paraisópolis, in Brasile. Dove non hai bisogno di essere un Santo per ammettere la tua sconfitta. E che cadere fa male, molto male. Specie se piombi giù da un piedistallo altissimo. Dove sei salito non sai neppure tu quando, né come, né perché. Ma da cui precipiti senza avere un appiglio, un paracadute, una mano che ti soccorra. Tastando la tua piccolezza. La tua fragilità. Ed aprendo gli occhi sul tappeto di cocci, sangue e anima che ti sei lasciato dietro. Per rincorrere il volo di una libellula lungo lo stagno.


«Il mio letto era di fronte al suo, all’epoca. Secondo da sinistra. Mentre quello di Camus era il secondo, sì. Ma da destra.»
Silenzio.
Milo era tornato a guardare la lapide. Come a chiederle consiglio, come se quel pezzo di marmo avesse potuto dirgli «Taci, per carità» o «Avanti, sputa il rospo, adesso puoi». Aveva capito che lui non se ne sarebbe andato a meno di non schiodarlo via di peso da quella terra smossa e umida. E non sarebbe stato facile. Non con l’umore di Milo sotto i tacchi e con la forza di volontà di una spugna di mare spiaggiata. E aveva ceduto. Accettando la bottiglia che l’altro gli stava porgendo.
«Chissà», aveva risposto. Sibillino. «Chi lo sa…»
E avevano bevuto. In un silenzio riempito dai rumori della notte, alla luce delle stelle. Aprendo la bocca solo per respirare e brindare. Levando alta la bottiglia. Ai caduti. Agli amici. Ai fratelli. Che il destino aveva separato da loro tanto, troppo presto. Ma che avrebbero rivisto, un giorno. Quando sarebbe scoccata la loro ora.
«Ci stanno aspettando. Io lo so. Io lo so», aveva detto Milo asciugandosi le labbra col dorso della mano, gli occhi lucidi per il pianto represso o per l’entusiasmo di Dioniso. O tutte e due le cose assieme. Gli aveva passato la bottiglia, oramai agli sgoccioli. Lui l’aveva osservata in controluce e si era sentito dire: «Beve la scolatura chi è bello di natura.».
Si erano scambiati uno sguardo di sottecchi. Un botta e risposta.
Un: «Mi stai prendendo in giro?», cui era seguito un ironico e strafottente:«Io? Non oserei mai!».
E avevano riso. Mezzi ubriachi, la schiena contro la terra e il viso a guardare il cielo ingemmato di stelle. Avevano riso di pancia, di cuore e di anima. Rompendo il silenzio del Kerameikos senza un reale motivo. Senza un perché. Con l’unico, egoistico desiderio di sentirsi vivi.
E Adriano, e forse anche Milo, aveva percepito che Camus si era unito a loro. Ridendo con discrezione, un sorriso appena accennato, come piaceva a lui. Facendo brillare le stelle della sua costellazione con lo stesso guizzo che gli attraversava, a volte, lo sguardo blu.
 

Ma tu guarda cosa mi viene in mente proprio adesso.

Il ghiaccio del Cocito è fatto di roccia, dura e incattivita. Romperlo non è facile, ma niente, a questo mondo, è indistruttibile. Neppure le loro armature.
Il sangue di Athena sta scorrendo. Piano, debole, quanto ne può uscire da un taglietto, o poco più. Lo percepisce scorrere attraverso quella terra maledetta. Dritto al cuore, come una canzone che ci accoglie mentre riemergiamo dal mondo dei sogni. E il suo, di sangue, sta ruggendo.
Milo si sveglia, la testa che sporge dal terreno. Ghiaccio. Attorno a sé, sui capelli, sulle ciglia scure. «Duro e nero dei peccati degli uomini», così ha detto Radamante quando li ha incassati in quel posto. Con le sue stesse mani. «Non sono un tuo compagno. Non sperare che sarà piacevole», ha sibilato la Viverna prima che tutto attorno a lui si spegnesse.
Ed è stato di parola. Piacevole non lo è. Affatto. Ma sono poche, le cose piacevoli a questo mondo. La risata di un bambino. L’abbraccio di una donna. Il pane appena uscito dal forno. Lo sciabordio delle onde. Il crepitio delle fiamme nel camino. Il suono della pioggia. Il rumore del pluriball che scoppia. Una bottiglia di vino condivisa con un amico in una sera d’autunno. Il sole che splende, attraverso le fronde dei limoni.
Questo è il bagaglio con cui affronterà l’Inferno. Perché Milo ha sempre saputo che no, non sarebbe finito nell’Elisio nemmeno per sbaglio, nemmeno per sogno.

Non dopo aver sparso tutto quel sangue per ordine del Sacerdote.


Eppure…
Eppure…
Eppure.


La speranza è l’ultima cosa ad abbandonare una persona. Vola via dopo che anche l’anima s’è incamminata per il suo ultimo viaggio. L’accompagna. Perché fare la strada da soli è brutto. Perché quando c’è qualcuno, accanto a te, che ti aiuta a sopportare la solitudine, il passo si fa più leggero e tutto assume contorni meno cupi. È come se un piccolo raggio di sole splendesse, ovunque e comunque. Anche all’Inferno.
Ed è un piccolo raggio di sole quello che Milo sta producendo adesso, in piedi sopra la buca in cui la Viverna l’ha rinchiuso.
«Ragazzi, sveglia!», dice a Mu ed Aiolia. Prima di lanciarsi contro il nemico. Che li sta caricando. Da solo, lo stolto. E lui aveva giusto bisogno di sgranchirsi un po’ e di liberare il suo aculeo, prima di mettersi in cammino.
Perché non è finita. Non è ancora finita. E non lo sarà fino a quando non si sarà riunito con gli altri Santi, e avrà spinto Athena oltre la morte. Dovesse spargere il suo stesso sangue per aprirle la strada, lui lo farà. E mentre la Cuspide Scarlatta affonda nel corpo del nemico una, due, tre, cinque, dieci, quindici volte, lo Scorpione riacquista colore. E pensa che quelle due mammolette dei suoi amici debbono spicciarsi ad uscire fuori dal ghiaccio del Cocito. Non sentono il cosmo di Shaka risplendere poco distante? Non sentono il sangue di Athena ruscellare sulla terra malata e scura dell’Inferno?
Sì che lo sentono. Devono solo capire che non sono morti, non ancora. Perché non possono permettersi questo lusso. Anche se sono stanchi, e la strada è tutta in salita. Anche se vorrebbero cedere alle dolci lusinghe del gelo e cadere in un sonno eterno. E viverli, i loro desideri. I loro ricordi. Sognare le risate dei bambini, la pelle di una donna, il sapore del vino, il profumo del pane, la luce del sole. Che splende, tra le fronde dei limoni.
«Hai finito di giocare?»
La voce di Aiolia è stanca. Non nasconde quella nota pesante, in sottofondo. Quella nota dura che gli gonfia il cuore, perché sa quello che lo aspetta e sa che davvero non sarà piacevole. Eppure sa di dover andare avanti. Fino in fondo. Fino alla fine. Fino in capo al mondo. Perché i loro compagni li stanno aspettando. Perché Athena li sta aspettando.
Presto sarà tutto finito. Presto raggiungerà Aiolos. Camus. Aldebaran. E forse, si dice Milo mettendosi in marcia coi suoi compagni d’arme – i suoi fratellisarà il caso di dirgli che a mettere la colla sul cuscino sono stato io. Anche se lui sa che Aldebaran l’ha sempre saputo. Ma sarà divertente lo stesso vedere lo sguardo del Toro brillare. E dirgli:«Avevo ragione!», prima che il gigante buono reclini indietro la testa e liberi una risata delle sue. Che risuoni forte, alta e chiara. E rimbalzi per tutto l’Inferno, fino a raggiungere Athena, ovunque lei si trovi. Che le dica di avere un altro pochino di pazienza.
Perché loro, i suoi Santi, stanno arrivando.
   
 
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