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Autore: Drunk on Love    14/06/2014    1 recensioni
"Non è una cosa che mi era capitata spesso: insomma, quante persone possono dire di avere di fronte la propria figlia illegittima, nata da una passione senza amore di una notte di quasi vent'anni prima?"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Slash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Premetto che è mezzanotte, che non l'ho riletta (e se ci sono errori di battitura mi scuso in anticipo), perché altrimenti non l'avrei pubblicata, e che niente di tutto questo è vero. E' tutto frutto della mia invenzione. Grazie a chi leggerà (se mai la leggerà qualcuno). Ora vado.



Lunedì 17 Giugno, ore 3:32 am. Los Angeles.

E' notte, ed è tardi. Dovrei essere già a casa, Perla e i bambini mi aspettano, ma proprio mentre giro l'angolo mi ritrovo a sbattere contro qualcosa.
Un palo? No, un palo non ha le braccia. Alzo lo sguardo.
"Buonasera" dice l'uomo che mi ha bloccato la strada. Socchiudo gli occhi per vedere meglio il suo viso a malapena illuminato da un lampione.
"Duff? Che ci fai qui?" gli chiedo, riconoscendo il mio vecchio amico e compagno di sbronze.
"Facciamo due passi" mi dice cingendomi le spalle con un braccio.
"A quest'ora?" 
"Non ti sei mai fatto problemi sugli orari."
Sbuffo e lo seguo; non mi lascierà in pace comunque.
Prendiamo un vialetto più illuminato, così da poterci guardare in faccia mentre parliamo.
"Cosa devi dirmi?" chiedo sbrigativo. Di solito non sono preoccupato, ma la faccia di Duff non promette nulla di buono.
Difatti, prima di parlare, sospira intesamente.
"C'è una persona che vuole incontrarti" taglia corto.
Lo vedo esitare.
"Quindi? Continua, non ti fermare" lo incito. Duff mi guarda e capisco da quello sguardo che non sarà una cosa piacevole.
"Quanti figli hai, Saul?" mi chiede. Lo guardo stranito.
"Due, Duff. Lo sai, che domande mi fai?" 
Sospira di nuovo.
"Duff, che hai?" gli chiedo toccandogli la fronte con una mano. Da quel gesto mi accorgo che è lievemente sudato.
"Tre" dice solo.
"Tre cosa?"
"Tre. Tu hai tre figli" dice, con lo sguardo basso.
Dopo qualche secondo di intontimento, comincio a ridere. Mi faccio una bella e grassa risata.
"Hai bevuto, per caso?" gli chiedo, continuando a ridacchiare come un idiota.
"Sono serio, e dovresti esserlo anche tu" capisco dal suo sguardo che è sincero e il sorriso abbandona il mio volto.
Ci fermiamo di colpo.
"Devo sedermi" dico, e senza aspettare di raggiungere una panchina mi accascio a terra.
Da quaggiù Duff sembra ancora più alto, ma la mia mente è troppo occupata a cercare di realizzare cosa mi sta accadendo per fare dello spirito.
"Tutto bene?" mi chiede.
"Tu come fai a saperlo?" gli chiedo di getto.
"Ho ricevuto una telefonata una settimana fa. Era lei. Mi ha detto che voleva vedere prima me" risponde a voce bassa.
"Lei? E' una femmina?" mi sembra così strano: London e Cash sono maschi, non ho mai pensato a come sarebbe stato avere una figlia femmina.
"Direi donna. Ha quasi venti anni" mi informa Duff. Finalmente mi alzo in piedi e lo guardo.
"Tu l'hai incontrata?" gli chiedo.
"Sì. Un paio di giorni fa, proprio qui a Los Angeles" risponde, guardadomi con un po' meno di preoccupazione; come se si fosse liberato di un grande peso.
"E com'è? Insomma, è alta, bassa, come ha i capelli? E gli occhi?" comincio a temperstarlo di domande: riecco la curiosità di un bambino che affiora.
"Calma: una cosa alla volta. I dettagli dopo, ora devo dirti una cosa importante" mi dice, ritornando serio.
"Spara."
"Come ti ho già detto, vuole incontrarti, ma non sapeva come fare: le ho dato il tuo numero e il tuo indirizzo, ma non so quando si farà viva.
Annuisco, pensieroso. Esito un momento prima di parlare, poi mi faccio coraggio.
"Ma è sicuro? Insomma... che sia mia figlia? Mica è una pazza psicopatica in cerca di qualcosa?" dico tutto d'un fiato.
"Credi che sarei qui se non fossi sicuro che questa è la verità? E poi ti dirò: ti somiglia molto, anche di carattere. E dice non volere niente, solo conoscerti" risponde sincero.
Annuisco di nuovo.
"Va bene. Grazie per essere venuto. Vuoi dormire da me stanotte?" gli chiedo, più per cortesia che per altro: sinceramente non ho molta voglia di avere gente intorno.
"No, grazie, devo tornare dalla mia famiglia: domani partiamo. Però ti accompagno a casa" risponde, quasi leggendo nei miei pensieri.
"D'accordo."

Mercoledì 19 Giugno, ore 5:27, Los Angeles.

Sono seduto ad un tavolino qualunque di un bar qualunque nel cuore di Los Angeles, sorseggiando il mio caffè e provando a farmi un'immagine della persona che a momenti incontrerò: mia figlia.
Duff mi ha detto che si chiama Paris. Ironia della sorte, mio figlio si chiama London.
Duff ha anche detto che era abbastanza alta -e qui non deve aver preso da me-, che aveva i miei stessi capelli, la pelle scura come la mia, forse anche un po' di più, e gli occhi di un azzurro limpido.
Sollevo lo sguardo su ogni cliente che entra nel bar e cerco di individuare colei che mi ha dato appuntamento. Ricordo ancora quella telefonata.

'Pronto?'
'Casa Hudson?'
'Sì, chi parla?'
'Mi chiamo Paris, vorrei parlare con il signor Saul Hudson.'
'Glielo chiamo subito.' Perla appoggiò il telefono e mi venne a chiamare.
'Al telefono c'è una certa Paris che ti cerca.'
Il bicchere d'acqua che stavo bevendo mi andò di traverso e cominciai a tossire. Mi sentii cascare il mondo addosso.
'Tutto bene?'
'Sì, ora vado.'
Non avevo detto niente a Perla; gliene avrei parlato dopo averla incontrata.
'Pronto?'
'Salve, io non sono Paris, sono una sua amica, ma mi ha chiesto di chiamarla e dirle di vedervi domani verso le cinque e mezza al bar ******.' non mi diede neanche il tempo di rispondere che riattaccò. Speravo davvero che fosse Paris, ma avrei dovuto aspettarmelo.
'Chi era?' mi chiese Perla.
'Nessuno, una fan, credo' mentii.


E ora eccomi qui, ad aspettare un fantasma.
Finisco il caffè e mi alzo, ma proprio in quel momento mi si avvicina una figura femminile e, senza proferire verbo, si siede sulla sedia di fronte a me.
Mi sento immobilizzato, incapace di muovere un muscolo. Non riesco a credere alla bellezza della ragazza che ho davanti. 
Duff aveva ragione, ha i miei stessi capelli. Folti, ricci e neri, ha una frangia che le copre gli occhi conornati di eyeliner.
Ecco, gli occhi: due diamanti. Sono di un azzurro talmente chiaro da essere meravigliosamente inquietante. 
Ha il naso leggermente all'insù e le labbra carnose decorate da un rossetto rosso ciliegia.
Ha la pelle più scura della mia e noto vari tatuaggi sulle braccia e uno sul collo.
Indossa una maglietta bianca a mezze maniche dei Guns 'N Roses, indossata con sfrontatezza e menefreghismo. Ha le maniche arrotolate e un nodo poco sotto il seno. Un paio di jeans neri strappati sulle ginocchia e varie cinture borchiate. 
Non mi fermo a guardare le scarpe.
"Ora che mi hai vista bene, puoi sederti" mi dice. 
Automaticamente mi siedo, ancora ammutolito.
Mi sento perso.
Non è una cosa che non mi era capitata spesso. Insomma, quante persone possono dire di trovarsi di fronte la propria figlia illegittima, frutto di una passione priva d'amore di una notte di 19 anni prima?
"Tu devi essere Paris" riesco a dire.
"Esattamente" mi risponde porgendomi la mano, decisamente troppo ornata da anelli e bracciali e tatuaggi.
La stringo debolmente.
"Ho la sensazione di averti già vista" dico quasi in un soffio.
"Infatti è così, ma nemmeno io sapevo ancora che tu...insomma, che fossi il mio padre biologico" risponde.
Padre biologico, che brutto termine.
"E quando ci siamo incontrati?" le chiedo per togliermi dalla testa quella parola.
"Circa quattro anni fa, ad un tuo concerto" mi risponde accendendosi una sigaretta.
Quindi fuma. Marlboro. Sì, è mia figlia.
"Quanti anni hai?" forse non è un granché come inizio, ma da qualcosa bisogna pur cominciare.
"Venti ad Agosto" mi risponde guardando fuori dalla vetrata accanto al nostro tavolino.
Annuisco e guardo anch'io fuori. C'è una domanda che mi preme farle, ma non vorrei essere troppo indiscreto. 
Indiscreto? Ma che diavolo sto dicendo? Sono Slash, per la miseria! Se non sono indiscreto io?
Eppure, mentre guardo la ragazza che ho di fronte mi sento senza forze, come se qualcuno mi avesse prosciugato tutta la sicurezza.
"Mia madre si chiama Stephanie, ma chissà quante Stephanie ti facevi, a quell'epoca. Sono nata ad Amsterdam, dove vivo tutt'ora, ma lei è francese. Era innamorata di Parigi e ha pensato bene di chiamare sua figlia come una città. Non è stata l'unica a quanto pare" conclude alludendo a London.
Per fortuna mi ha risparmiato l'imbarazzo di porre quella domanda, quindi passo alla prossima.
"Cosa fai per vivere? Hai un lavoro? Un fidanzato?" le chiedo, abbassando la voce all'ultima domanda.
"Faccio la bellerina. Hip-hop, sia chiaro. E no, non ho un fidanzato, ma se vuoi ti presento la mia ragazza, anche se ci hai già parlato a telefono" risponde ostentando uno sguardo di sfida.
Lo ammetto: non me l'aspettavo.
"Quindi quella di ieri era..."
"Si chiama Johanna. Suona la chitarra, sai? E' piuttosto brava" mi dice, spegnendo la sigaretta nel posacenere al centro del tavolino.
"Johanna. Potresti...sì, potresti farmela conoscere" propongo, non sapendo cosa altro dire.
"Lei ne sarebbe molto felice. Sai, ti adora. Questa maglietta è sua" mi avvisa indicandosi il petto "non sapevo cosa mettermi e lei mi ha dato questa."
"Vivete insieme?" le chiedo.
"No, ma è venuta qui a Los Angeles con me" risponde, guardandomi finalmente negli occhi.
Non ha più uno sguardo prepotente; oserei dire che è triste, o delusa.
"Tutto bene?" le chiedo. Sospira prima di rispondermi.
"Senti, non so nemmeno io perché sono qui. Forse credevo che guardandoti in faccia avrei visto un vigliacco che scappa dalla resposabilità di avere una figlia, come mi ha sempre detto mia madre, ma ora... non so che pensare. Ti guardo e mi accorgo che anche tu hai passato vent'anni della tua vita senza sapere niente, che non è colpa tua, che non sei scappato. E mi rendo conto che mia madre è solo una bugiarda."
"Ehy, ascoltami bene" le dico prendendole le mani con le mie. "Non puoi biasimare tua madre, anzi; guarda dal suo punto di vista: ero un tossicodipendente e ho passato gran parte della mia vita ubriaco. Che razza di padre avrei potuto essere? Probabilmente sarei scappato. Lei ha solo fatto ciò che riteneva giusto per te."
Vedo una lacrima riempirle l'occhio destro, ma capisco che la lascerà cadere. Non di fronte a me.
Abbassa lo sguardo e tira sù col naso.
Dopo qualche secondo di silenzio si alza in fretta e prende la borsa che aveva appoggiato sullo schienale della sedia.
"Che fai?" chiedo allarmato.
"Scusa, non sarei mai dovuta venire. Dimenticati di questo incontro e della mia esistenza. Devo andare" e senza aggiungere altro, scappa via.
Non mi ha nemmeno guardato un'ultima volta. 
Mi alzo e provo a seguirla, ma quando esco dal bar lei è già sparita. Come un fantasma. Un fantasma di un ricordo troppo lontano per ritornare a galla nella mia mente.
Nonostante spererò sempre di rivederla e sempre la cercerò fra la gente, in cuor mio so che non la rivedrò mai più.
Ho una figlia, una figlia che conosco solo di vista, ma è pur sempre mia figlia.
L'ho amata dal primo istante che l'ho visto e continuerò a farlo, così come ho amato London e Cash dal momento in cui sono nati ed esattamente come continuo ad amarli ora.

Io, Saul Hudson, in arte 'Slash', sono stato sposato due volte, ho avuto moltissime amanti, e ho tre figli.
 
  
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