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Autore: 1rebeccam    16/06/2014    12 recensioni
ULTIMO CAPITOLO scrisse all’inizio del foglio di word a lettere maiuscole, mosse il mouse e puntò il cursore sull’icona ‘centra’.
La scritta troneggiò al centro superiore del foglio virtuale.
Si sistemò per bene sulla poltrona di pelle e, sospirando, cominciò la fine del suo racconto.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Capitolo 37  
 

Il taxi correva. Si sporse dal sedile posteriore per guardare il contachilometri. La lancetta segnava i 140.
Uno strattone improvviso lo fece ricadere all’indietro e, mentre si guardava intorno per cercare di capire dove lo stesse portando, si chiese mentalmente il motivo di quella corsa sfrenata.
Non c’era traffico, non c’erano auto né davanti, né dietro a loro e la cosa strana era che non si vedeva altro che neve.
Bianco. Bianco e deserto ovunque.
Destra, sinistra, avanti e indietro… il nulla ricoperto di bianco!
Cercò di riprendere l’equilibrio, per sistemarsi meglio a sedere, ma avrebbe preferito accucciarsi a terra, tra i sedili, in modo da non guardare fuori dall’abitacolo. Quel bianco infinito gli toglieva il respiro.
Gli occhi impauriti si posarono per caso sullo specchietto retrovisore e lo sguardo freddo ed imperturbabile del tassista lo fulminò.
Deglutì a fatica, la gola era secca e la lingua impastata. Arsa. Il cuore pompava velocemente. Voleva scendere da quel taxi, ma non sapeva come fermarlo.
Cercò di parlare, ma le labbra sembravano incollate tra loro e provare ad aprirle con forza gli provocò dolore, come se la pelle potesse staccarsi e lasciargli in bocca il sapore terribile del sangue.
Non riuscì nemmeno a sollevare la mano. Era pesante. Se avesse avuto un mattone al posto delle dita, sarebbe stato più facile muoverla.
Corrucciò la fronte cercando di capire come uscire da quella strana situazione.
Perché era salito su quel taxi?
Perché non era andato a piedi, ovunque dovesse andare?
Strinse la mandibola, sentendo dolore anche per questo movimento.
Dove doveva andare?
Il taxi frenò di botto e lui si ritrovò catapultato in avanti, con la faccia ad un paio di centimetri dalla figura strana che guidava.
Sollevò lo sguardo incatenandolo a quello freddo del tassista, quando lui si girò.
La sua faccia era colorata e il suo naso sembrava una pallina da ping pong rossa. Anche i suoi occhi avevano lasciato il gelo per le fiamme dell’inferno. Rossi. Rossi come il fuoco.
Allargò la bocca in un sorriso, che si trasformò in una smorfia spaventosa, mostrò i denti aguzzi e la sua risata risuonò forte e limpida nell’auto. Rimbombò nelle sue orecchie ed il respiro gli si bloccò nella gola. Quella gola secca che non gli permise di emettere suono, mentre il clown si ingigantiva sempre di più, sovrastandolo e soffocandolo con tutta la sua grandezza.
 
Il silenzio torna improvviso quando la neve ghiacciata gli gela la faccia. E’ così fredda che gli provoca dolore. Si rende conto che il silenzio che credeva di percepire, è invece interrotto da un suono ovattato.
Possibile che quella risata infernale lo avesse reso sordo?
Cerca di concentrarsi, la neve è sparita. C’è solo il buio. E quel suono.
Il freddo della neve sul viso sparisce e, nonostante senta la pelle umida, si rende conto che quel gelo gli dava refrigerio e non dolore. Si concentra ancora una volta sul suono che diventa sempre più chiaro.
Una voce. Una voce femminile.
Non era su un taxi, non c’era neve intorno a lui e soprattutto niente clown.
Corruccia la fronte, stringe gli occhi e s’impone di aprirli, rendendosi conto che è appena riemerso da un incubo.
Trattiene ancora il respiro quando davanti si ritrova l’incredibile e odioso bianco delle pareti della stanza che lo circondano, candide come quella neve infinita, che dovrebbe portare pace al cuore e che invece lo ha terrorizzato. Grazie al cielo,  il clown terrificante è scomparso dalla sua mente, adesso sveglia.
-Signor Castle, cerchi di calmarsi e di respirare profondamente.-
Adesso la voce è limpida e comprensibile, vicinissima a lui che, con lo sguardo sfocato, ruota gli occhi alla sua sinistra e finalmente si ritrova a respirare.
-Edith!-
L’infermiera sorride a quel sussurro e gli passa ancora una volta un panno umido sul viso e sulla fronte.
La neve gelata…
Che sollievo quel fresco umido sulla pelle. Si sente bruciare e le tempie pulsano ad intermittenza.
-Beva un po’ d’acqua, ha le labbra secche.-
Gola secca ed arsa…
Ripercorre le ultime immagini del suo incubo, ma accantona subito l’idea di capire cos’altro ha sognato, rendendosi conto che è assetato come se non toccasse acqua da mesi. Beve lentamente, a piccoli sorsi. Nonostante la sete, la difficoltà ad inghiottire gli fa sfuggire l’acqua dalla bocca e si sente in imbarazzo, quando Edith gli asciuga le labbra ed il mento.
-Mi scusi, non riesco a mandarla giù.-
L’infermiera poggia il bicchiere sul comodino e sorride, scuotendo la testa, per fargli capire che non ha nulla di cui scusarsi.
-Che ore sono?-
Le chiede confuso. L’ultima cosa che ricorda è la mano di Kate stretta alla sua e il suo sorriso triste.
Si è addormentato senza rendersene conto e quando Edith gli risponde che sono da poco passate le 11.30, capisce che Kate è lontana da lui ormai da quasi cinque ore.
Cinque ore in meno…
Segue i movimenti di Edith, pronta per fargli un altro prelievo e sospira. Gira la testa e posa lo sguardo fuori dalla finestra. Il cielo è sempre grigio, ma non piove più.
-Ieri a mezzanotte era già di turno, non dovrebbe aver finito per oggi?-
Chiede soffermandosi a guardarla, mentre sistema la provetta piena di sangue su un vassoietto di acciaio lucido.
-Un po’ di straordinario non ha mai fatto male a nessuno.-
Gli risponde sempre con il sorriso sulle labbra.
-I bambini sono a scuola fino alle quattro e mio marito rientra solo stasera. Mi annoierei a casa, così sarò tutta sua ancora per qualche ora.-
Gli strizza l’occhio passandogli ancora il panno bagnato sulla faccia, per rinfrescarlo.
-Come si chiamano?-
La domanda di Castle la lascia un attimo perplessa.
-I suoi bambini, come si chiamano?-
Lei arrossisce per non aver capito subito la domanda. Sorride ancora e Castle si ritrova a pensare che ha un sorriso dolce, quasi materno anche verso di lui.
-Michelle ha 10 anni e Matthew 7 e sono due monelli.-
Risponde ridacchiando, facendo sorridere anche lui.
-Ma senza non potrebbe più vivere…-
Sussurra lui guardandola con gli occhi lucidi.
Edith glieli vede brillare quando li sposta verso la porta chiusa e si sente stringere il cuore.
-Sua figlia è qui fuori, insieme a sua madre. Sono rimaste con lei fino a poco fa, quando ho chiesto loro di uscire per il prelievo.-
Lui annuisce, senza guardarla.
-Devo aver dormito profondamente, perché non le ho sentite.-
-Tra un attimo rientreranno.-
Glielo dice per rassicurarlo, ma lui sente un dolore nelle viscere, che non ha nulla a che vedere con la sostanza che lo sta  uccidendo.
-Vorrei che non fossero qui…-
Sussurra di getto, senza pensare. Il suo cervello continua ad essere razionale su quello che sarebbe successo da lì in avanti e non sopporta di perdersi nel dolore della sua famiglia.
-Che sciocchezza! Sono dove devono stare.-
Gli risponde Edith, sorridendo ad una decina di centimetri dalla sua faccia.
Sono dove devono stare…
-Pochi minuti fa è arrivato anche suo padre.-
Rick solleva un sopracciglio guardandola a bocca aperta.
Mio padre?
Riesce a formulare la domanda solo nella sua testa perché la voce non ne vuole sapere di uscire e Edith annuisce, sempre sorridendo.
-Se mi posso permettere però, trovo che lei somigli tanto a sua madre.-
Lui sposta lo sguardo davanti a sé corrucciando la fronte.
-Si, lo penso anch’io!-
Le risponde increspando le labbra in un sorriso spontaneo. L’infermiera gli sistema la coperta sul braccio e, dopo aver preso la provetta, apre la porta per andarsene.
-Porto questa in laboratorio, ci vediamo più tardi signor Castle.-
-Grazie Edith!-
Per la seconda volta la ringrazia di cuore e per la seconda volta la vede arrossire.
Si gira per andarsene e il sorriso sulle sue labbra sparisce, cosa che non sfugge a Castle, che deglutisce pesantemente, sentendo un groppo che gli stringe la gola. Quello sguardo rattristato all’improvviso era per lui, per le sue condizioni, per la sua sorte.
Più tardi…
Sospira riportando lo sguardo fuori dalla finestra.
Sente la voce del dottor Travis chiederle qualcosa e Edith rispondere con un sussurro.
-La temperatura è salita ancora, dottore.-
 
 
Il dolore lo riportò in sè, muovere le palpebre lo fece gemere, perciò decise di aspettare un paio di secondi, prima di sollevarle.
Si portò la mano alla tempia, stringendo i denti, come se questo potesse allentare la morsa che sentiva alla testa, aprì gli occhi e si ritrovò a guardare un soffitto che conosceva, senza riuscire a ricordare perché fosse ancora lì.
Ricordava di essersi alzato di colpo, colto dalla paura e di essere corso per le strade fredde e buie.
Aggrottò la fronte e voltò lo sguardo verso la finestra. Il cielo era grigio e senza un barlume di sole, ma era giorno.
Come mai ricordava il buio e la sua corsa sfrenata in piena notte verso…
Corrucciò ancora di più la fronte… verso dove?
Cercò di alzarsi, facendo perno con le braccia contro il materasso, ma le sue povere ossa scricchiolarono e il dolore lo bloccò per un attimo.
Chiuse gli occhi e, sospirando, si rimise supino sul letto, cercando di fare mente locale e ricordarsi perché fosse di nuovo nella sua vecchia camera.
Non poteva aver sognato tutto. Era sicuro di essere corso via.
Si portò ancora una volta la mano alla tempia, che non la smetteva di pulsare violentemente. In quel momento si rese conto di avere le mani sporche di un miscuglio nero e rosso e, nello stesso momento sentì la puzza di fumo.
Si sollevò a sedere di colpo come la sera prima, come quando era stato preso dal panico per la consapevolezza di quello che poteva succedere.
Chiuse gli occhi e respirò piano per attutire il dolore che s’irradiò in tutto il corpo, a causa del movimento veloce ed improvviso e, nel buio della sua mente, si materializzò la sua mano che apriva la porta della casa del Professore. Ricordò la sua voce ingoiata dalla paura e i suoi occhi spalancati su quella lucetta rossa che lampeggiava insieme allo scalare dei numeri digitali.
Sette, sei, cinque…
Si era voltato di scatto, correndo più velocemente possibile, continuando mentalmente il conto alla rovescia, mentre il rimbombo del bip all’interno della casa preannunciava morte.
Quattro…
Si era voltato di scatto per correre via, consapevole che non sarebbe riuscito, in soli quattro secondi, a fermare il timer.
Tre…
Correva via per quello strano istinto di sopravvivenza che aveva portato il Professore a diventare complice del suo stesso assassino.
Due…
Nella sua testa il conto alla rovescia arrivò alla fine. Le gambe si fermarono di colpo tremando.
Uno…
Qualunque fosse stata la distanza da quella casa, ormai non aveva più nessuna importanza.
Zero…
L’onda d’urto lo aveva colpito e scaraventato all’indietro e l’unica cosa che era riuscito a sentire era stato il dolore.
Dolore nelle ossa, dolore nelle membra… dolore nel cuore.
Riaprì gli occhi e lasciò che lo sguardo vagasse fuori dalla finestra della sua stanza, perdendosi ancora nel ricordo del momento in cui si era svegliato in mezzo al fumo, alla cenere, alle fiamme a pochi passi da lui, al frastuono di sirene che sentiva ovattate per le orecchie ancora intontite dallo scoppio.
Si era guardato intorno spaesato, era riuscito a mettersi seduto a fatica e, con ancora più fatica si era messo in piedi, barcollando per un paio di passi. Si era passato la mano sull’occhio destro rendendosi conto che dalla tempia perdeva sangue.
Si trovava sul retro della casa, nascosto dalle macerie e dal buio, spezzato soltanto dalle fiamme sempre più alte.
Sentiva urlare, senza riuscire a capire le parole, così si era nascosto ad osservare con la speranza che, come lui, anche il Professore in un modo o nell’altro, si fosse salvato.
Spostò lo sguardo dalla finestra alla penombra della stanza davanti a lui quando sentì gli occhi umidi, si passò la mano sulla guancia e deglutì, tornando ancora indietro nel tempo, a quel camice bianco macchiato di sangue, a quella sagoma inerme ed immobile sotto la grande quercia che non aveva potuto proteggere il suo povero amico.
Strinse i pugni e le lacrime presero strada sulle guance, tracciando solchi chiari sulla fuliggine dell’esplosione.
Il Professore non era morto nello scoppio. Quel mostro lo aveva sgozzato come un animale.
Si ritrovò a singhiozzare come un bambino, gli stessi singhiozzi che lo avevano sorpreso davanti a quel corpo senza vita attorniato da gente sconosciuta. Le stesse lacrime che aveva continuato a versare, quando aveva visto la vittima di quel veleno atroce, accasciarsi a terra a pochi metri dalle fiamme.
Il suo corpo lo riportò alla realtà con uno spasmo alla schiena. Sospirò pesantemente guardandosi intorno in cerca della sua tracolla. Doveva avere ancora le ultime due dosi della sua medicina, quella salvezza che il Professore aveva tanto studiato e solo per lui.
Vide la borsa a terra, ai piedi del letto, scese con difficoltà, la aprì e prese una delle due fialette.
La strinse nelle mani e chiuse gli occhi…
Era riuscito a trascinarsi senza essere visto, erano tutti impegnati a spegnere le fiamme e a spostare macerie per accorgersi di lui. Si era incamminato verso casa… voleva solo tornare a casa e chiudere gli occhi…
Così si era ritrovato sul suo letto.
Bevve la medicina mischiando il suo sapore dolciastro a quello salino delle lacrime che continuavano a lavargli il viso, si portò al petto le mani strette sulla fialetta vuota, immaginando il Professore solo, in quella casa, ad aspettare la morte e, per la prima volta nella sua vita, si rese conto di che cosa volesse dire odiare.
Lo odiava!
Odiava quel mostro con tutte le sue forze. Odiava il modo in cui si era innalzato al posto di Dio.
Odiava il modo in cui non rispettava la vita in nessuna sua forma.
Odiava se stesso per non essere riuscito a mettere fine a tutto, prima ancora che cominciasse.
Si asciugò le lacrime con rabbia, guardò dentro la borsa l’ultima fialetta della sua cura miracolosa, la sfiorò con le dita sorridendo amaramente, pensando a quanto fosse felice il Professore quando aveva capito di avere trovato la cura per lenire le sue pene.
Sospirò e fece per richiudere la tracolla, quando notò quella busta da lettera bianca sul fondo.
Corrucciò la fronte, la prese e la rigirò tra le mani.
Gli si fermò il respiro quando lesse il suo nome sul retro, scritto con la calligrafia del Professore.
Sollevò il lembo della chiusura e con le mani tremanti perse il foglio ripiegato all’interno.
‘Abraham, mio buon amico…’


Angolo di Rebecca:

Riccardone che sogna il clown terrificante... brrrr!!!
Meno male che Edith è dolcissima con lui :D

Uhhhh... guarda chi si vede?! Abraham!!! Finalmente... anche se non è stato Ryan a darci notizie di lui (vero Virginia???)
e che ha trovato nella sua sacca?!


 
  
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