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Autore: Helena Kanbara    17/06/2014    2 recensioni
Dal Prologo:
‘‘Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio penultimo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla.
[...]
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.
Gli Stilinski.’’
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sceriffo Stilinsky, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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parachute
 
 

 
 
 
16. Buongiorno, raggio di sole.
 
 
Allison aveva deciso di ignorarmi. O meglio, di non parlarmi più. Per quanto potesse sembrar strana la cosa, era proprio così.
Stiles era diventato titolare nella squadra di lacrosse. Per sua grande gioia, la mia previsione si era rivelata giusta. Ed era assurdo perché a dire il vero io non avevo fatto proprio nulla.
Scott aveva baciato Lydia. Se avessi dovuto trovare un aggettivo per descriverlo, avrei scelto lunatico. Ma come biasimarlo data la luna piena?
Stiles aveva reagito davvero male alla cosa. E si era reso conto di quanto avessi ragione nel dire che il suo migliore amico fosse praticamente una persona diversa, quel giorno. Non mi ero sbagliata nemmeno su quello, purtroppo.
Derek era miracolosamente vivo. L’ennesimo avvenimento incredibile col quale mi ero ritrovata a dover fare i conti, senza che nemmeno lo volessi. D’altra parte, non ci avrei creduto finché non l’avessi visto coi miei occhi.
Altri due uomini erano stati uccisi. Beacon Hills stava sfiorando picchi di criminalità mai visti prima di allora, proprio al momento giusto. Io dal mio canto mi sentivo bloccata senza via d’uscita in quella buia cittadina.
Scott aveva intenzione di liberarsi dalla licantropia. Voleva farlo per se stesso, ma soprattutto per Allison. Era innamorato e per amore si sa, si farebbe di tutto.
Derek aveva affermato che la cosa fosse probabile una volta ucciso l’alpha. Semplice, no? Perlomeno potevamo contare sul suo aiuto.
Quello, a grandi linee, era il quadro completo. Il puzzle incasinato che andava man mano ricostruendosi sotto ai nostri occhi, sgranati sempre più per la sorpresa. Mancavano ancora parecchi tasselli, però, e me ne sarei resa conto molto presto. D’altra parte, non credevo che quello fosse il momento più adatto ad esami di coscienza vari.
Ancora col respiro corto e il cuore che mi batteva nel petto come un forsennato, schiacciai ulteriormente la schiena contro il sedile posteriore della Camaro nera di Derek. Era un’auto coi fiocchi e avevo pensato più di una volta di volerci fare un giro, ma mai avrei immaginato che ne avrei avuto l’occasione in quel modo. Non con Scott alla guida e Stiles accanto a lui, non con me che mi nascondevo nei sedili posteriori e non alle prese con un vero e proprio inseguimento.
«Ci ammazzeremo se continuiamo così!», sbottai all’improvviso, rivolta ad entrambi i ragazzi di fronte a me.
Non sapevo cosa esattamente ci avesse spinti in quell’ennesima missione suicida, forse il masochismo o semplicemente il talento innato che avevamo di ficcarci sempre nei guai, fatto sta che Kate Argent ci era alle calcagna mentre noi guidavamo la macchina di Derek per depistarla. E per farlo, c’era bisogno che sfiorassimo velocità inaudite.
«Se Scott non accelera ci ammazzerà la zia psicopatica di Allison, che credo sia anche peggio!», ribatté Stiles con un tono di voce innervosito almeno tanto quanto il mio, voltandosi velocemente a guardarmi.
Fece poi per riportare lo sguardo sulla strada mentre il suo migliore amico, alla guida, accelerava come da comando, ma i suoi occhi nocciola rimasero fissi dietro di sé e l’improvvisa sorpresa sul suo volto mi spinse a seguire il suo sguardo. Sempre stando attenta a non espormi troppo, mi voltai alle mie spalle e ciò che non vidi lasciò basita anche me.
«Dov’è finita?», mormorai, riferita alla strada deserta dietro di noi.
Dov’era andata Kate Argent? Perché di colpo aveva smesso d’inseguirci?
«Non c’è più», aggiunse Stiles con voce flebile, ancora preso a boccheggiare.
Scott sembrò capire tutto solo in quel momento.
«Cosa?», tuonò, alzando la voce forse un po’ troppo. «Kate non ci è più alle calcagna?».
Nessuno osò più pronunciare altro e mentre sia io che Stiles ce ne ritornavamo seduti composti, incrociai le gambe sul grande sedile posteriore che occupavo solo io e mi persi ad osservare Stiles. Senza nemmeno dire una parola, lo vidi tirar fuori un walkie-talkie collegato con la polizia e bastò quel semplice oggetto ad attirare di nuovo tutta la mia attenzione.
«A tutte le unità: il sospettato si dirige verso lo stabilimento siderurgico».
La voce metallica di Stephen mi riempì le orecchie e la consapevolezza di quanto avesse appena detto fece sì che i miei occhi si sgranassero incredibilmente. Sapevo fosse fuori per il suo turno di notte ma perché proprio alle prese con quella faccenda? Non volevo vederlo ancora una volta in pericolo ma purtroppo il suo lavoro sembrava pieno di nient’altro che quello, soprattutto negli ultimi tempi.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, comunque, bastò semplicemente che Scott sentisse quelle poche parole per fargli prendere la rincorsa verso lo stabilimento siderurgico in questione. Le vie desolate della periferia di Beacon Hills mi sfrecciavano a fianco senza che potessi osservarle per bene, e fu solo quando la Camaro sgommò violentemente sul pavimento in cemento dello stabilimento che mi permisi di buttar fuori un sospiro. Derek Hale era lì.
«Dentro!», gli ordinò velocemente Stiles, aprendo lo sportello dell’auto prima di catapultarsi nei sedili posteriori insieme a me.
Il volto di Derek si voltò immediatamente nella direzione di quella voce amica e fu solo in quel momento che vide la Camaro ferma ad aspettarlo. Non gli restò nient’altro da fare che prendere la rincorsa e, evitando i colpi di balestra di Chris Argent – che intravidi appostato in un punto alto e ben riparato della struttura, con un’espressione arcigna sul volto che cambiò per sempre il mio modo di guardarlo – si riparò all’interno dell’auto, chiudendosi lo sportello alle spalle ed autorizzando perciò Scott a scappare via un’altra volta ancora.
Non so dire se allora fu il silenzio a farla da padrone o se i ragazzi insieme a me trovarono chissà dove il coraggio di scambiarsi qualche parola, perché dal momento in cui la Camaro ricominciò a sfrecciare per le vie vuote di Beacon Hills presi a sentirmi proprio come quasi sempre, e cioè come una spettatrice impotente di fronte ad un film che sconvolgeva ogni minuto sempre di più. Difatti, non feci altro che osservare Derek attentamente, accertandomi del fatto che fosse davvero lì, vivo, insieme a me. Non riuscivo a crederci – come diavolo aveva fatto a salvarsi? – ma dovevo.
«Tu proprio non riesci a stare lontano dai guai!», osservò all’improvviso Scott, risvegliandomi dalla trance fitta di pensieri nella quale ero caduta nuovamente.
«Accidenti, era mio!».
A quell’affermazione, non potei far altro che aggrottare le sopracciglia. Di chi parlava? Ovviamente, la mia curiosità fu compensata da quella naturale e smodata di Stiles, che si sporse in avanti affinché il suo viso e quello di Derek si trovassero esattamente l’uno di fronte all’altro.
«Parli dell’alpha?», domandò, esaltato.
«Sì! Era davanti a me quand’è arrivata quella cavolo di polizia!», sbottò immediatamente il beta, facendo sì che io alzassi gli occhi al cielo – incredula – e Stiles liberasse uno sbuffo infastidito.
Parlare male della polizia al figlio di uno sceriffo e a me? Assurdo.
«Fanno soltanto il loro lavoro», lo rimbeccò difatti Stiles, tirandosi un po’ indietro.
Derek si limitò a fulminarlo con lo sguardo. Poi riprese a parlare.
«Certo», acconsentì, prima di riservare un’occhiata astiosa a Scott, ancora intento a guidare verso chissà dove. «Grazie a qualcuno che mi ha fatto diventare l’uomo più ricercato dell’intero stato!».
«Possiamo cambiare discorso, per favore?», pregò immediatamente McCall, infossando la testa nelle spalle e stringendo le mani attorno al volante in pelle. «Ho fatto uno stupido errore, lo so».
Fu solo quando mi resi conto di Derek e della risposta velenosa che avesse sulla punta della lingua che mi tirai seduta composta sul sedile e decisi di intervenire.
«Basta», sibilai, fulminando entrambi i ragazzi di fronte a me poco prima di sporgermi in avanti verso di loro. «Come hai fatto a trovare l’alpha?».
Quella mia domanda era rivolta ovviamente a Derek, che di tutta risposta mi ignorò bellamente – proprio come aveva fatto sin dall’inizio – e si voltò a guardare la strada di fronte a sé, con la maturità di un bambino dell’asilo. Feci per sbraitargli contro ma la mano di Stiles sul mio braccio mi trattenne e mi voltai a guardarlo mentre m’intimava in silenzio di lasciar stare e si sporgeva in avanti a sua volta.
«Puoi fidarti di noi almeno per mezzo secondo?», suggerì Scott, abbattuto.
«Puoi fidarti anche di me!», gli diede manforte Stiles, ma quando Derek lo fulminò nuovamente con uno sguardo spaventoso, cambiò versione. «O solo di lui, io mi limiterò a starmene buono qui».
Poi tornò seduto composto, di fianco a me, che gli nascosi un mezzo sorriso divertito. Lui e Derek prima o poi avrebbero fatto impazzire tutti, ne ero più che certa.
«L’ultima volta che ho parlato con mia sorella mi ha detto che aveva trovato due cose. La prima era un uomo di nome Harris», osservò Derek, arrendevole.
Quel cognome fece subito scattare qualcosa nella mia mente. Lo conoscevo, e anche troppo bene.
«Come», pigolai infatti, ma la mia domanda si interruppe quando la voce mi mancò. Mi schiarii la gola prima di continuare a parlare. «come il nostro insegnante di chimica?».
«No. Proprio lui», fui corretta.
«Il nostro insegnante di chimica?», urlò Stiles a quel punto, esterrefatto.
Le cose stavano prendendo una piega davvero incomprensibile. E mi chiesi se sul serio il pericolo fosse dentro scuola come sembrava.
«Perché lui?», chiese solo Scott, stranamente calmo.
«Ancora non lo so». 
«Cos’altro aveva trovato tua sorella?».
Derek si sollevò lievemente sul sedile anteriore della Camaro e pescò dalla tasca posteriore dei jeans un foglietto di carta ingiallita. Sopra se ne stava disegnato un simbolo piuttosto famigliare, e quando Derek ce lo mostrò sia io che Scott ci aprimmo in un: «Oh» sorpreso.
«Che vi prende?», domandò Derek, donandoci uno sguardo veloce e pieno di curiosità. «Sapete cos’è?».
«L’ho visto su un ciondolo», sospirò subito Scott, a voce talmente bassa che a malapena lo udimmo.
«Sul ciondolo di Allison», aggiunsi.
E mi bastò osservare lo sguardo di Derek puntato sul mio viso per capire che avremmo dovuto averlo a tutti i costi. 
 
Quando il forte rumore di qualcuno che si appoggiava di peso contro l’armadietto di fianco al mio mi arrivò alle orecchie, sobbalzai visibilmente e mi venne naturale trattenere il respiro. Col cuore che ancora aumentava i suoi battiti imprecai, sporgendomi poi oltre l’anta dell’armadietto quel poco che bastava a far entrare il mio interlocutore nell’area coperta dai miei occhi.
Feci per pronunciare il nome del ragazzo di fronte a me con una nota di astio malcelato nella voce, ma proprio il diretto interessato me lo impedì e a me non restò altro da fare che stringere tra le dita la copertina consunta del vecchio libro di economia che mi aveva prestato Stiles. Mi sarebbe servita molta pazienza se avevo intenzione di affrontare una conversazione con Jackson Whittemore di prima mattina ed uscirne indenne.
«Buongiorno, raggio di sole», osservò proprio lui candidamente, riservandomi un sorriso finto che diede la conferma a tutte le mie convinzioni.
«Va tutto bene?», non potei far altro che domandare, col viso malcelato dall’anta dell’armadietto che non avevo alcuna intenzione di chiudere.
Era la mia protezione, la mia corazza. Mai esporsi di fronte a Jackson, era quello il mio mantra.
«No. A dire il vero no».
Quelle quattro parole in croce fecero subito sì che il mio animo da crocerossina si attivasse, e mentre il viso mi si piegava in un’espressione contrita sentii la preoccupazione farsi largo in me. Portai le dita sottili sull’anta dell’armadietto e lo accostai, di modo che fossi più vicina a Jackson. Tuttavia, a metà strada mi fermai. Bastavano davvero due moine per farmi cedere? No.
«Posso aiutarti?», chiesi dunque, fingendo disinteresse assoluto e rifuggendo il viso di Jackson. 
«Sì. Eccome».
Una zaffata di profumo da uomo di ottima qualità mi riempì le narici e fu solo quella cosa a farmi capire quanto Jackson si fosse avvicinato a me. Mi venne naturale distogliere lo sguardo dal punto morto in cui l’avevo tenuto fisso pur di non osservarlo e voltare di scatto la testa nella sua direzione, trovandolo troppo vicino a me – tanto che indietreggiai di un passo, quasi intimorita.
«Facendo cosa?», mormorai, con la voce ridotta ad un sussurro.
«Mi basta sapere dov’è il tuo amichetto».
Aggrottai le sopracciglia. Poi, ancora una volta, distolsi lo sguardo dalle iridi chiarissime di Jackson e mi diedi un’occhiata intorno. I corridoi della Beacon Hills High School erano affollatissimi come al solito ma nessuno sembrava averci notato. E non sapevo se quella fosse una cosa positiva o meno.
«Stiles?», domandai, insospettita.
Perché Jackson voleva parlare con lui? Me lo chiesi prima di continuare.
«Non l’ho visto per niente, mi dispiace. Perché lo cerchi?».
Jackson sbuffò, a metà tra l’infastidito e il divertito. Poi alzò gli occhi al cielo e con aria estremamente annoiata cambiò posizione, poggiando una spalla contro l’armadietto e atteggiandosi – come suo solito – da gran figo. Io, di tutta risposta, avrei voluto semplicemente cavargli gli occhi fuori dalle orbite.
«Non cerco lui», osservò dopo poco, spiccio, facendo schioccare la lingua contro il palato. «A dire il vero, non saprei che farmene di Stiles».
Sputava veleno, letteralmente. E sentii la voglia di ucciderlo a mani nude aumentare dentro di me ogni secondo che passava un po’ di più. D’altra parte, però, cercai di trattenermi e dopo aver inspirato bruscamente, ripresi a parlare con le mani strette a pugno lungo i fianchi.
«Si può sapere cosa diavolo vuoi, allora?».
«Scott. Scott McCall. Dov’è?».
Il respiro mi si mozzò in gola. Che Jackson cercasse Stiles era strano, che cercasse Scott a dir poco preoccupante. I rapporti tra di loro non erano affatto dei migliori e ancora me le ricordavo bene le ripetute minacce che aveva osato rivolgergli. Gli aveva detto di sapere del suo “segreto” e quella mattina proprio non potei fare a meno di chiedermi se non avesse detto la verità per tutto il tempo.
«Si può sapere che succede? A me puoi parlarne», chiesi, fingendomi tranquilla e interessata ai problemi esistenziali di Jackson.
Quello era l’unico modo che avessi per capirne qualcosa: credevo che bastasse mostrarsi interessata e sfamare così l’immenso ego del ragazzo di fronte a me per farlo capitolare, ma scoprii ben presto di quanto lui fosse di gran lunga più furbo della sottoscritta.
«Non devo dire niente a te», borbottò infatti, cacciando fuori dell’altro veleno. Sembrava averne in quantità industriali. «Devo parlare con Scott».
«Perché?».
«Perché so cos’è».
E fu come se l’intero mondo mi crollasse addosso e tutte le mie speranze venissero spazzate via con un colpo violento. Tutte le mie sensazioni, ognuna di esse, si rivelarono ancora una volta dolorosamente esatte. Jackson sapeva e ci aveva tutti letteralmente in pugno.
Come se non bastasse, poi, bastò la mia reazione sconvolta a fargli acquistare punti. Con gli occhi persi sul suo viso osservai il sorriso che aveva messo su allargarsi a dismisura e l’ennesima brutta sensazione mi salì alla bocca dello stomaco, per essere poi confermata qualche secondo dopo.
«E a quanto pare lo sai anche tu. Perfetto», sibilò infatti, mentre avanzava verso di me con aria soddisfatta. «Allora possiamo anche parlarne».
Tutti i miei meccanismi di autodifesa si attivarono in un battito di ciglia, e indietreggiando col mento alto – fingendo un coraggio che non avevo – rifuggii ancora lo sguardo di Jackson e chiusi il mio armadietto con un tonfo, più che decisa ad andarmene. Non potevo più permettermi di portare avanti quella conversazione.
«Non vedo di cosa dovremmo parlare, io e te», osservai però ancora, con voce piena di acidità. «È evidente che non ci riusciamo».
E detto ciò feci per salutarlo con un’altra delle mie frecciatine prima di scappare letteralmente via dalla sua vista, ma purtroppo ogni mio tentativo di fuga fu arrestato dalla figura di Jackson, ormai più che incombente su di me. Ancora una volta, non potei fare a meno di sentirmi inerme.
«Non mi interessa conversare amabilmente con te, forse non ci siamo capiti», lo sentii dirmi, ad un passo dal mio viso, con una voce così tagliente che mi stupii di essere ancora tutta intera sotto i suoi occhi. Avevo paura. «Sappi solo che qualunque cosa abbia trasformato Scott in quello che è, la voglio».
«Credo tu abbia seri problemi».
«Per favore. Non fare la finta tonta con me. Cos’è stato? Un morso? Un graffio?».
Raddrizzai di scatto la schiena, socchiudendo gli occhi per fissare Jackson attentamente. Come diavolo faceva a saperne – inconsapevolmente – così tanto?
«Perché mai dovremmo aiutarti?», domandai poi, quando ebbi raccolto coraggio e voce sufficienti a parlare in maniera abbastanza decisa da non mostrarmi terrorizzata come in realtà ero.
Jackson di tutta risposta sorrise nuovamente, scoprendo una fila di denti bianchissimi mentre scuoteva la testa, ancora fintamente divertito. Solo quando ebbe finito portò gli occhi chiari di nuovo nei miei e si avvicinò a me ulteriormente, investendomi col suo buon profumo.
«Perché non credo vogliate che anche Allison venga a conoscenza di tutta questa storia. O sbaglio?».
E detto ciò se ne andò, lasciandomi sola e libera di buttar fuori il respiro che avevo trattenuto fino a quel momento. Pur non volendo mi voltai a seguirlo con lo sguardo, individuandolo mentre si avvicinava con passo felino proprio ad Allison, posandole una mano sulla spalla con fare lascivo e donandole un sorriso falso in segno di saluto. Pensai che lei avrebbe capito subito quali fossero le vere intenzioni di Jackson ma al contrario, la osservai ricambiare il suo sorriso come se niente fosse e scambiare con lui ulteriori convenevoli. Sembravano proprio amici di vecchia data e mentre prendevo a correre il più lontano possibile da quella scena, non potei far altro che ripetermi quanto davvero fossimo nei guai.
 
Non appena fu arrivato l’orario di pranzo, l’unica cosa che feci fu sgattaiolare fuori dalla classe di inglese per catapultarmi nella caffetteria già affollata. Camminai a testa bassa, evitando lo sguardo di tutti e ripetendomi solo di dover pensare a cercare Stiles e Scott. Non appena li vidi, infatti, seduti insieme ad un grande tavolo pressoché vuoto, non feci altro che prendere la rincorsa nella loro direzione. Fu solo quando arrivai da loro e mi sedetti di fronte a Scott che mi concessi di parlare.
«Siamo in guai seri», spiegai, evitando convenevoli inutili ed utilizzando un tono di voce serissimo. 
«Buongiorno, raggio di sole», fu la risposta di Stiles, che alzò gli occhi al cielo poco tempo dopo, seguito da me. «Che bello vedere che porti con te sempre buone notizie».
Cosa avevano tutti quel giorno? Me lo chiesi mentre gli lanciavo un’occhiata truce, poco prima di sibilare:
«Non chiamarmi mai più in quel modo».
Lui di tutta risposta borbottò uno: «Scusa» innervosito che sentii a malapena, perché decisi di evitare litigi inutili e di calmarmi mentre puntavo i miei occhi in quelli di Scott, seduto di fronte a me.
«Cos’è successo stavolta?», lo sentii chiedermi, quando notò il mio sguardo.
«Jackson. Sa tutto. E vuole essere trasformato».
«Come cavolo l’ha scoperto?», urlò Stiles, sgranando gli occhi e attirando su di sé l’attenzione di alcuni studenti nelle vicinanze.
Lo ammonii ancora con lo sguardo, intimandogli di fare silenzio. L’attenzione non era mai abbastanza.
«Non ne ho idea», soffiai poi dopo qualche attimo, puntando gli occhi sulla superificie grigia del tavolo che presi a sfiorare nervosamente con le dita.
«Magnifico. Okay, manteniamo la calma. Cosa ti ha detto esattamente?», continuò Stiles, cauto come gli avevo “suggerito” di essere.
«Voleva parlare con Scott», esalai, rivolgendo uno sguardo al diretto interessato che se ne stava chiuso in un silenzio religioso. «Perché sa cos’è, testuali parole. E la mia reazione sconvolta gli ha fatto capire che lo so anch’io, perciò gli è andato bene recapitare il messaggio direttamente a me».
«Ma l’ha detta la parola magica?».
A quell’ennesima domanda non potei far altro che rispondere con le sopracciglia aggrottate. Comprendendo bene la mia confusione, Stiles decise subito di spiegarsi, senza nascondere un pizzico di agitazione.
«Licantropo, Harry!», esclamò, provando a tenere un tono di voce basso con scarsi risultati. «Ha detto: “So che Scott è un licantropo”?».
Solo allora mi resi conto di non aver pensato a quel lato della cosa. Cercai di rivedere nella mia mente tutta la scena e dopo un’attenta analisi giunsi alla conclusione che no: Jackson non aveva mai pronunciato la parola magica. Che stesse solo bluffando?
«No», affermai allora, poco prima di riprendere a parlare col viso nascosto dalle mani e dai boccoli scuri e disordinati. «Ma sapeva del morso e ne vuole uno per sé! Ho avuto davvero paura».
I deboli rumori che avvertii subito dopo mi fecero subito capire che Stiles si stesse sporgendo verso di me ed ebbi la conferma della cosa quando le sue dita mi sfiorarono il braccio dolcemente. A quel punto fu inevitabile per me rispondere al suo “richiamo” e scoprendomi il viso, puntai i miei occhi nei suoi.
«Ti ha fatto qualcosa?».
«Nulla, fisicamente parlando. Ma è un maestro della violenza psicologica».
Quando ebbi finito di parlare, Stiles indietreggiò fino a sedersi di nuovo in maniera composta ed io mi scoprii il viso del tutto, osservandolo mentre sbuffava infastidito e faceva aderire la schiena alla sedia in plastica blu.
«Non so voi ma io proporrei di fissargli sul serio un appuntamento con l’alpha», spiegò all’improvviso, facendo sì che sia io che Scott sgranassimo gli occhi in risposta. «Magari lo uccide».
Mi fu impossibile trattenere un sorriso e scuotendo la testa, distolsi lo sguardo da Stiles mentre sentivo un vago senso di pace e tranquillità ritornare dentro me. Cos’avrei fatto senza di lui?
«D’accordo, time out», dichiarò poi Scott, parlando di nuovo dopo quelli che erano sembrati secoli. «Un problema alla volta. Prima la cura».
«E il ciondolo».
«Lo prenderò io».
Mi proposi subito, senza nemmeno pensarci un po’ su. Quell’idea mi stava girando in testa già da un bel po’ di tempo e sapevo toccasse a me, quella volta, essere d’aiuto agli altri. Non sarebbe stato facile dal momento che i miei rapporti con Allison non erano proprio al massimo, in quel periodo, ma certamente avrei fatto di tutto per rendermi utile.
«Ma non vi parlate», mi fece notare subito Stiles, in un sussurro.
«Troverò un modo».
Feci spallucce: ero convinta di potercela fare. Bastava solo molta nonchalance e un po’ di cautela – anche se quella, in effetti, non mancava mai. Scott mi fece notare che non sarebbe stato facile e Stiles mi consigliò di chiedere la collana solo in prestito, suggerimento in risposta al quale non potei far altro che annuire.
«Se si rifiuta, ho già un piano B», li rassicurai ulteriormente, ricevendo in risposta due sorrisi soddisfatti.
Il piano B, per inciso, prevedeva di rubare la collana di Allison. Come si dice? A mali estremi, estremi rimedi.
«Controllalo all’interno. Cerca ogni indizio utile», consigliò ancora Stiles, mentre io mi mettevo in piedi.
Era ora di andar via.
«Lasciate fare a me».
«Harry?».
Quando la voce di Scott mi riempì le orecchie, arrestai la mia camminata verso l’esterno della caffetteria e mi voltai a guardarlo un’altra volta ancora, incitandolo a parlare con un mugugno distratto.
«La mia vita è letteralmente nelle tue mani».
E allora sorrisi, annuendo ancora per fargli capire quanto mi rendessi conto della cosa prima di andar via definitivamente, con la convinzione che sia lui che Stiles si fidassero di me almeno tanto quanto io mi fidavo di loro. E credetemi, non poteva esserci soddisfazione migliore.
 
«Non ci posso credere, non ci posso credere!».
Ripetevo quelle quattro parole da ormai così tanto tempo che mi stupivo di come Stiles ancora non mi avesse uccisa con le sue stesse mani. Il piano A da me ideato per recuparare il ciondolo di Allison era fallito miseramente, così come il B e tutti quelli che avevo cercato di mettere in atto a seguire. Quella dannatissima collana sembrava essersi improvvisamente volatilizzata nel nulla e non potevo far altro che sentirmi infastidita dalla cosa e più inutile che mai. L’unico modo che avessi per sfogarmi era strillare, il che era esattamente ciò che stavo facendo da tempo immemore. Come diavolo faceva Stiles a sopportarmi ancora?
«Da quando Kate gliel’ha regalato quel maledetto ciondolo è stato di fronte ai miei occhi in ogni momento e ora che ci serve non lo si trova! È assurdo!», aggiunsi ancora, evitando di ripetermi e procurare un esaurimento nervoso a Stiles, ancora armato di pazienza.
Dopo quella mia ennesima lamentela tra noi due cadde il silenzio e mi limitai a schioccare la lingua contro il palato mentre lo seguivo in direzione della porta di casa. Nonostante il mese di ottobre quel pomeriggio l’aria era piacevolmente calda e un timido sole ancora faceva capolino da dietro le nuvole. Sospirai, cercando di calmarmi. Inutilmente.
«Hai controllato bene nella borsa?», domandò Stiles tranquillo, senza nemmeno voltarsi a guardarmi ma continuando a trafficare con la serratura.
«L’ho letteralmente messa sottosopra», rassicurai. «Non era lì».
«E non hai potuto parlare con Allison e chiederglielo».
«Non me ne ha lasciato occasione», spiegai, entrando in casa e posando immediatamente lo zaino sul pavimento.
Stiles si chiuse in un silenzio innaturale mentre io avanzavo in direzione della mia camera. Mi liberai dal giubbotto di pelle nera e diedi una sistemata alla gonna del vestito bianco a fiori grigi prima di raggiungerlo nuovamente, chiedendomi perché ci fosse così tanto silenzio in casa. Stephen dov’era?
«Mi sento davvero inutile», mormorai, quando ebbi trovato Stiles in salotto, rifuggendo però il suo sguardo.
Lui di tutta risposta lasciò perdere lo zaino in cui stava rovistando alla ricerca di chissà che e si voltò di scatto a guardarmi. Forse, non riuscendo a trovare i miei occhi, decise di raggiungermi. Solo quando fu vicino a me abbastanza da potermi sfiorare le spalle, parlò.
«La vuoi smettere?», chiese, lievemente spazientito mentre le sue mani si muovevano alla base dei miei capelli e poi sul collo, di modo che riuscisse a farmi sollevare la testa. Cosa che in effetti feci immediatamente. «Non sei inutile».
A stento mi trattenni dall’annuire, in accordo con lui. Come diavolo faceva a parlare e a farmi credere ad ogni cosa che diceva? Era assurdo.
«Senza di te non so come avremmo fatto. Risolveremo anche questo problema», continuò poi a dire, sempre tenendomi il viso tra le mani mentre io trattenevo un sorriso. «Anzi, sai cosa? Adesso ci mettiamo in camera mia a fare ricerche. Qualcosa dovremo pur trovare, no?».
A quel punto annuii per davvero, sollevata. Stiles mi sorrise prima di lasciarmi andare ed io lo seguii verso la sua stanza da letto, se non per arrestarmi a metà strada quando sentii la porta sul retro sbattere violentemente contro i cardini. Feci per spaventarmi, salvo rendermi poi conto del fatto che fosse rientrato Stephen.
«Ehi, ragazzi!», lo sentii salutarci a voce alta. «Sono tornato!».
Stiles non arrestò la sua camminata, rispondendo al saluto con un semplice: «Ciao, papà» mentre entrava nella sua camera, seguito da me.
Anch’io feci per ricambiare il saluto di Stephen ma invano. Nel momento in cui misi piede nella cameretta di Stiles, infatti, solo il nome del ragazzo di fronte ai miei occhi abbandonò le mie labbra.
«Derek», osservai senza riuscire ad impedirmelo, con un tono di voce più alto di quanto avrei voluto.
Lui si portò immediatamente un indice sulle labbra, intimando il silenzio, ed io di tutta risposta posi una mano sulla bocca di Stiles. Credetti che saremmo riusciti a gestire la situazione ma poi un rumore sempre più forte di piedi sul pavimento mi fece intuire che Stephen fosse diretto proprio in quella stanza e i miei occhi si sgranarono ancor di più.
«Merda», imprecai, trascinando Stiles fuori e chiudendomi la porta alle spalle.
Stephen ci trovò lì, immobili e incollati spasmodicamente all’ingresso. Che stessimo nascondendo qualcosa era ben evidente ma come al solito, lasciò perdere e si limitò a scoccarci un’occhiata confusa.
«State bene?», domandò semplicemente, interdetto.
«Benissimo, papà», rispose semplicemente Stiles, fingendo indifferenza mentre si avvicinava a me ulteriormente per fare da “barriera”.
«D’accordo. Io sto per uscire ma tornerò in tempo per la partita».
E fu solo allora che mi ricordai della partita di lacrosse che si sarebbe tenuta proprio quella sera alla Beacon Hills High School, partita nella quale Stiles avrebbe esordito come titolare. Non avevo avuto occasione di pensarci per nulla e sorrisi sincera quando proprio Stiles rammentò al padre che avrebbe giocato anche lui.
«Sono molto felice per te. E anche molto orgoglioso», fu la risposta di Stephen, che fece sì che il mio sorriso si allargasse ancor di più.
«Grazie. Anch’io sono felice. E orgoglioso. Di me stesso».
«Bene, ci vediamo lì».
Credetti che il pericolo fosse ormai scampato e feci per liberare un sospiro di sollievo ma quando Stephen si avvicinò a noi pericolosamente ripresi a preoccuparmi, salvo poi tranquillizzarmi nuovamente quando semplicemente abbracciò Stiles in segno di saluto. Sorrisi intenerita guardandoli e salutai Stephen poco prima che uscisse dopo avermi lasciato un bacio sulla fronte.
Poi, solo quando sentimmo la porta d’ingresso chiudersi alle sue spalle e il silenzio ritornare a farla da padrone in casa Stilinski, mi voltai a guardare Stiles. Lui ricambiò velocemente il mio sguardo, ancora con la mano stretta sulla maniglia, e poi annuì, abbassandola e ritornando insieme a me in camera sua. Quando Derek fu di nuovo di fronte ai miei occhi, non potei fare a meno di chiedermi cosa avremmo fatto a quel punto. Non era la prima volta che vi s’intrufolava ma allora la situazione era più grave. Avremmo davvero ospitato un fuggitivo in casa dello sceriffo?
«Sta per arrivare Danny», mi spiegò allora Stiles, spezzando il silenzio e costrigendomi a cercare il suo viso per riservargli un’occhiata stranita.
Danny, il migliore amico di Jackson? Da quando Stiles aveva rapporti con lui?
«Ho un piano», continuò, quando si rese conto del fatto che non lo stessi affatto seguendo.
Allora non potei far altro che annuire, poco prima di avvicinarmi in direzione del letto di Stiles per sedermici sopra. Mi sfilai immediatamente gli stivali in pelle beige, esausta.
«Cosa facciamo con lui?», domandai, stesa di schiena sul letto mentre facevo un cenno in direzione di Derek e parlavo proprio come se il diretto interessato non fosse lì con noi.
«Se dovrò nascondere un fuggitivo dentro casa mia, lo farò con le mie regole».
E a quel punto avevo solo un’ultima domanda. Quali erano le regole di Stiles?
 
«Lui chi è?».
Sia io che Derek sollevammo gli occhi da ciò che stavamo leggendo in contemporanea. Il sussurro di Danny non ci era affatto sfuggito, e poco prima di riportare gli occhi sul display del mio iPad, convenni tra me e me che la discrezione non fosse affatto uno dei suoi pregi.
Stiles, dal canto suo, si sentì preso in contropiede per un attimo e mi chiesi cosa si sarebbe inventato quella volta.
«Mio cugino», mormorò poi, riportando gli occhi sul viso di Danny, seduto accanto a sé. «Miguel».
Cercai invano di trattenere una risata. Quando gli sguardi di tutti i presenti nella stanza furono puntati su di me – chi infuriato, chi agitato e chi confuso – cercai di mascherare il tutto fingendo si trattasse di una tosse fastidiosa, ma non ero mai stata un’ottima bugiarda e di quello ne era consapevole chiunque.
La curiosità di Danny, tuttavia, non si spense, e al contrario sembrava aumentare ogni secondo che passava un po’ di più.
«È sangue quello che ha addosso?», domandò infatti a Stiles, poco prima che questo si voltasse a guardare Derek nuovamente per controllare.
Sangue?, mi chiesi, aggrottando le soppracciglia. Non mi era parso ferito. Ma scoprii ben presto di sbagliarmi. 
«Oh. Sì. È che purtroppo soffre terribilmente di epistassi», s’inventò ancora Stiles, mentre io – nello sforzo di trattenere l’ennesima risata – arrossivo violentemente.
«Miguel, te l’ho detto che puoi prendere una delle mie magliette».
Ancora una volta, Derek sollevò lo sguardo dalla pagina ingiallita del manuale che stava consultando con una lentezza esasperante che mi preoccupò non poco. Era irritato ogni minuto sempre di più e Stiles stava decisamente tirando troppo la corda. Per me era divertente, per Derek tutt’altra cosa.
Prima di mettersi in piedi lo trovai intento a cercare il mio sguardo e non appena mi resi conto della distrazione degli altri due ragazzi, ne approfittai per scoccargli un’occhiata a metà tra l’accondiscente e l’ammonitore. Un po’ perché capivo che fosse infastidito, un po’ perché doveva a tutti i costi comportarsi bene.
Lui riprese ad ignorarmi subito dopo e si diresse verso il comò in legno bianco accostato al muro, prendendo a spogliarsi come se niente fosse mentre io ricominciavo a leggere. Stiles, nel frattempo, cercava di convincere Danny ad aiutarci. Praticamente il suo piano consisteva nell’individuare chi fosse il mittente del messaggio che aveva attirato Allison a scuola nella notte in cui l’alpha ci aveva intrappolati lì.
Mi resi conto forse un po’ troppo tardi del teatrino improvvisato che si venne a creare: sebbene non mi fossi impegnata abbastanza ero stata capace di distrarmi tanto da perdermi gli ultimi sviluppi delle cose intorno a me e ritornai lucida solo quando Stiles chiese a Danny:
«Tu che ne pensi?».
«Eh?», fu però tutto ciò che riuscì ad articolare l’altro.
Appunto. Eh? Aggrottai le sopracciglia, aspettando che Stiles decidesse di spiegarsi mentre mi guardavo intorno, curiosa.
«La maglietta», snocciolò poi, e quelle due parole mi spinsero a cercare nuovamente la figura di Derek.
Indossava una t-shirt a righe arancio e blu, niente di troppo particolare o assurdo, ma allora perché…
«Quei… quei colori non gli donano».
Non ebbi bisogno di chiedere altro. Fingendo indifferenza e tranquillità, sgusciai un po’ più giù nel letto di Stiles e mi coprii il viso con l’iPad, fingendo di essere interessatissima alla mia lettura. Derek si accorse ben presto del mio comportamento ma Stiles e Danny no, ed era quello l’importante.
«Stai guardando solo i colori o anche quello che c’è sotto, Danny-bello?».
La discrezione non era neanche un dono di Stiles, me ne resi conto davvero solo in quel momento. Non aveva fatto niente per poter parlare a voce bassa ed evitare che almeno io sentissi. D’altra parte, l’omosessualità di Danny non era certo un segreto.
Curiosa di cosa potesse pensarne Derek, voltai il viso nella sua direzione quel tanto che bastava a donargli un’occhiatina apparentemente disinteressata e l’espressione truce sul suo viso non mi rassicurò per niente. Povero Derek, pensai, trattenendo un sorriso divertito.
«Sei una persona orribile».
E povero Danny.
«Lo so, non riesco a dormire la notte. Comunque, tornando al messaggio…».
«Mi serve il provider, il cellulare e l’ora dell’invio».
Mi tirai a sedere di scatto. Sul serio? Bastava agitare Derek di qua e di là per un po’ affinché Danny ci aiutasse? Sorrisi apertamente mentre Stiles neanche provava a nascondere tutta la sua soddisfazione e poi misi da parte l’iPad per poterli raggiungere entrambi alla scrivania. Magari, osservando Danny al lavoro avrei imparato qualcos’altro di utile.
Purtroppo, scoprii ben presto di sbagliarmi. Non ero una frana con la tecnologia ma allo stesso tempo non mi era stata donata tutta l’intelligenza utile a fare cose del genere. Me la cavavo, ecco tutto. Al contrario di Danny, che scoprii essere davvero molto bravo. In quattro e quattr’otto, difatti, riuscì a trovare il mittente del messaggio mandato ad Allison, sconvolgendo sia me che Derek e Stiles con la leggerezza che aveva utilizzato per svolgere quel difficile compito. Lo faceva sembrare quasi facile.
«È stato inviato da un computer», esalò alla fine delle sue ricerche, con un tono di voce tranquillissimo. Era proprio una cosa da niente, per lui. «Beacon Hills Memorial Hospital, Melissa McCall».
«È impossibile», furono le uniche parole di Stiles, sconvolto da quella scoperta almeno tanto quanto me.
Provai a dire qualcosa anch’io ma la voce mi venne a mancare ancora e prima che potessi fare qualcosa per provare a rimediare, sentii improvvisamente tutte le forze venire a mancarmi e gli occhi farsi pesanti. Mi portai una mano alla testa: pulsava violentemente e l’unica cosa che avessi davvero voglia di fare in quel momento era dormire per otto ore filate, come minimo. Stavo diventando narcolettica? Me lo chiesi mentre provavo a sorridere, inutilmente, e sorda ai richiami dei ragazzi insieme a me cadevo addormentata improvvisamente senza che però riuscissi ad impattare contro il pavimento in morbida moquette della camera di Stiles. Chi mi aveva presa? Non potevo saperlo.
C’era solo buio.









Niente da dire se non "Aspettate il prossimo capitolo e vedrete". Ovviamente, si aprirà con una scena Starriet. Ormai c'ho preso gusto. Oh, e poi conosceremo gente nuova :) Anche se non ho idea di quando potrà arrivare il nuovo aggiornamento perché ho in mente mille idee e una paura fottuta di non riuscire a lavorarci su bene, quindi (scusate) ma mi prenderò tutto il tempo del mondo per poter fare qualcosa di buono. 
Sono sicura quando dico che il diciassettesimo capitolo sarà uno dei più importanti della storia e veramente voglio provare a renderlo bello come lo immagino çç Poi vabbè, ci avviciniamo alla fine e ci tengo a fare un buon lavoro. E parachute compirà un anno, il 6 agosto! La mia bambina è cresciuta tanto *____* La amo, ma allo stesso tempo non vedo l'ora di finirla per potermi dedicare ad altre cose. Per come la vedo ora non appena sarà conclusa scriverò una minilong (?) su The 100 e pooooi, solo quando avrò concluso anche quella, ritornerò a scrivere sui miei bambini <3 Anche se potrei benissimo cambiare idea, non fidatevi mai di me MAAAA lasciatemi recensioni ché quelle sono sempre ben accette XD
Alla prossima, cioè tra 342516789 secoli. Cià,
hell
   
 
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