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Autore: ki_ra    18/06/2014    5 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Preludio
 


Era nervosa.
Osservò con attenzione meticolosa la stanza da letto della sua nuova casa: era romantica, l’alcova perfetta per una prima notte.
L’austerità dell’imponente letto di mogano scuro era domata dalle candide, profumate lenzuola di lino, ricamate con sapienza; i guanciali, morbidi e gonfi, come nuvole primaverili, contrastavano con il legno intarsiato della testata ed i volani leggeri si adagiavano come piccole onde sul risvolto; il copriletto, anch’esso candido e lunare, intrecciava fili argentei e cangianti e ricadeva morbido sul pavimento maiolicato. Al centro del talamo, era adagiata una rosa scarlatta dal gambo lunghissimo, come le altre disposte nel vaso di cristallo, sul tavolino al centro della stanza.
Si avvicinò alla vetrata spalancata: la luna enorme e bianchissima riverberava sulla superficie piatta del mare, disegnando sullo specchio d’acqua nero, una scia luminosa, come un sentiero tremolante, dalla linea sfocata dell’orizzonte alla riva. Enormi pini si stagliavano con la chioma folta nel cielo e affondavano le radici profonde nel suolo, a metà tra la terra e la sabbia della spiaggia. Non c’era vento, solo una lenta, fresca brezza marina, che solleticava la trama delle tende leggere e le sfiorava la pelle.
Gli ospiti che avevano presenziato alla cerimonia e poi al rinfresco erano andati via, fatta eccezione per il dottor Elmisk e sua madre, che ancora sedevano nel giardino illuminato da ardenti fiaccole e tremule candele, quando Ariela si ritirò per prepararsi per la notte.
Si era spogliata dell’abito da sposa ed aveva indossato, con l’aiuto di Alvita, una camicia da notte finemente ricamata e, su di essa, una vestaglia che le copriva le spalle e la faceva sentire meno esposta agli occhi che presto l’avrebbero guardata.
Si osservò allo specchio: il viso le appariva pallido d’impazienza e di ansia per quella notte sconosciuta che stava per arrivare, così si pizzicò le guance, sperando che le si colorassero, donandole un aspetto più sano e tranquillo, almeno agli occhi di suo marito.
Avvampò al pensiero di Eìos congiunto a lei sull’altare; a come l’aveva guardata, pronunciando i voti solenni ed al sottile fremito che le era scorso lungo le dita, quando egli le aveva preso la mano per infilare la vera nuziale. Le sovvennero in mente tutte le volte che i loro occhi si erano incrociati, durante quella giornata, in mezzo a quelli di tutti gli altri, quella vena di desiderio che vi aveva colto e l’attesa forzata e si pentì di non aver cercato conforto e sapienza nelle parole di chi era già moglie.
Si sentì ingenua ed inesperta, in balia di un mare avviluppante dal quale anche il nuotatore più esperto fatica a salvarsi, ma poi all’immagine dei flutti si sostituirono il calore degli abbracci, delle carezze morbide e, di più, dei baci travolgenti di Eìos ed Airela fu certa che se quelli erano il preludio del loro sposalizio, la notte che sarebbe venuta, così come tutte le altre, sarebbe stata traboccante di perfetta gioia coniugale.
Persa in quel groviglio di pensieri ed emozioni contrastanti, sussultò quando sentì bussare.
Si schiarì la voce e si passò i palmi aperti delle mani sulla vestaglia a stirare inesistenti pieghe, poi gli concesse il permesso ad entrare.
- Sono andati via, finalmente … - esordì, Eìos, richiudendosi la porta alle spalle. - Tua madre … mi ha rivolto oggi, per la prima volta, la parola, da quando ci conosciamo. – disse, sfilandosi la giacca e lasciandola cadere, distrattamente, sulla poltroncina, vicino alla toletta. – Mi ha chiesto di prendermi cura di te … - continuò, sbottonando i gemelli di ematite iridescente e nera, che chiudevano i polsini della candida camicia.
Si avvicinò a lei, che rimase di spalle, intimidita; le posò i palmi delle mani sulle scapole e la fronte sulla nuca nivea e leggermente scoperta. Inspirò forte il profumo della pelle, che sembrava liberarsi ad ogni respiro di lei, e le chiese: - Credi che saprò esserne capace, Ariela? –
La voce era dolce, sommessa, quasi un sussurro, come di chi vuole sapere, ma paventa la risposta.
- Credo di sì. – lo rassicurò, ancora ferma, il viso rivolto verso il letto e le dita a tormentare i lacci di seta che chiudevano i lembi della vestaglia. Le mani di Eìos scorsero dalle scapole agli omeri, in un frizione rilassante, che le scioglieva i muscoli tesi e addolciva i nervi contratti della schiena; percorsero le braccia fino ai polsi, lentamente, per poi ritornare alla fonte, portandosi dietro le maniche dell’indumento, che velavano la pelle. Ariela percepì un brivido sottilissimo percorrerle la spina dorsale, pungerne ad una ad una le vertebre e la pelle accapponarsi, tanto che i polpastrelli di lui ne colsero il fremito, inducendolo ad avvicinare la guancia a quella di lei ed il torace alla sua schiena; le braccia decise, teneramente, si incrociarono sullo sterno e si ancorarono agli omeri, quasi a volerla scaldare.
- Hai freddo? Vuoi che socchiuda le imposte: l’aria di mare è ancora piuttosto fresca … - le domandò.
- Non ho freddo. –
- Cos’è, dunque, paura? – insistette, facendola voltare e attirandola nuovamente a sé per la vita.
- E’ solo …  - mormorò, mordendosi le labbra imbarazzata, - E’ … che non so cosa fare … - confessò, in un mormorio quasi di scuse.
Eìos le sorrise, sciogliendo l’abbraccio e portandosi le mani fredde e tremanti di lei sul petto. Ne carezzò  il dorso con i pollici; le baciò le guance accaldate, gli zigomi, le tempie, la fronte, seguendo un percorso logico, rassicurante e calmo, come con una bambina spaventata.
- Vieni. – la invitò, tenendole strette le mani, che cominciavano a scaldarsi, e procedendo verso il patio della camera, all’indietro, per continuare a guardarla negli occhi.
Ariela lo osservava, affidata e curiosa, i passi piccoli su di un sentiero incerto, ma esplorabile, senza chiedere, se non con gli occhi grandi e blu, che alla luce confusa delle candele e della notte, che invadeva la stanza, sembravano le acque pulite dell’oceano più profondo.
Quando furono all’esterno, la luce fluorescente della luna, colpì la pelle diafana di lei, conferendole l’aura eterea di una ninfa greca, partorita dallo stesso astro siderale. La bocca sembrò, in quel chiarore innaturale, ancora più rossa, come di sangue puro ed invitante.
Eìos le lasciò le mani, sedette sulla vecchia sdraio e si sfilò gli stivali, che ancora calzava, senza perdere il contatto con gli occhi di lei, come un marinaio che si affida alle stelle, per non perdere la via di casa. Allo stesso modo, lo guardava Ariela: la luce dell’astro notturno lo illuminava da dietro, disegnandone il profilo del corpo deciso, e la pelle bruna, di contro, confondeva i tratti del viso, lasciando emergere solo gli occhi lucenti di un riverbero, a lei sconosciuto, ma che per Eìos era di desiderio purissimo e carnale  per la donna che lo aveva scelto.
- Toglile … - ordinò, con il sorriso del bambino birichino, in piedi davanti a lei, indicando le scarpette da camera bianche, come ogni cosa di lei. Ariela sorrise, contagiata, poggiò una mano sulle braccia, che lui teneva conserte, per rendere più agevole l’operazione, e, con l’altra, le sfilò, una alla volta, squilibrata dai movimenti ed, ancor più, dalle labbra di lui, sorridenti e sfacciate, che ancora non era riuscita a sfiorare dal bacio sull’altare.
Quando i piedi furono nudi, Eìos le prese di nuovo la mano ed insieme scesero sulla spiaggia, verso la riva.
La sabbia era tiepida, sottilissima; sfiorava le caviglie, come seta, quando i piedi vi affondavano; filtrava attraverso le dita, come in una clessidra panciuta che segna lo scorrere del tempo, quando ne emergevano per compiere il passo successivo. Il mare lambiva la riva, come nella carezza sensuale di un amante, la impregnava di spuma sfrigolante e candida, come al culmine di un amplesso, per poi ritirarsi ed assalirla ancora, in un congiungimento senza fine e senza stanchezza.
Camminarono, il braccio di lei aggrappato alla vita di lui ed il suo a coprirle le spalle, per proteggerla dall’aria umida della sera inoltrata; soli ed accompagnati dalla natura animata, ma silenziosa, in un Eden incantato, creato apposta per loro.
Quando giunsero alla fine della spiaggia, dove  la scogliera a picco precludeva il passaggio e recingeva la piccola baia sulla quale la casa si affacciava, tornarono indietro, con la stessa lentezza dell’andata, godendo del preludio della notte che stava per legarli indissolubilmente e per sempre.
Giunti nella stanza da letto, il tepore delle mura si sostituì alla brezza del mare ed Ariela si sentì rilassata, tranquilla, seppure ancora impacciata nei movimenti e trepidante per l’attesa. Era intenerita dalla pazienza di lui, dal tempo che le aveva dedicato perché ella potesse prendere confidenza con quella notte che stava per cambiarla, che l’avrebbe resa donna e sposa, cosciente del proprio corpo e dei desideri che lo scuotevano e che tendevano quello di lui.
- Vieni qui … - ordinò, chiamandola con un gesto della mano, - Siedi. – continuò, indicando la poltroncina davanti alla vetrata. Ariela obbedì, completamente affidata alla sua voce, che addolciva ogni sua richiesta; Eìos colmò il catino di ceramica smaltata con l’acqua contenuta nella brocca, la sistemò sul pavimento, ai piedi di lei, ed in inginocchiatosi, le sollevò l’orlo della camicia da notte, posandola sulle sue cosce e scoprendole le gambe bianche; sollevò, morbidamente, una caviglia e, con una mano, la tenne sospesa  sull’acqua, che ne rifletteva il candore della pelle. Raccolse, con l’altra, il liquido trasparente e lo riversò sullo stinco: decine di rivoli sottilissimi scivolarono, come pioggia sui vetri, fino ai malleoli, trascinando i granelli di sabbia biancastra, rimasti attaccati; piccole gocce rotolarono sul dorso del piede e si insinuarono tra le dita, per poi ricadere nel catino, producendo cerchi concentrici che si rompevano con la caduta della goccia successiva. Infine, con un telo di lino, profumato di bucato, tamponò la pelle e poi l’accarezzò con la punta delle dita, per assicurarsi che fosse asciutta e liscia.
Ripeté l’operazione con l’altro piede, mentre Ariela lo guardava abbacinata, lo sguardo fisso e lucido, come febbricitante, su quelle mani che le veneravano la pelle; mille parole insistevano sulla lingua per uscire, e nessuna voce coraggiosa si prestava alla loro richiesta.
L’aiutò a sollevarsi, per poi sedere al suo posto, e ripetere l’operazione per sé, stavolta con premura, come se il tempo per il passo successivo fosse  ormai giunto ed egli non volesse procrastinare.
Si sollevò; sbottonò la camicia, guardandola, col viso leggermente inclinato, come per godere del suo consenso, e la sfilò, facendola scorrere lungo le braccia fino al suolo; le spalle larghe, il torace definito, il ventre teso le si mostrarono come una terra sconosciuta, nuova scoperta, che ella aveva solo potuto, immaginare nel leggero contatto delle sue mani.
Le si avvicinò, lento, un felino a caccia della propria preda, e sciolse il laccio di seta che, in vita, chiudeva la vestaglia lunga fino ai piedi. Le mani ne separarono i lembi, scoprendo il corpetto della camicia da notte; si ricongiunsero sul ventre contratto, le dita risalirono tra i seni, fin sullo sterno, ed infine giunsero agli omeri, scostando la stoffa e scoprendole le spalle.
- Hai ancora paura? - le chiese, immobile, guardandole la pelle morbida ormai scoperta.
Ariela accennò un no, gli occhi fissi sul torace di lui che si gonfiava ad ogni respiro. – Sai che puoi fare quello che vuoi? Tutto quello che vuoi? - chiese ancora, quasi come in una preghiera, sperando che ella lo toccasse.
Ariela, come se ne avesse percepito il richiamo, gli posò i palmi delle mani aperti sul petto e risalì, come aveva imparato da lui, lungo il collo; sfiorò il pomo di adamo, costringendolo a deglutire; raggiunse le mandibole, e ricongiunse le dita sul mento. Poi cercò le labbra, ne seguì il contorno, rinfrescandole con i polpastrelli freschi e lisci, ne saggiò la consistenza, il turgore, come un cieco che vede solo con le mani. Disegnò il profilo greco del naso, seguendo il percorso delle dita con gli occhi; indugiò sulla piccola ruga d’espressione tra le sopracciglia nere ed esplorò le palpebre chiuse, mentre Eìos, le braccia distese lungo i fianchi, inspirava estasiato ad ogni tocco che leniva la pelle in fiamme. Terminata la ricerca puntuale dei tratti del viso, le mani di Ariela tornarono a posarsi sul petto, all’altezza del cuore martellante.
Eìos riaprì gli occhi e sorrise, come se ella avesse scoperto il suo nascondiglio segreto.
- E’ di nuovo il mio turno, dunque? – ammiccò. Le mani sicure presero a slacciare la fila di piccoli bottoni d’avorio che chiudevano il corpetto che sacrificava i seni, liberandone alcuni lembi di pelle; le dita risalirono sotto le spalline abbassandole, finché la camicia da notte le scivolò lungo il corpo fino ai piedi, lasciandola completamente nuda.
Ariela sentì il viso in fiamme per l’imbarazzo del proprio corpo alla mercé degli occhi di lui, esposto così come neanche i propri l’avevano mai guardato. Gli allacciò le braccia al collo e gli affondò il viso sull’omero; i seni gli sfiorarono il petto, inturgidendosi e le labbra le tremarono per quello strano, nuovo, sottile dolore.
Eìos l’afferrò per i fianchi, sollevandola da terra, girò intorno al letto e ve la adagiò; rimase in piedi, per liberarsi degli ultimi indumenti che gli soffocavano il corpo, contemplandola. Ariela rimase in attesa, la guancia sul cuscino, gli occhi chiusi ed il dorso della mano a coprire le labbra che tremavano.
Si distese su di lei, facendo leva sulle braccia tese, per non gravare col proprio peso sul corpo sottile e delicato; spinse la bocca in avanti, a cercarne il viso; la schiena si piegò in due lungo la spina dorsale, come il dorso di un albatro che spiega le poderose ali nel volo solitario sull’oceano, ed un ginocchio si fece spazio tra le cosce, ancora intimidite e chiuse.
- Sei bellissima. –  sussurrò, mordicchiandole il lobo, - E sei mia … - continuò, trapuntandole il collo di piccoli baci, come la miriade di stelle nelle notti d’estate. – La mia sposa … - aggiunse, proseguendo lungo lo sterno, - … la mia donna, la mia anima mondata, la carne ed il sangue … - terminò, raggiunto uno dei seni, la cui pelle morbida e delicata si irrigidiva al suono di ogni sillaba, mescolata al tocco vischioso della lingua ed all’affondo deliziosamente doloroso dei denti.
Ariela fermò il respiro ed aprì gli occhi: il viso di lui, chino sul suo petto; i capelli, come mille lacci di seta nera a lambirle la pelle; la schiena forte che la ricopriva e la conteneva come il guscio di una noce, tutto del suo corpo le scioglieva il ventre, come il ghiaccio nel disgelo primaverile. Un languore caldo, un rivolo denso e vischioso, risvegliò quella parte di sé, sconosciuta e dormiente, costringendola, inconsciamente, a schiudere le cosce, come un passaggio finalmente svelato che apre la via all’invasore. Le sue dita affondarono nella pelle della schiena tesa, come alla ricerca di un appiglio salvatore.
- Sì, stringiti a me, Ariela … - la pregò, invocando la sua bocca, - E baciami, mordimi, fammi male e poi guariscimi. Apriti e riempiti di me, sino a che non avrai più spazio dentro. E quando la fame di entrambi sarà esplosa in mille schegge impazzite, rimaniamo così, uno sull’altra, per desiderarci e sfamarci ancora … - continuò la sua preghiera.

**********

Dunque, quello era fare l’amore: entrare nel corpo di una donna dolcemente, in punta di piedi, come in un simulacro; consacrarsi, devoto, alla sua anima svelata, come un sacerdote al proprio idolo; venerarne la carne, le ossa, il sangue puro.
I pensieri si mescolavano, così come i sensi; le mani esperte cercavano, stringevano, toccavano pelle e bocca; si intricavano tra i capelli ribelli e lisciavano il ventre teso, i seni esposti e le cosce ormai violate.
Le labbra conquistavano e bramavano ogni parte di lei, corteggiandola, i polsi che pulsavano di desiderio; l’ombelico, come la serratura segreta di un tesoro antico, e la parte  più piccola e densa, scrigno incantatore come l’antro delle sirene.
Dunque, quello era amare, poiché  amore era, nato sin dall’alba del loro incontro controverso; amore era che lo aveva spinto ad affidarsi, a dire sì ad un impresa stralunata che neanche l’incosciente mercenario avrebbe abbracciato.
Poiché con lei, tutto era al rovescio: la carne dentro e l’anima fuori; il padrone che si fa servo.
Fu dentro di lei piano, così piano, che ella non provò alcun dolore, solo il calore del passaggio, che poi con la stessa lentezza si espanse dal ventre fino alle tempie, come una febbre lucida.
Un rivolo sottilissimo e timido di sangue puro tinse le lenzuola candide, l’anima si fece materia, l’essenza divenne carne. La sua vischiosità addolcì il successivo affondo ed il desiderio di entrambi, l’urgenza di appartenersi, trasformarono ogni colpo in carezza, ogni morso in bacio, ogni grido soffocato in canto celebratore.
La tenne stretta a sé, come incatenata al proprio corpo, quando lo scompiglio del piacere cominciò a sciogliere la propria morsa, come per rassicurarla che quella non era fine, ma inizio; non il traguardo, ma la partenza di un viaggio; non la scoperta, ma la ricerca.
Continuò a baciarle il viso, a sussurrare al suo orecchio parole senza suoni, mentre Ariela teneva ancora gli occhi chiusi e le braccia al collo di lui, come se potesse perdere l’appiglio e cadere da un istante all’altro.
Eìos si scostò leggermente dal quel contatto avviluppante, per saziare anche gli occhi dell’intreccio dei loro corpi appena conosciuti; si poggiò su di un gomito, stendendosi sul fianco, lasciando che la punta delle dita vagasse su di lei e guardandola, ancora stupito dal riverbero di tanta bellezza: il corpo avvolto tra aggrovigliate lenzuola, spuma nivea a lambirle la pelle madida, il respiro come una melodia scandita dal movimento ritmico dei seni svelati, i capelli sparsi sul cuscino, campi disseminati di grano biondo.
E si sentì in pace, per la prima volta da che era venuto al mondo: nessuna fame, niente freddo o paura; nessun dubbio, né un dolore, soltanto pace e calore; solo appartenenza ed un porto sicuro per un’anima vagabonda.
Tornò a baciarla, con la tenerezza dei bambini, sereno e grato di tutta quella nuova scoperta di sè.
Le carezzò le guance e le sussurrò all’orecchio: - Dormi, adesso … dormiamo insieme … - Districò le lenzuola per coprirla, poggiò la testa sul cuscino, la punta del naso a sfiorarle la guancia, la mano aperta sul ventre e chiuse gli occhi, finalmente a casa.

 

**********

Il celo rosa, all’orizzonte di cristallo, svelava la nascita imminente del sole.
Il mare blu cobalto, striato di chiazze dorate, era fermo, come la lastra di uno specchio che duplica la propria immagine, sostituendola, intermittente, a quella del cielo.
Nessun rumore, quasi la natura si fosse resa silenziosa e discreta spettatrice della notte dei due amanti. Fasci di luce vaporosa penetravano la stanza dalle imposte, rimaste aperte, ferivano le pareti, come lame taglienti, nei punti più vicini alla vetrata, per poi ammorbidirsi via, via che si allontanavano da essa.
Ariela aprì gli occhi piano, per abituarli alla nuova luce. Lembi scarni di lenzuola disordinate le coprivano i seni, come frutti dolci nascosti dalla buccia, mentre le gambe ne sgusciavano fuori, bianche e perfette. Eìos le dormiva accanto, prono, il viso sprofondato nel cuscino, sotto il quale nascondeva gli avambracci; le lenzuola gli coprivano, malamente i glutei e le gambe. Si rannicchiò, portando le ginocchia al petto e poggiandovi la fronte; inspirò il profumo del corpo di lui, rimasto invischiato nella trama sottile della propria pelle; passò la punta delle dita tra i capelli che le mani di lui avevano scarmigliato, ed il ricordo della sensazione di totale abbandono e della sottomissione dolce, così come la ricerca di lui del proprio ventre di donna, le solleticarono ogni lembo di pelle, come se le sue mani, le labbra, la lingua fossero tornate a lambirla, sfiorarla, sedurla e catturarla per aprirle nella mente e nella carne la voragine che la notte prima le aveva scompigliato ogni resistenza.
Si voltò a guardargli la schiena, che si gonfiava nei respiri regolari e placidi del sonno sereno. Non voleva che si svegliasse: la docilità della sua figura, come quella del soldato dopo lo scontro, la inteneriva, ma una voglia di toccarlo si prese la punta delle sue dita, che, disubbidienti, si posarono sulla pelle calda.
Cicatrici lunghe come corde la segnavano, dalle scapole ai lombi; si intrecciavano, come i serpenti sulla testa di Medusa. L’indice prese a seguirne i sentieri confusi, lentamente, come in un labirinto alla ricerca dell’uscita.
- Colpi di verga, del mio primo ed unico padrone! – la sorprese, rispondendo alla domanda muta che ella si poneva, con gli occhi chiusi, come fosse ancora preda del sonno. - Avevo dieci anni quando il marito di mia madre mi scacciò. – cominciò a raccontare, - Avevo fame, così tanta fame, da sentire le budella attorcigliarsi nella pancia. Ma non avrei mai chiesto l’elemosina, come avevo visto fare; avevo sufficiente dignità per guadagnarmi il pane.
Andai a lavorare nei campi.
Lo sai a quali lavori sono destinati i ragazzini? Gli caricano la schiena, come bestie da soma, con sacchi di terra o di sementi da trasportare, o li mettono a scavare con le mani nude, per liberare il passaggio dell’aratro dai sassi nascosti, sotto il sole della canicola, sotto la pioggia battente, al freddo tagliente del vento. E quando la fame e la stanchezza li fanno cadere, li rimettono in piedi, ricordando loro che sono ancora vivi, con la verga  sulla schiena, sulle gambe, sul petto, fino a che la carne si strappa, come un lenzuolo liso al vento. E se si rialzano, come ho fatto io, è solo per sudare e piangere ancora, fino a quando non cadranno di nuovo.
Riuscii a resistere qualche mese, poi scappai, con la carne ancora aperta e sanguinante. Rubai, dormii per strada, sino a che un giorno venne a prendermi Esem, mio padre. Mi promise e promise: una casa, un fratello, cibo pulito ed un letto caldo, ma non fu quella la fine del mio patire. Egli morì ed io tornai per strada, randagio ed affamato, come i cani.
Andai per mare: non fu facile neanche su quella nave, ma ormai ero grande abbastanza, forte abbastanza, ferito abbastanza, da non piangere più. Così al primo colpo che mi infersero, picchiai forte anch’io, più forte che potevo, e continuai a farlo, fino a che nessuno mi toccò più. –
Ariela sentì gli occhi inumidirsi al male che veniva da quelle parole, la schiena le bruciò, come colpita, e lo stomacò si accartocciò per lo sconquasso di quella voce indurita dai ricordi.
Sciolse la posizione fetale in cui si era rifugiata ed, in ginocchio di fianco a lui, prese a baciargli la schiena, seguendo con le labbra il reticolo di cicatrici, dolcemente, come si fa con le nocche sbucciate di un bambino, con cura meticolosa, come se quel tocco umido e caldo potesse giungere, guaritore, a ferite più profonde, quelle dell’anima.
- No … non le farai sparire così … - disse amaro, rimanendo nella stessa posizione ed inarcando, impercettibilmente, la schiena ad ogni bacio, come se la carne bruciasse ancora.
Ma Ariela insistette in quella pratica invadente, fino a quando egli non si arrese, chiedendole: - Continua, non smettere … -
La voce divenne un mugolio roco, di appagamento; i muscoli aggrovigliati della schiena si distesero, il torace si gonfiò d’aria e di calma placida e le labbra sorrisero serene.
- Ne ho anche sul petto … - suggerì, tenendo il capo rivolto verso il lato opposto a lei.
- Voltati … - un ordine così delicato, da sembrare preghiera.
Eios le obbedì, come un bimbo diligente; le mostrò il petto ampio e glabro, i muscoli decisi, incisi dalle stesse cicatrici annodate tra loro, ed Ariela ricominciò il proprio lavoro di sutura, come un medico esperto.
- Ne ho anche sul viso … - ripeté, gli occhi chiusi ed un sorriso sfacciato.
- Non ne hai, invece! – replicò, ammirandolo in quell’espressione beata e sorniona.
- Allora baciami e basta. – disse  attirandola a sé, con le mani a contenere l’intero viso candido.

 

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  Buongiorno a tutte!
Eccomi qui col nuovo capitolo.
Scriverlo è stato difficile, più degli altri: rendere i sentimenti, le sensazioni di due personaggi così diversi tra loro, per abitudini ed educazione, per approccio alla vita ed al tempo stesso unirli nello stesso sentire, mi ha impegnato molto.
Spero comunque di essere riuscita a trasmettere a voi che avete letto, ciò che volevo significasse questa prima notte dei nostri protagonisti.
Come sempre grazie a tutti quelli che passano di qui ed in particolare a coloro che recensiscono: a Raya_Cap_Fee; a SweetLuna e a Drachen ed infine all’ultima arrivata frsm75 che allo scorso capitolo ha lasciato una recensione che mi ha emozionato.
Un bacio  e alla prossima!

  
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