Disclaimer: Ebbene no, nessuno
dei personaggi mi appartiene (purtroppo)
Trap Doors and Masks
Parigi,
1870. Gli Champs-Élysées
sembravano non esistere più sotto il profondo strato di neve
che li ricopriva.
Non si poteva dire altrettanto per le notizie, che invece volavano,
sospinte
dal vento, da una parte all’altra della città nel
buio della notte. L’Opera
Populaire stava andando a fuoco e la soprano Christine Daaé,
insieme al
visconte di Chagny, era scomparsa. Erano queste le nuove che, sulle ali
del
vento, erano giunte fino alla villa del conte di Montecristo. Seduto di
fronte
alla grande portafinestra della sua stanza, Dantès fissava
immerso nei suoi
pensieri i bagliori rossi del rogo dell’Opera che si
stagliavano contro il nero
della notte. Si tormentava chiedendosi quanto Erik avesse a che fare
con quegli
avvenimenti e tremava alla possibilità che la risposta fosse
“molto”. Appena un
anno prima il Fantasma gli aveva confessato di aver dovuto rinunciare
alla sua
vendetta per amore di quella che si era rivelata essere la stella
nascente
dell’Opera, Christine Daaé, ma il conte sapeva che
difficilmente un uomo come
Erik avrebbe veramente abbandonato i suoi progetti. Per questo, appena
la
notizia dell’incendio l’aveva raggiunto, aveva
fatto spostare la sua poltrona
di fronte alla finestra. Per questo attendeva con ansia e malcelato
nervosismo
che Erik si facesse vivo. Per questo non aveva esitato a mandare
Bertuccio e i
suoi più fedeli servitori in cerca di informazioni. Fino ad
un paio di anni prima
sarebbe corso lui stesso a Place de l’Opera, ma il tempo
aveva fatto il suo
dovere e ora riusciva e stento a mettere due passi in fila. Gli
sembrava quasi
di essere tornato tra le mura della sua cella nello Château
d’If, o almeno
provava la stessa sensazione di impotenza e rassegnazione di tanti anni
prima.
Solo che questa volta non sarebbe arrivato nessun abate Faria a
salvarlo… o
forse sì? Sorrise ripensando al suo vecchio mentore. Era
passato tanto tempo…
un tempo che forse stava per finire… Il ricordo
dell’abate lo portò a
ripercorrere gli eventi quasi fantastici della sua lunga vita: la
prigionia, la
fuga miracolosa, il tesoro di Montecristo, i viaggi in Oriente,
Haydée, Parigi,
la vendetta… e poi di nuovo Haydée, il loro
amore,
«Eccellenza,» mormorò appena ebbe
recuperato abbastanza fiato «il vostro ospite è
alla porta.»
Montecristo tirò un sospiro di
sollievo. Quante volte in dieci anni aveva sentito quella frase? Quella
frase
che poteva introdurre una sola persona, l’unica che in quel
momento smaniava di
vedere.
«Fatelo entrare, Bertuccio.»
sussurrò con la voce incrinata dall’emozione. Ma
quello che vide varcare la
soglia non era l’Erik che conosceva. Poteva un fantasma
essere lo spettro di sé
stesso? Evidentemente sì. L’uomo che
entrò era coperto da un lungo mantello
nero, il cappuccio tirato in modo da coprire interamente il viso, la
camicia
bianca quasi completamente aperta sul petto solido scosso da respiri
affannati.
«Erik?» domandò il conte,
incredulo. Quello si lasciò cadere pesantemente sulla
poltrona alle sue spalle,
gemendo e prendendosi il volto tra le mani.
«Cos’è successo?» chiese
dolcemente Montecristo. L’uomo alzò appena il
viso, abbastanza da puntare gli
occhi arrossati in quelli del suo interlocutore, ma non da mostrarne la
parte
sfigurata.
«L’amavo, Edmond. Voi sapete che
io l’amavo.» la sua voce era poco più di
un rantolo tanto era spezzata dai
singhiozzi «E ora morirò… e
morirò d’amore…»
«Cos’è successo, Erik?»
richiese,
questa volta con più urgenza.
«Mi ha tradito… Christine mi ha
tradito. Ha cercato di ingannarmi… mi ha tolto la maschera
di fronte a tutta
l’Opera! Ho dovuto… ho dovuto rapirla. Volevo
uccidere il suo ridicolo amante e
passare il resto della mia vita con lei, ma…» una
risata amara interruppe per
un attimo lacrime e parole «fatico ancora a
crederci… mi ha baciato, Edmond!
Christine… Christine mi ha baciato. Mi ha tolto la maschera
e mi ha baciato…
sulle labbra, come se mi amasse quanto io
l’amo…»
«E dov’è ora?»
«L’ho lasciata andare… l’ho
lasciata andare con Raoul di Chagny. C’era solo
pietà nei suoi occhi… non mi
avrebbe mai amato come avrei voluto… e ora io
morirò per questo amore…» Montecristo
sospirò tristemente.
«Ricordi la nostra prima
conversazione di dieci anni fa?» L’uomo
sollevò il capo per rivolgergli uno
sguardo confuso. Poi, quando il delirio lasciò spazio ad un
piccolo barlume di
consapevolezza, mormorò con amarezza:
«Sto morendo, Edmond! Che cosa
credete che mi importi ormai di una vendetta che non posso
più avere?»
«Taci!» ordinò il conte, forse
più duramente di quanto avrebbe voluto «Non stai
morendo, ti stai disperando,
che è ben diverso.»
«E che dovrei fare, di grazia?
Mettermi a ridere?» sbottò Erik dimenticandosi
completamente della depressione
di poco prima.
«Io ti avevo avvertito. Ti avevo
avvertito riguardo i pericoli della vendetta…»
«E avevate ragione! È questo che
volete sentirvi dire?» gridò fuori di
sé «Avevate ragione! Ma ormai è tutto
finito, ho perso tutto…» Montecristo si
lasciò andare contro lo schienale della
poltrona sorridendo.
«È qui che ti sbagli.»
«Che cosa intendete dire?»
«Sei convinto di aver perso
tutto, ma ti resta ancora una cosa: la possibilità di
ricominciare. Non hai
voluto ascoltare i miei consigli dieci anni fa, fallo ora! Hai tutta
una vita
davanti, abbi pazienza e potrai ancora ottenere la tua
vendetta.»
«E come?» chiese sull’orlo della
disperazione. Sul punto di rispondergli, il conte si fermò,
per la prima volta
incerto sulle parole da scegliere. Scuotendo la testa,
lasciò andare un
profondo sospiro e alzò lo sguardo sugli occhi grigi
dell’uomo. No, non poteva
dirgli cosa aveva in mente di fare, non lo avrebbe mai accettato.
Così disse
semplicemente:
«Di certo non lasciandoti andare
in questo modo.» Lasciò che la severità
di cui erano impregnate le sue parole
facesse il suo effetto, poi riprese più dolcemente.
«C’è stato un periodo in cui
anche io pensavo che la mia morte avrebbe risolto tutto. Grazie a Dio,
il mio
vecchio mentore giunse in tempo per farmi cambiare idea, salvarmi la
vita e,
così, donarmi la libertà e la vendetta. Io ora
farò lo stesso con te.» Gli fece
cenno di alzarsi e quando se lo vide di fronte lo fissò con
un’intensità tale
da dargli l’impressione che il suo sguardo potesse leggergli
anche l’anima.
«Ora giurami su quanto hai di più
caro al mondo che non farai nulla per andare incontro alla tua morte
prima del
dovuto.» E calcò tanto su ogni singola parola da
costringere Erik ad annuire.
«Ve lo giuro.» sussurrò «So
che
lo rimpiangerò, ma ve lo giuro.»
Il Fantasma dell’Opera, fautore dell’incendio che aveva distrutto l’Opera Populaire, era morto. Questo era quello che si leggeva sui più importanti giornali di Parigi due giorni dopo il terribile incidente. Solo quattro persone sapevano la verità: Erik, diretto interessato, che, notando quanto il conte fosse invecchiato, aveva accettato di rimanere nella villa agli Champs-Élysées, il conte stesso, che, consapevole di non avere più molto tempo a disposizione, non avrebbe mai permesso al suo protetto di allontanarsi, Haydée, incantata dalla sua musica, che lo aveva consolato come avrebbe fatto una madre, e Bertuccio, senza il quale, sconvolto com’era, due sere prima Erik sarebbe caduto nelle mani dei gendarmi. Per quanto riguarda Christine Daaé, era ricomparsa il giorno dopo il rogo dell’Opera insieme al visconte di Chagny, con il quale correva voce che stesse per fidanzarsi ufficialmente. Grazie alle accurate veglie di Montecristo quelle voci non avevano ancora raggiunto l’orecchio attento di Erik che si era chiuso in un ostinato isolamento nell’ala della villa che gli era stata riservata, solo con la sua musica. Così trascorse un mese, in quella che si poteva definire come la calma prima della tempesta, una tempesta terribile. Una notte di fine febbraio Edmond Dantès, conte di Montecristo, morì tra le braccia della donna che aveva amato, sotto lo sguardo burrascoso dell’uomo che aveva finito per considerare come il figlio che non aveva avuto. La notizia si diffuse solo all’alba, quando Erik, sconvolto, uscì finalmente dalla stanza portando in braccio Haydée, svenuta per la stanchezza e il dolore. In poche ore tutta la villa era impegnata nei febbrili preparativi del funerale accompagnata dalle tristi note di una messa da requiem intonate da un pianoforte. Non c’era alcun bisogno di chiedersi chi fosse il musicista. Uno dei tanti salotti fu svuotato e adibito a camera ardente, la bara posta al centro, ma Haydée non mise piede fuori dalla propria stanza e la musica non smise mai di risuonare nell’aria, diventando a tratti intensa e rabbiosa come l’uomo che le dava vita. Nel pomeriggio si presentò alla porta il notaio, chiamato da Bertuccio, ancora pallido e quanto mai provato dagli ultimi avvenimenti. Il testamento, lasciato in un cassetto della scrivania del conte, fu aperto alla sola presenza del fedele intendente, mentre il pianoforte continuava ad intonare la sua triste melodia.
Suonava.
Non poteva, non voleva
smettere. O si sarebbe ritrovato a pensare a qualcosa che non fossero
le note.
Note che, per tenere impegnata la mente, non leggeva sullo spartito
davanti a
sé, ma sullo sfondo nero delle sue palpebre chiuse.
D’altra parte non aveva
alcun bisogno di vedere le sue dita lunghe e sottili correre su tasti
che
conosceva a memoria. Suonava. Continuava a suonare. Non si interruppe
nemmeno
quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi. Non poteva. O
avrebbe aperto gli
occhi su una realtà troppo dolorosa dopo quello che aveva
appena passato.
«Siete voi
monsieur Erik Lucher?» Spalancò gli
occhi. E si fermò. Un
solo uomo conosceva quel nome. E quell’uomo era morto. Si
alzò lentamente e si
voltò verso chi l’aveva costretto a tornare alla
dura realtà. Doveva essere il
notaio, perché quello che teneva in mano era il testamento
di Edmond Dantès. Un
lampo di comprensione gli illuminò gli occhi e tendendo la
mano in una muta
richiesta si fece consegnare il documento.
Scritto di mio pugno il 3 febbraio 1870.
L’inchiostro
era colato laddove
le lacrime erano inesorabilmente cadute. Terminata la lettura, la parte
di viso
lasciata scoperta dalla maschera bianca si contrasse in una smorfia al
contempo
di ira e di dolore.
“Maledetto…” pensò tremando
“Che
tu sia maledetto, Edmond Dantès! Sapevi che non avrei mai
acconsentito ad una
simile follia e hai fatto in modo che non potessi cambiare i tuoi
piani…” Un ghigno
amaro contorse la metà libera del suo volto.
«Monsieur?» azzardò cautamente il
notaio «Vi sentite bene?» Erik lo
ignorò, perso nella rilettura del testamento.
«Monsieur,» riprese l’uomo «una
delle lettere lasciate dal conte è per
voi…» Lui sollevò immediatamente il
capo
puntando gli occhi grigi sul notaio.
«L’avete qui?» domandò
impaziente. L’uomo annuì ed estrasse una busta da
una tasca della giacca. Erik
gliela strappò dalle mani, ruppe il sigillo di ceralacca e
si lanciò a
capofitto nella lettura della lettera, sforzandosi di ignorare la
sensazione di
nostalgia nel vedere la scrittura elegante di Montecristo.
Edmond
Dantès
«Eccellenza…» sussurrò la
voce di
Bertuccio. Erik si fermò, serrando le palpebre. Avrebbe
dovuto aspettarselo. Non
poteva essere l’unico a conoscenza del testamento.
«La contessa ha chiesto di voi…»
Annuì in silenzio e trovò il coraggio di riaprire
gli occhi ancora rossi di
pianto. Le sue labbra si piegarono in un sorriso amaro. Era calata la
notte e
lui nemmeno se n’era accorto. Si alzò e, preceduto
dall’intendente, raggiunse
le stanze di Haydée. Bussò piano ad una porta e
dopo un attimo, socchiudendola
appena, entrò. Si ritrovò nel buio quasi
completo, salvato dal debole chiarore
delle stelle. Lei era alla finestra, fissava il cielo con le lacrime
agli
occhi, piccoli specchi in cui si rifletteva una pace lontana.
«Haydée…» la
chiamò dolcemente.
Gli rispose solo un singhiozzo. Le andò vicino e
l’abbracciò, stringendola
tanto da arrivare quasi a farle male. Le baciò i capelli
mentre nuove lacrime
prendevano il posto di quelle ormai asciutte. Lei nascose il viso nel
suo
collo, mordendosi le labbra per trattenere il più possibile
i gemiti
addolorati. Non era una consolazione, per nessuno dei due, ma era
sempre meglio
che soffrire soli, abbandonati al proprio dolore. Dopo quella che
sembrò
un’eternità, Haydée sollevò
gli occhi lucidi in quelli di lui.
«Portami via da qui…» mormorò.
«Ovunque vuoi…» le rispose.
“…anche
se dubito che perfino in capo al mondo sarò abbastanza
lontano da Parigi… e da
Christine.”
xXx