Come presumibilmente buona parte di voi, a lungo
l’ho odiato, l’ho detestato, l’ho disprezzato e l’ho
biasimato. Per episodi su episodi ho riversato su di lui la mia antipatia e il
mio astio, l’ho definito disgustoso e miserabile, ho ritenuto fosse il
più infimo dei personaggi della serie. La recente epifania inaspettata
mi ha portata quindi a sentirmi persino un tantinello
in colpa nei confronti di quello che a conti fatti è, forse, il
più dilaniato e più luminoso tra tutti i personaggi, il
più altruista sicuramente.
Quindi ritengo che la mia prima opera su questo fandom debba spettare in omaggio a lui. A Uchiha Itachi.
Spero che la lettura possa essere piacevole.
suni
(Nel caso qualcuno non lo sapesse: shinobi sta per “ninja”, nindo per
“credo ninja”.)
L’importanza
di essere Fratello Maggiore
Ché
poi, in fondo, sono poche le cose veramente importanti.
Nella
vita puoi fare a meno quasi di tutto, lo so per esperienza: puoi fare a meno di
una vera casa, un posto che sia realmente tuo, puoi rinunciare al calore di una
famiglia, al sorriso di una donna da amare, puoi anche dimenticare cosa si
provi a camminare al mattino presto nelle strade del luogo in cui sei
cresciuto, salutando i conoscenti e i vicini come vecchi amici, puoi scordarti
il suono della tua risata e la sensazione che si avverte quando si è
felici. Puoi prendere a calci tutti i tuoi sogni idilliaci e i tuoi fastosi
progetti per l’avvenire, cancellare te stesso e gettarti a capofitto in
una vita fatta di orrore e rimorso, la stessa vita che, se qualcuno te la
raccontasse, penseresti di non poter mai vivere, ti diresti piuttosto la morte.
Però
ci sono cose cui comunque non puoi rinunciare, ma non sono quelle che ti
aspetteresti; non sono le semplicità quotidiane, le sicurezze stabili di
un’esistenza regolata e confortevole, le comodità
dell’essere nel proprio elemento ad avere davvero importanza. Tutto
questo lo si può tranquillamente lasciare dietro di sé senza
grandi sforzi. Ma ci sono altre cose, cose a cui quasi non badi tanto sono
naturali, che in momenti cruciali diventano irrinunciabili e a un’analisi
appena più accurata realizzi che è ovvio. Se sei un pittore e se è in questo che credi, non
è a un pasto caldo che non puoi rinunciare. Presto o tardi ti accorgerai
che ti stanno bene anche un tozzo di pane raffermo e qualche avanzo da buttare,
purché tu non debba fare a meno di quel che davvero conta: nel tuo caso,
colori per dipingere.
Io
sono uno shinobi e la cosa a cui non posso rinunciare
è il mio nindo.
E
il mio nindo, nessuno lo sa né nessuno lo immagina,
è semplicemente questo: proteggere il mio fratello minore ad ogni costo,
qualunque sia il prezzo da pagare. E proteggerlo non significa solo salvarlo
dalla morte, significa garantirgli un’esistenza degna e più felice
che si può, un’esistenza migliore della mia, senza l’ombra
della morte e della guerra ad incombere su ogni passo, senza minacce costanti
di sofferenza. Significa fare in modo che il mondo in cui vive, tutto intero,
cessi di essere teatro di continua violenza, che trovi finalmente pace e con
esso i suoi abitanti, e Sasuke tra loro. Per questo agisco, per questo
combatto, per questo mento, per questo, infine, uccido.
Un
nindo, di solito, lo si sceglie: è un
obiettivo che ci si pone, un ideale che si decide di difendere, un traguardo che
si sogna di tagliare. Io il mio non l’ho scelto, non ho compiuto una
decisione attiva: il mio nindo mi è piovuto
tra capo e collo incontrastabile nel momento stesso in cui mia madre, quella
donna che ho ucciso, ha smesso di urlare e
quando l’ho potuta vedere stringeva tra le braccia quella cosa,
così piccola, così inerme e che gridava come un’aquila
reale, tanto che non si capiva come potesse un esserino
tanto minuscolo possedere una voce del genere. Eppure sembrava di una
fragilità tale che sarebbe potuto bastare un refolo di vento o la
pressione di un solo dito per distruggerlo e in quel momento ho pensato che
mai, per nessuna ragione, avrei permesso che accadesse, e che lo avrei protetto
con ogni forza fino all’ultima goccia di sangue, finché
l’ultimo soffio di fiato non avesse abbandonato i miei polmoni e il mio
cuore avesse smesso di battere, e poi ancora. Perché quello era il mio
fratellino e nessuno avrebbe potuto ferirlo.
Non
l’ho scelto, però una volta che c’è stato l’ho
seguito, quel nindo, in ogni modo possibile e
l’ho amato con tutto me stesso, né mai avrei voluto cambiarlo con
nessun altro al mondo. E come si poteva, del resto, non amare quegli occhi grandi
e neri che mi osservavano come se fossi stato al di sopra di tutti, come se
fossi stato un dio per cui niente era impossibile? Come tradire l’ingenua
fiducia di quello sguardo che, se anche talvolta si sforzava di tingersi di
risentimento, collera o astio, riluceva sempre della più pura e
cristallina ammirazione?
No,
davvero, nessun sacrificio e nessuna rinuncia sono mai stati troppo grandi,
paragonati al ricordo della stretta delicata di quelle braccia intorno al mio
collo, del leggero rimbalzare delle sue gambette esili e paffute contro i miei
fianchi quando lo portavo in spalle e della pressione soffice della sua
testolina appoggiata alla mia nuca come nel più accogliente e sicuro dei
rifugi.
Sasuke
è stato la sola ragione che mi ha tenuto in piedi quando ho affrontato
le scelte più aberranti, il motore che manteneva lucida la mia mente
annichilita dal tormento della colpa, l’unico impulso che mi ha spinto a
continuare a lottare e, soprattutto, a sperare. È stato la luce, il
principio e il fine di tutta la mia esistenza. Se mi volto indietro adesso
tutto quel che resta sono immagini sbiadite, confuse e insignificanti spesso
lorde di sangue, ritagli di vita talmente privi di importanza che stento a
riconoscerli come parte della mia. Su tutti, l’unico che si staglia
nitido è quello del suo viso così simile al mio, impresso a fuoco
in ogni atomo del mio corpo.
Può
sembrare folle, tutto quello che ho fatto. Per preservare la vita di Sasuke e
il suo futuro ne ho distrutte innumerevoli altre, ho massacrato i miei, ho
annientato squadre intere, ho dimenticato di aver sognato un’esistenza
pacifica e serena e l’ho consacrata a una battaglia continua, senza
soste. Ho squarciato il petto di mio padre, mi sono preso l’ultimo alito
di vita di mia madre e di tutti quelli che credevano in me, ho disonorato il
mio nome e la mia memoria, ho travestito me stesso da mostro stomachevole e ho
accettato in silenzio il disprezzo di coloro che salvavo. Ho attirato persino
il suo stesso odio, ho fatto di Itachi il nemico disgustoso e maledetto di cui
Sasuke avrebbe sognato di liberarsi, su cui scaricare la sua rabbia e la sua
violenza perché non si lanciasse su obiettivi che avrebbero compromesso
la sua sopravvivenza, che avrebbero reso la sua vita infernale come la mia.
Lo
conosco, il marmocchio, molto meglio di quanto si conosca lui stesso, per
quanto si affanni a proclamare il contrario: Sasuke non sa calcolare le
conseguenze delle sue azioni, si muove secondo una logica di sensazioni e di
emozioni pure, è un’anima pulita che non conosce trame e
sotterfugi, non concepisce i meccanismi del potere e le sue macchinazioni
immonde. Se avesse saputo la verità si sarebbe distrutto con le sue
stesse mani scagliandosi contro un muro d’interessi e ambizioni
insormontabili e per questo, soltanto per questo, ho preferito e cento altre
volte preferirei che odi me e disprezzi me. Sasuke vive in un sogno e non
voglio che apra gli occhi e scopra le menzogne della realtà.
Finché il suo nemico sono io so che è ancora al sicuro, e allora
non m’interessa che quel che ho fatto sembri folle.
A
me basta ripensare a un giorno qualunque, a momenti banali e senza peso:
chiudendo gli occhi posso sentire lo scalpiccio leggerissimo dei suoi piedi che
mi seguono sul sentiero al limitare della foresta, con un tramestio irregolare
fatto di incespicate e saltelli incerti, su quelle gambe corte e sottili che
ancora non lo reggevano a dovere. Riesco a ricordare perfettamente il suo piede
che incappa in una radice più sporgente delle altre e rimane impigliato,
lo rivedo precipitare in avanti con gli occhi sgranati in una buffa espressione
di sconcerto e tendere la piccola mano nello stesso istante in cui si muovono
le mie, una a rispondere all’urgenza delle sue dita e l’altra ad
afferrarlo al volo appena un attimo prima che sbatta una facciata in terra: ed
è questo che sono e che voglio essere, lo scudo frapposto tra lui e il
rischio.
Lo
ricordo aggrottare il muso morbido con un misto di vergogna e fastidio per la
sua debolezza e la mia superiorità e mormorare qualche parola stizzita
– non ho bisogno che mi aiuti, ce
la faccio da solo, nii-san, lasciami - ma poi, quando
è di nuovo dritto in piedi e mi volto fingendo di non guardarlo, osservarmi
di sottecchi e sorridere, contento.
In
quel sorriso c’è il senso che io do a tutto, non ho bisogno di
altro. Quel sorriso è il mio nindo. Non ha necessità
di spiegazioni, di significati e di razionalità, non l’ha mai avuta;
ma forse alla fine la spiegazione c’è ed è ancora
più semplice di tutto il resto: non si tratta del fatto che io sono uno shinobi e che non posso rinunciare al mio nindo.
Io
sono un fratello maggiore. E non posso rinunciare ad essere fratello maggiore.
Questo
è quel che è davvero importante.
Ed
è questo il motivo per cui sono qui, adesso, a guardarlo
entrare da una porta rovinosa e a parlargli come se fosse semplicemente un
avversario da eliminare.
“Cosa vedi, con il tuo sharingan?”
“Vedo te…morto.”
“Ooh…tu
mi vedresti morto? D’accordo… Allora vediamo se ci hai visto bene...”
Ed
è sempre questo il motivo per cui, oggi, muoio.
Il corsivo finale è tratto dal manga (Shippuuden,
capitolo 380 pagine 11, 16 e 17 e capitolo 383 pagine 15-16). Copyright degli
aventi diritto (cioè non io, anche se mi piacerebbe molto).