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Autore: ethelsgonnabeokay    20/06/2014    8 recensioni
Sì, perché è facile tenere nascoste le ferite e fingere di non sentirle bruciare, è semplice lasciare che il fuoco ti passi attraverso e non fare una piega, se sei solo.
[...]
Sherlock si guardava allo specchio con attenzione, sperando, all'insaputa di se stesso, di vedere i marchi un po' più sbiaditi, di rivedere la pelle del suo petto di nuovo cucita insieme.

AU!E se gli insulti si marchiassero a fuoco sulla pelle?
Classificatasi quarta al contest "Fandom Packets (Contest multifandom a pacchetti)" di Ili91
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nick forum: Ethel00
Nick EFP: ethelsgonnabeokay
Titolo: You can read me like a book (but the pages are all torn and frayed out)
Fandom: Sherlock (BBC)
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo
Rating: Giallo
Pairing/personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, John/Sherlock
Pacchetto scelto: Free 5
Elementi utilizzati: Fluff, pairing a scelta, Dolore (anche Fuoco, ma pochissimo, perciò non credo di poterlo includere)
Avvertimenti/Note: (una sorta di) AU
Nda (facoltative): Perché è una sorta di AU? Praticamente, è ambientata nei luoghi della serie tv, perciò non è proprio un universo alternativo, ma ho deciso di aggiungere comunque l'avvertimento perché nella mia storia gli insulti si tatuano sul corpo delle persone – un'idea che ho avuto leggendo del progetto Weapon of Choice su Tumblr, nel quale sono stati fotografati dei ragazzini truccati in modo di avere sul viso degli insulti scritti a mo' di cicatrici.



Le parole non lasciano traccia, dicono, è come far cadere la neve sull'asfalto bagnato, tanto poi si scioglie. Tutto scorre, dicono, e allora perchè tenere a freno la lingua? Perché risparmiarsi i pettegolezzi, gli insulti sussurrati e quelli gridati al mondo, se alla fine passa tutto? Evidentemente, chi insulta non ha mai ricevuto insulti a sua volta, oppure capirebbe perché stare in silenzio qualche volta è meglio. Gli insulti si tatuano a fuoco sulla pelle, marchiandola per sempre – o almeno fino a che qualcuno non riesce a guarire le ferite, con tempo e dedizione.
Nessuno vede queste cicatrici, perché è molto raro che rimangano impresse sul viso, o sulle mani, sulla pelle che i vestiti non possono nascondere – chi vorrebbe avere mai a che fare con qualcuno che ha “grasso” o “quattrocchi” tatuato sul volto? Almeno da questo punto di vista, la natura è stata clemente. Sì, perché è facile tenere nascoste le ferite e fingere di non sentirle bruciare, è semplice lasciare che il fuoco ti passi attraverso e non fare una piega, se sei solo.

Sherlock si guardava allo specchio con attenzione, sperando, all'insaputa di se stesso, di vedere i marchi un po' più sbiaditi, di rivedere la pelle del suo petto di nuovo cucita insieme. Poggiò le dita sulla sua spalla sinistra, seguendo con i polpastrelli il contorno delle lettere che formavano la parola “mostro”. Per l'ennesima volta riconobbe quella scrittura come propria, attorcigliando con dolcezza un dito intorno alle curve delle lettere. Il fatto che fossero riportate con la sua grafia era solamente un ulteriore modo per incolpare se stesso di averle causate. Premette un po' di più il polpastrello contro la pelle infiammata, per vederla impallidire e per sentirla sfrigolare sotto le dita.
Sentì la porta di casa aprirsi, e le sue mani volarono sui bottoni per richiuderli. Quando John comparve sulla soglia, aveva ripreso la sua solita espressione apatica. Sollevò appena gli angoli delle labbra, mentre l'uomo si gettava in una delle sue lamentele senza fine sulla modernità di Londra.

«Se rischi di nuovo di farti uccidere, io... io ti ammazzo!» sbottò John, trascinandolo su per le scale del 221B, fino al loro appartamento.
«Non credo ti convenga, John... non avresti risolto un granché facendo così» ribatté Sherlock, seguendolo senza fare resistenza fino alla cucina, per poi ritrovarsi a fissare la schiena di John, che stava cercando di raggiungere uno scaffale fin troppo alto per lui.
«È un modo di dire, era una battuta...»  disse esasperato l'ex-militare, con la lingua tra i denti per la concentrazione. Chi aveva avuto la grande idea di conservare la cassetta del pronto soccorso così in alto? Doveva essere stata un'idea di Sherlock, sicuramente.
Si ritrovò improvvisamente circondato da un profumo di nicotina e di Sherlock così intenso da fargli girare la testa, tanto che gli ci vollero degli interi secondi per realizzare che il detective stava provando a raggiungere le garze e il disinfettante. John trattenne il fiato e cercò di concentrare la sua attenzione altrove, fino a quando Sherlock non gli porse quello che stava cercando con uno dei suoi ador- con uno dei suoi soliti sorrisetti sarcastici.
«Stupido Holmes» borbottò, mentre cercava di calmare i bollenti spiriti e rientrare nel ruolo di medico, che era quello che avrebbe dovuto avere fin dall'inizio. Sherlock strizzò appena gli occhi, attendendo una delle solite scariche di dolore che riceveva dove ogni insulto, e rimanendo sorpreso per l'ennesima volta di non sentirne nessuna. Era strano, John. Tutto in lui era strano. Come gli si rivolgeva, la dolcezza che riusciva a nascondere dietro una semplice parola.
«Togliti la camicia, Sherlock, devo disinfettare la ferita» disse allora John, cercando di mantenere il suo tono di voce stabile e asettico, di non far trasparire quanto quella situazione lo stesse mettendo in agitazione. Si sorprese quando vide i grandi occhi trasparenti del detective spalancarsi e implorare silenziosamente di non farlo.
«E se mi limitassi ad alzare la manica?» chiese a bassa voce. John annuì e si mise al lavoro. «Fa male?» domandò dopo poco. Sherlock, che sentiva la pelle bruciare a causa dell'acqua ossigenata, si morse le labbra e scosse la testa. Aveva sopportato di peggio.
«Ecco fatto» sussurrò John dopo una decina di minuti, abbassandogli la manica. Sherlock gli fermò una mano prima che potesse ritrarla e, d'istinto, la strinse appena, dicendo: «Grazie».

Con il tempo, John aveva costretto Sherlock ad accettare dei piccoli riti. Nonostante le prime lamentele del detective, l'insistenza dell'altro lo aveva portato addirittura ad apprezzarli – John sosteneva che i riti fossero qualcosa di obbligatorio nella vita di due persone, “Proprio come quando io vado a comprare il latte e tu fai esplodere la cucina”, e Sherlock aveva dovuto ammettere che, dopo aver passato una giornata intera a rincorrere dei criminali, una serata a tema Doctor Who era abbastanza rilassante.
Quella sera, avevano deciso di fare quello che amavano di più: John preparava il tea per entrambi e si sedevano vicini, sul divano che fronteggiava la televisione spenta. Allora cominciavano a raccontare della giornata appena passata; il più delle volte, era solo John a parlare, mentre Sherlock lo ascoltava con attenzione, incantato dalla sua voce come si lasciava incantare solo dalla musica del suo violino.
John aveva la testa in grembo a Sherlock, che guardava fisso davanti a sé, scavando con gli occhi nel muro, in cerca di chissà quali segreti.
«Sai, oggi è successa una cosa davvero strana in ambulatorio» cominciò il medico, più serio del solito. «Un bambino è venuto da noi, da solo, e ha chiesto che gli togliessimo delle cicatrici. Le ho esaminate io stesso – sai, erano quelle cicatrici da bambini, quelle con su scritto “stupido” e “secchione”, per intenderci. Quando gli ho spiegato che potevano andarsene solo col tempo, mi ha risposto che nessuno lo amava, perciò pensava che non se ne sarebbero mai anda- Sherlock!» protestò John, mentre il detective si alzava di scatto dal divano, facendogli sbattere la testa contro il bracciolo.
L'uomo prese tra le mani il violino e cominciò a suonare come un forsennato, rincorrendo note che John non aveva mai sentito. Si alzò e gli andò vicino, poggiandogli una mano sul braccio. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» Sherlock non rispose, lo ignorò imperterritamente, e John capì che voleva essere lasciato solo. «Va bene, buonanotte» disse piano, alzandosi in punta di piedi per baciarlo su una guancia. Sherlock lo seguì con la coda dell'occhio fino a che non lo vide uscire.

«Sherlock...» John ripeteva il suo nome come un mantra, lasciando che le loro labbra si incontrassero e si separassero ripetutamente, in un movimento perfetto, familiare e sempre diverso, lasciando che tutte le parole non dette, tutto l'amore che avevano represso per troppo tempo fluisse attraverso le loro bocche e diventasse sia dell'uno che dell'altro. Combaciavano come pezzi di puzzle, magari rovinati e un po' malridotti, ma creati per completarsi. Le dita di John, delicate in modo impensabile per qualcuno che era stato un soldato, volarono sul petto dell'altro e si fermarono sul primo bottone della camicia viola. Sherlock allora lo fermò, trattenendogli i polsi in una stretta decisa. «Cosa ho fatto?» chiese piano il dottore.
Il detective sfuggì al suo sguardo. «Spegni la luce, non voglio che mi guardi...»
«Sher-»
«Sul mio petto ci sono più cicatrici che pelle, non voglio... tu non...»
«Sono pronto a tutto per te» sussurrò John, abbracciandolo piano. «Posso, Sherlock?»
L'uomo scosse la testa, artigliandosi con le lunghe dita alla schiena dell'altro.
«Per favore, fidati di me».
Sherlock poggiò la testa sulla sua spalla e allentò un po' la presa, lasciando lo spazio necessario perché le mani di John riuscissero a togliergli la camicia. Quando sentì la stoffa scivolare per terra, Sherlock chiuse gli occhi. «Posso guardarti?» chiese ancora il dottore, determinato a fare solo e soltanto quello che l'altro voleva.
Il detective fece un passo indietro, gli occhi ancora chiusi, e annuì. John alzò la testa e vide parole su parole intrecciarsi su quel corpo, come se un pennarello rosso fosse passato su una lavagna bianca, scrivendo oscenità: “mostro”, “strambo”, “stupido”, “sbaglio”, erano tutti incisi così in profondità che John rabbrividì solo a vederli. Ma c'era qualcosa, in quel corpo maltrattato, che gli conferiva un'aria di forza, di perfezione. «Sei bellissimo, Sherlock.»
«Stai scherzando?» chiese Sherlock, aprendo gli occhi di scatto, sorpreso.
«No, no. Per niente.» John deglutì. «Fanno male?»
«Come... Mi sento come se avessi del fuoco, sotto la pelle...»
«Aspettami. Torno tra un secondo.» Sherlock si stese sul letto, a guardare il soffitto. Sobbalzò quando sentì la voce di John vicinissima al suo lobo sinistro. «Il bruciore scomparirà un po', ma ci vorrà molto per farlo andare via. Hai fatto infiammare le ferite, e non si sono cicatrizzate bene...» Parlando, si era messo a cavalcioni dell'altro – che aveva sentito distintamente la propria salivazione azzerarsi e raggiungere un livello che si sarebbe potuto esprimere solo con i numeri negativi – e aveva cominciato ad accarezzargli il petto con un asciugamano umido che sapeva di fresco. «Credimi, so come anestetizzare queste ferite...»
Sherlock rimase silenzioso, godendosi il graduale scomparire del dolore. Gli sembrava che John stesse accarezzando via le ferite di una vita in un battito di ciglia. Sentì il panno allontanarsi e tentò di protestare, ma prima che riuscisse ad aprire bocca sentì le labbra del dottore percorrere i bordi frastagliati delle ferite, e gemette piano. Solo quando le labbra di John arrivarono sulle sue capì la verità contenuta nelle parole che aveva appena pronunciato. «Hai anche tu delle cicatrici?»
«Ne è rimasta solo una... non brucia più come prima, sta guarendo. La stai guarendo».
«Posso vederla?»
John sospirò. «È sulla spalla... la spalla in cui mi hanno sparato, sì.»
Sherlock gli sbottonò la camicia con gesti incerti, e gliela sfilò via facilmente. Poi gli prese il mento tra pollice e indice e lo costrinse ad alzare lo sguardo, catturando i suoi occhi. «Ti fidi di me?» gli chiese sulla falsa riga di quello che l'altro aveva detto poco prima. John annuì e si sedette sul bordo del letto, per mostrargli la spalla.
La cicatrice che aveva lasciato il proiettile si vedeva ancora, ma sembrava quasi innocua; col tempo si era ristretta fino a diventare simile a una bruciatura di sigaretta. Poco sotto, in lettere cangianti, la parola “abominio” riluceva sulla pelle chiara. Sherlock sentì una mano invisibile che gli stringeva il cuore e i polmoni, lasciandolo senza fiato. Non sapeva cosa fare, perciò decise di imitare i gesti di John; si avvicinò a lui e lo abbracciò, poggiando le labbra sulla ferita. «Sei la persona migliore che io abbia mai conosciuto, John Watson» sussurrò piano, lasciando che il peso dell'ex-militare gli gravasse addosso, sorreggendolo.
Stettero così, in silenzio, fino a che John non si voltò verso di lui, cercando le sue labbra con la stessa foga e con la stessa riverenza con cui un assetato cerca un'oasi nel deserto. «Ti guarirò, Sherlock» sussurrava tra un bacio e l'altro. «Te lo prometto, te lo prometto».
   
 
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