Anime & Manga > Detective Conan
Segui la storia  |       
Autore: Il Cavaliere Nero    21/06/2014    8 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve a tutti!!
Ringrazio coloro che mi hanno reso tanto contenta con le loro recensioni ^----^ e coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti o le seguite. Grazie di cuore! :D
Spero che anche questo nuovo aggiornamento vi piaccia!

 
Capitolo Quarto – Fuoco di paglia?
 

«L'uomo è uomo, e quel poco d'intelligenza
che egli può avere serve a poco o a niente
quando arde la passione.»

Johann Wolfgang Goethe 


 

Ferma ed immobile in attesa che il destino le si presentasse, e reclamasse inesorabilmente i suoi programmi; questa era la situazione tipo che da sempre aveva desiderato, con tutta l’anima, evitare: lasciarsi gradualmente invischiare in una frivola apatia* capace di distrarla e, soprattutto, frapporsi tra il suo presente e la sua meta. Voleva essere lei a decidere in quale direzione andare, e non che il vento la trasportasse come una foglia troppo debole per mantenere il legame vitale con l’albero, ma troppo forte per sgretolarsi con felice cupio dissolvi in mille minuscoli residui, al pari del polline d’un fiore di cui non resta altro che la lontana fragranza trasportata dalla brezza per alcuni metri, prima di svanire come non fosse mai esistita.
Ogni decisione era ponderata minuziosamente, nella consapevolezza che non esisteva alcun fato superiore, alcun destino, alcun progetto deterministico: nella disperata speranza d’essere lei a decidere della sua vita, ne traeva esaltazione ed angoscia allo stesso tempo. Perché consapevole dell’enorme potere, e così delle implicazioni da esso scaturite: lei era sola di fronte alle sue scelte, perché nessun altro le aveva prese al suo posto, da nessuno era stata condotta lì, in quel punto, se non dalle sue gambe: così sperduta, gettata nel mondo, sola e senza scuse, Ran era condannata ad essere libera. Nessun altro se non la sua propria coscienza legittimava la sua condotta.
Vasta libertà, spropositate possibilità, infinito rischio: l’oceano le si spalancava sulla cima degli eventi futuri e solo lei reggeva il timone della zattera. Merito per aver cavalcato l’onda anomala, colpa per essere incappata nel gorgo centrale della più feroce tormenta. L’orizzonte le appariva libero, anche se non era sereno.*
Il suo sogno era il suo scopo; ma nel suo sogno si contemplava tutto il suo mondo. Quella dimensione di valori e affetti, di amore in ogni sua forma- dalla più amichevole alla più erotica- che è tanto potente da straripare oltre l’anima stessa, stimolato non da secondi fini ma generato dall’abbondanza di serenità a risiedere nel cuore. Questo lei voleva essere, ricchezza aristocratica di animo e di forma, un sinolo di  forza spirituale e fermezza di carattere da possedere per se stessa ed elargire agli altri; questo voleva che fosse il suo mondo, persone imprevedibilmente pittoresche ma allo stesso tempo fermi nelle loro scelte, imponderabili e sicure.
Non riusciva quasi mai nei suoi obiettivi; l’ideale se stessa collimava raramente con la Ran reale; ogni decisione era seguita da indecisione: il dubbio di aver sbagliato, ed essere caduta nell’azione opposta a quella più sensata. I passi indietro, poi di nuovo avanti: devi indietreggiare, no! Devi continuare a testa alta.
E le persone che aveva intorno non le parevano di certo migliori; i più grandi affetti si prostravano ai piedi degli egoismi personali: i suoi genitori ne erano esempio. L’amore per lei o per la famiglia, per il loro progetto o qualunque fosse stata l’idea che di fronte all’altare avevano in qualche modo e con una certa intensità cullato non avevano impedito loro di prendere vie tanto diverse da vedersi raramente; il padre nell’agenzia investigativa a bere birra tra un caso e l’altro, la madre ad argomentare sentenze che vinceva quasi in toto. La regina del foro e il detective di Beika Choo.
Li amava: li stimava profondamente per alcuni lati del loro carattere, avrebbe compiuto i sacrifici estremi per loro. Ma non sentiva di poterli appoggiare in tutto e per tutto, alcune loro scelte, atteggiamenti, idee…un altro mondo.
C’era un’unica persona che le dava piena fiducia; che sapeva, ne era certa, fosse consapevole quanto lei del grave peso di una scelta, di ciò che essa comporta: che ogni nostro atto non è estraneo da ingerenze ed anzi, l’uomo che vede il tramonto d’un giorno ignora che per suo figlio sarà l’alba.
Ed era qualcuno su cui aveva da sempre riposto ogni speranza, una piccola luce a intermittenza, talvolta più flebile talvolta più forte, che mai scompariva del tutto dalla sua vita: non si trattava di un fuoco di paglia, era un’intesa di mente e di spirito.
Era Shinichi Kudo, e dopo averlo personalmente incontrato quell’intesa era diventata anche di corpo.
Il tono di voce sicuro e il brillare degli occhi a ricordarle ogni momento la sua tenacia.
Prese un respiro profondo prima di estrarre il suo telefono cellulare dalla tasca della gonna, quindi compose il suo numero….poi riagganciò.
-Meglio così…- pensò, avvampando, nella convinzione che a chiamarlo avrebbe dimostrato una eccessiva sfacciataggine.
Digitò un rapido sms:
 
Mio padre sta andando alle corse dei cavalli nel distretto di Fukuia, ma non so da quale spalto assisterà. La corsa inizia alle 11.30.
 
Poi lo cancellò, scuotendo il capo tra sé e sé.
No, non gli avrebbe inviato un sms.
Gli avrebbe telefonato.
 
 
§§§
 
 
 
“Ma chi si crede di essere?!” lo sbuffo seccato le arrivò chiaramente attraverso la cornetta del telefono senza fili, che reggeva tra orecchio e spalla.
Da mezz’ora continuava a sciacquare lo stesso piatto, che non solo era stato ripulito da ogni traccia di cibo, e di sapone; molto presto si sarebbe ossidato!
“Perché non vieni a vivere da me? Te l’ho detto mille volte…”
“…e io mille volte ti ho detto di no! Non posso  lasciare papà da solo, mamma! Si è dimenticato dell’apputnamento, ma avrà avuto di sicuro da lavorare e…”
“Da lavorare? Ran, da una settimana gli ricordo che oggi doveva venire qui in ufficio per ascoltare la mia cliente. Anzi, doveva esserne onorata! Anziché suggerirle di rivolgersi ad un detective con la d maiuscola, le ho combinato un incontro con lui! Gli trovo il lavoro, che lui non si merita! Se pensa di passarla liscia anche stavolta, si sbaglia…”
Sua madre, Eri Kisaki, era soprannominata La regina del foro. Era l’avvocatessa più stimata e riconosciuta, ma per questo aveva anche molti clienti, poco tempo libero, e una grande intransigenza.
Spesso si era chiesta come, all’inizio, lei e suo padre si fossero trovati: i loro caratteri erano quelli che molto gente avrebbe definito come incompatibili.
“Sono sicura che è stato trattenuto in centrale.”
“Rincaserà ubriaco fradicio, Ran.”
La ragazza posò il piatto, ma non chiuse il rubinetto dell’acqua; la mente continuava a pensare ad altro, sebbene le parole pronunciate alla madre fossero sensate.
Sperava che Kogoro stesse facendo tardi per via di Shinichi; che si fossero incontrati, si fossero parlati, si fossero alleati. Non era preoccupata, non per la salute del padre, quanto meno; ma era agitata, trepidante. Le sarebbe tanto piaciuto che anche l’uomo cambiasse idea su Shinichi, che finalmente capisse che bella persona era, e che…
“Suonano alla porta, mamma! Dev’essere lui!” cinguettò allegra, desiderosa di buone notizie, in quel senso.
“Oppure gli agenti che sono stati costretti a scortarlo a casa perché non infastidisse le ragazzine in minigonna.”
“Mamma…”
“Buonanotte, Ran. E pensa a quello che ti ho detto.” L’avvocatessa riagganciò senza darle tempo di rispondere.
In un lampo chiuse l’acqua e si precipitò alla porta, per accogliere suo padre, burbero come al solito.
“Quanto ci hai messo, che stavi facendo?”
“Ero al telefono con la mamma, papà! Ti sei dimenticato di andare da lei!”
“Non mi sono dimenticato, non ci sono andato e basta. Crede di farmi l’elemosina? Si sbaglia di grosso, non ho bisogno dei clienti che mi procura lei! Sono un grande investigatore, il migliore di tutti, e non ho bisogno di niente da lei!”
Questi erano Kogoro ed Eri.
L’uomo filò dritto in cucina, accucciandosi sul tatami con l’intenzione di mangiare immediatamente, ma, pur la tavola apparecchiata, i piatti erano vuoti.
“Non ceniamo questa sera?”
“Sì, papà. Ti faccio subito il piatto.” Sbuffò lei, rassegnata. In altre occasioni avrebbe insistito in favore di sua madre, cercando di fargli capire, anzi di ricordargli, quanto fosse orgogliosa; e come quello fosse il modo che aveva per dimostrargli il suo affetto, e la sua stima. Ma in quel caso c’era qualcosa che le premeva di più, perciò lasciò correre.
“Dove sei stato oggi?”
“Con l’ispettore, come al solito.”
“In centrale, quindi?”
“In centrale, sì.”
“Davvero?”
Il dialogo s’era svolto senza che si fossero guardati negli occhi; allora Ran trattenne la ciotola di riso tra le dita mentre Kogoro cercava d’afferrarla, in modo tale da costringerlo a sollevare lo sguardo.
Vacillò.
“In centrale. Sì.”
Ran sospirò, afflitta. Forse Shinichi lo aveva seguito di nascosto; forse aveva altri impegni e non era andato, forse aveva cambiato idea. Eppure quando l’aveva avvisato, lui era stato molto laconico, come se avesse deciso di raggiungerlo immediatamente:
“Bene, ho capito! Ti ringrazio di cuore, Ran.”
“…e poi tornando indietro ho incontrato il tuo amico.”
Il cuore ebbe un tuffo.
“Il mio…amico?”
Era avvampata.
“Quel ragazzino che gioca a fare l’investigatore.” Fece una pausa. “Abbiamo parlato un po’.”
“Di cosa?”
“Lavoro. Volevi ti offrissi in sposa?” la incenerì con gli occhi.
“Non essere sciocco, papà!”
Kogoro fingeva di non accorgersi, ma sapeva da quanto tempo Ran seguisse le gesta del giovane. Ignorava, certo, i loro rapporti, ma sapeva che lei nutriva un debole per lui. Lo sapeva benissimo;  e la cosa lo infastidiva molto.
“Abbiamo parlato un po’ dell’indagine. E poi mi ha dato il suo indirizzo, se dovesse servirmi.” Si fece sfuggire.
“Perché dovrebbe servirti?”
“Non ti riguarda, tu di indagini non ne capisci niente! E ora, lasciami mangiare.” Troncò il discorso, e inutile fu cercare di riprenderlo.
Ma nella mente della karateka si era fatta largo un’idea che, più avanti nel tempo, avrebbe sorpreso persino lei stessa; un’azione propria più di Sonoko che non di Ran. Ma forse per via dei suoi consigli, forse per il soggetto in questione, che di ora in ora le appariva sempre più affascinante, forse per ripicca contro suo padre, forse a causa di tutti questi fattori insieme…quella notte frugò silenziosamente nelle tasche di ogni pantalone, giacca e cappotto di suo padre finchè non trovò il suo biglietto da visita; l’indirizzo troneggiava in corsivo sotto il suo nome: via Beika 2/21.
 
§§§
 
“Avanti, avanti, Minnie! CAVALCA!” Ruggì Kogoro,  sbracciandosi come preso da attacchi epilettici dal più alto degli spalti: si rifugiava sempre lì, con un cappottone marrone in stile Commissario Maigret, e un paio di occhiali da sole bel calcati per coprirgli il volto. In realtà, era presumibile ritenere che, anche se si fosse seduto in prima fila a faccia ben scoperta nessuno l’avrebbe riconosciuto; o se l’avessero riconosciuto, quelli che in totale sarebbero andati a chiedergli l’autografo ed importunarlo sarebbero stati probabilmente due. Nel corso di due mesi. Ma a lui piaceva cullarsi in questa idea di necessario anonimato; e si conciava a quel modo, senza capire che così vestito di un abbigliamento tipico dei film d’azione di quart’ordine, che vantavano un cast di attori smarriti nel tempo e negli spot pubblicitari di patatine e mobili usati, dava ancora più nell’occhio; anche i fantini in gara alzando per un istante gli occhi l’avrebbero notato per pensare: "Ma quello...?".
“Ma lei non è il detective Mouri?”
Una voce alle sue spalle lo richiamò.
Si voltò con uno sbuffo seccato, quando dentro di sé il suo ego aveva preso a gonfiarsi di voli pirotecnici circa la sua fama e, soprattutto, il suo favore in tutto il Giappone.
“Oh…sei tu.” Rimase deluso quando si ritrovò di fronte Kudo.
Il detective più giovane era vestito in maniera estremamente normale; e lui, di cercare di passare inosservato, avrebbe avuto motivo. Ma non c’è nulla di più sfuggevole dell’ovvio*, e nessuno lo sapeva meglio di Shinichi: abbigliato normalmente, avrebbe attirato ancora meno l’attenzione.
Jeans neri e giubbetto in pelle da moto; occhiali da sole e casco sul braccio destro.
“Ti ho visto mentre scendevo le gradinate. Posso darti del tu, vero?”
“Preferirei di no.” Tagliò corto, tornando a rivolgere gli occhi sulla gara e dando a lui le spalle.
Shinichi rise.
Gli si affiancò, proseguendo:
“Ha ragione. L’età si rispetta.” Che voleva significare: Se ti do del tu, è perché sei più grande –vecchio!- di me, non certo perché sei migliore.
Mouri lo capì subito; si voltò con occhi infiammati verso il giovane, per rispondere a tono, ma vide sul suo volto dipinto un sorriso divertito; non derisorio, ma affabile.
Si sfilò gli occhiali per scrutarlo negli occhi:
“Ora ho la sua attenzione, Mouri-kun!”

L’uomo sospirò, piegando la bocca in una smorfia infastidita.
“Segue sempre le corse?”
“Sì. Mi piace venire qui.”
Poi, titubante se troncare o meno il dialogo, decise infine di proseguire.
“E tu, ragazzino?”
Shinichi sorrise tra sé e sé, notando che mai lo aveva chiamato per nome, né tanto meno per cognome. Gli appellativi erano: ragazzino, ehi tu, oh. Una volta, la prima volta in cui si erano incontrati, l’aveva addirittura apostrofato ‘sbarbatello’ con l’ispettore Megure; pensando di non essere sentito da lui, aveva detto all’omone: “Ma è sicuro che possiamo fidarci di questo sbarbatello?”
“Non vengo molto spesso, in realtà. A me piace il calcio. Ci ho anche giocato, fino a un paio di anni fa.”
“Eri bravo?”
“Non me la cavavo male.” Evitò di dire che era stato richiesto per entrare nei Tokyo Spirits, ma che aveva rifiutato perché riteneva il calcio utile solo all’allenamento necessario per inseguire i criminali. Aveva interrotto quando aveva cominciato ad imparare il Jeet Kune Do* , ma l'impossiblità del suo maestro a proseguire gli allenamenti l'aveva costretto di nuovo all'immobilità. I nemici si facevano più forti e lui doveva essere in grado di difendersi.
“Io non so andare a cavallo, ma mi piace guardarli. E mi piace anche scommettere.”
“L’avevo intuito…” ammiccò Shinichi, ricordando il modo scomposto con cui si stava sbracciando per tifare prima che lui lo salutasse. Ci fu una breve pausa; poi, Kudo pensò che fosse giunto il momento di testare le cose.
“Mouri. Ci sono alcuni punti dell’indagine che non mi sono molto chiari.”
“Parli della rapina?”
“Sì. Perché rapinare  di sabato mattina? Capisco ci sia poca gente, ma a maggior ragione: di solito più clienti significano più ostaggi. Perché rinunciarvi? E poi, leggendo i rapporti che l’ispettore Megure mi ha fornito, ho scoperto che dentro la banca è entrata una persona soltanto…la donna che è poi stata ritrovata uccisa nel capannone. Lo testimonia il fatto che il proiettile che l’ha uccisa appartiene alla sua stessa pistola, probabilmente il complice o gliel’ha sottratta, o gliel’aveva prestata in precedenza. Ma perché il complice l’ha aspettata in macchina? Perché non è entrato con lei? E quando poi ha sentito il colpo provenire dall’interno della banca- quel proiettile che abbiamo ritrovato conficcato nella colonna e che ci ha permesso il confronto- perché non l’ha raggiunta? Perché l’ha lasciata sola? Non è ragionevole.
Se avesse voluto ucciderla avrebbe fatto meglio a fingere un incidente durante la rapina stessa, o a inscenare un incidente automobilistico. Perché freddarla in un vecchio capannone?”
“Forse credeva che così facendo il cadavere non sarebbe stato rinvenuto.” Kogoro cercò di seguirlo nei suoi ragionamenti, anche se il cervello di Shinichi lavorava più velocemente del suo.
“O almeno non subito. Hanno commesso la rapina di sabato mattina perché erano inesperti e non erano interessati agli ostaggi, ma solo ai soldi…e avere meno gente tra i piedi gli avrebbe potuto rendere l’opera più facile, nella loro opinione. E la donna è entrata da sola perché…beh, forse l’altro faceva da palo. Lei pensava di potersela cavare da sola e di non avere bisogno d’aiuto. E’ come hai detto tu, la spiegazione più probabile: si mettono d’accordo, si dividono i compiti, eseguono la rapina e durante la fuga litigano, allora lui la ammazza e poi scarica il corpo in quel capannone, convinto che, essendo abbandonato, nessuno l’avrebbe trovato, e il tempo tra la morte ed il rinvenimento gli avrebbe fornito il tempo necessario per scappare.”
“Non è detto. Non abbiamo ancora ritrovato l’automobile, forse la donna è stata uccisa nel capannone. Dovremmo perquisire la macchina con il luminol per essere sicuri che le abbia sparato lì dentro.”
“Certo, certo.” Si corresse in fretta Kogoro “è quello…è quello che intendevo.” Balbettò.
Il volto del ragazzo, da corrucciato e teso che era divenuto, tornò affabile.
“Comunque, speriamo di trovare presto qualche traccia che ci indichi la strada da seguire.”
Quella frase fu di troppo. Avendo parlato del capoquestore Ikari pochi giorni prima, Kogoro interpretò subito quell’affermazione in maniera singolare, e gli domandò immediatamente:
“Non ti fidi della polizia?”
Ecco a cosa aveva portato quel discorso.
-Questo ragazzino sa che…?-
Kudo sorrise; fu un’espressione del volto malinconicamente distesa.
“Non di tutta.”
 
 
Ran non sapeva niente del dialogo avuto tra i due uomini, né sospettava fossero arrivati a parlare del capoquestore. Ma era curiosa…e preoccupata. Sino al giorno prima aveva avuto la certezza di poter conservare un legame con Shinichi in virtù del favore che lui le aveva chiesto: metterlo in contatto con suo padre. Ma quando quel contatto si fosse stretto con Kogoro direttamente, che ruolo avrebbe avuto lei? E se non lo avesse più rivisto? E se non ci avesse più parlato?
Per tutta quella mattina trascorsa a scuola, non fece che ficcare la mano in tasca per assicurarsi che il foglietto con l’indirizzo di Shinichi fosse ancora  in suo possesso –come se non lo ricordasse nitidamente a memoria. Ma quel biglietto da visita era qualcosa di reale.
E’ possibile concretizzare qualcosa che è di per sé intangibile? Felicità, speranza, sogni, paure…come li quantifichi? Come li rendi vivi, visibili ai tuoi occhi? Sono sentimenti e sensazioni che svaniscono in un lampo, così come all’improvviso sono comparsi.
Quel foglietto di carta era il suo legame concreto con Shinichi Kudo.
Stava tornando verso casa a lezioni concluse quando le squillò il cellulare.
“Ran! Sto andando dall’ispettore Megure, mangia pure qualcosa fuori con la tua amica riccona, se vuoi.”
“Perché? Ci sono novità sull’indagine?”
“Sì.” Non stava più nella pelle dal dirle le novità; e non certo per l’inchiesta in sé…
“Quel tuo amichetto si era lasciato sfuggire un indizio importantissimo! L’agente Furuya* questa mattina ha avuto un’illuminazione ed è andato in obitorio per riesaminare il cadavere della ragazza; le ha trovato addosso un cellulare che a lui, che ha esaminato il corpo quando è stato trovato, era sfuggito, evidentemente.” Sottolineava quella mancanza con boria e soddisfazione.
“Ne hanno estratto i tabulati e pare che l’ultimo numero chiamato appartenga ad un certo Oki Ruroshi. E’ proprietario di una villa piuttosto modesta ai confini della periferia. Andiamo a farci quattro chiacchiere.”
Non le diede il tempo di rispondere, proprio come sua madre aveva fatto la sera prima, che le riagganciò in faccia. Ma a lei non importò; pensò solo:
-Possibile che Shinichi non se ne sia accorto?-
Decise senza quasi rendersene conto di andare a casa sua: la mente le diceva di avvisarlo delle novità e ragguagliarlo dell’errore commesso, il cuore le suggeriva di utilizzare qualunque possibile pretesto per rivederlo.
Girò i tacchi e si diresse in via Beika; non era troppo lontana dalla sua scuola.
-Ok, Shinichi probabilmente non aveva visto quel telefonino. E con questo? Non gli è concesso un errore?
Quando qualcuno è bravissimo, le persone attorno a lui diventano ancora più severe: e gli sbagli che in altri sono immediatamente giustificabili, se commessi da lui diventano gravissimi. Non si è comportato da gradasso, reclamando di sua proprietà l’indagine e volendo tenere tutte le informazioni per sé. Appena ha sospettato che il caso dell’assassinio su cui stava lavorando e la rapina analizzata da mio padre e dall’ispettore potessero essere collegate, li ha avvisati subito, chiedendo la loro collaborazione. Anzi, offrendo la sua, di collaborazione. Non mi pare atteggiamento di una persona boriosa che vuole fare tutto da solo, con le sue forze. A papà è antipatico a prescindere…me ne dispiace molto. Ma è un errore soltanto, e come tale va computato.-
E non elucubrava questi pensieri per giustificare Shinichi ad ogni costo, o peggio ancora, per giustificare se stessa e difendere in un’ aurea cornice l’idea che si era fatta di lui. Lo pensava spontaneamente, senza volontà polemiche, senza risentimento; era una semplice considerazione che le occupò la mente finchè non raggiunge Villa Kudo: una meravigliosa abitazione in stile occidentale, dall’ampio cortile tutt’intorno, e un grande cancello ad isolarlo dalla strada, comunque poco trafficata.
Ne rimase affascinata; ma molto presto qualcos’altro attirò la sua attenzione.
“A presto, Hidemi.”
La voce di Shinichi.
Si affacciò oltre il cancello e vide il detective sulla soglia della porta, in camicia bianca e pantaloni eleganti. I piedi però erano nudi. Di fronte a lui una donna molto alta, e bella, avvolta in un tailleur elegante e molto raffinato, che le evidenziava le curve.
Gli stava dicendo qualcosa, ma parlava a voce talmente bassa che non riuscì a cogliere le parole; le dava  le spalle, perciò non fu capace di leggerle le labbra. Mentre si sporgeva di più, lo stomaco le si contorceva.
-Chi è questa donna?!-
Non pensò di avere a che fare con un detective…con Il Detective. Dopo cinque secondi che tentava di spiarli, lui si sentì osservato e mentre ancora la giovane gli parlava, lui volse gli occhi oltre le spalle di lei, e vide la liceale.
Contemporaneamente lui sgranò gli occhi e lei avvampò:
“Ran!” la chiamò, interrompendo la mora di fronte a lui che, allarmata, si voltò. La giovane la vide in faccia: era altrettanto bella. Un volto chiaro, gli occhi azzurri e meravigliosamente truccati. Le parve di conoscerla.
-Ma certo! E’ un’attrice…- realizzò, cercando nella sua mente il nome che la gelosia le impediva di ricordare.
Shinichi poggiò una mano sulla spalla della donna, e la rassicurò:
“E’ la figlia di un collega.”
Quella presentazione le diede sui nervi. Dal canto suo, Hidemi parve rasserenata.
“Buonasera, signorina…Ran, giusto?”
“Esatto.” Mugugnò a mezza bocca, i pugni distesi lungo i fianchi.
“Si è fatto tardi, io devo andare.” Tornò a rivolgersi al ragazzo, che le sorrise:
“Certo. Buona serata…e buon lavoro.” Aggiunse repentino, con un mezzo sorriso “Ti accompagno.”
E non curandosi d’essere scalzo, la scortò lungo il vialetto sino al cancello; le aprì galantemente la porta e la fece uscire.
“Arrivederci, signorina Ran.”
“Salve.” Le rispose seria, infischiandosene del sorriso gentile che l’attrice le aveva rivolto. Rimase immobile a guardarla andare via, salendo in una macchina blu metallizzata di gran classe.
“Alle coincidenze, io non credo.” La richiamò Shinichi, appoggiando la testa alla mano che ancora reggeva il cancello.
“Perché sei qui?”
“Chi è quella donna?”
“Perché sei qui?”
“Mhm…” Ran non rispose, tornando a guardare l’automobile guidata da lei che, proprio in quel momento, passava davanti alla villa. I due si salutarono di nuovo con un sorriso.
“E’ la tua amante segreta? Si è spaventata perché pensava che fossi una giornalista in caccia di scoop?” cercò di scoprire, nelle sue intenzioni quella di fingersi pettegola e sfacciata quando a muoverla era solo l’acuta e profonda gelosia.
Shinichi le regalò un sorriso impertinente.
“Vuoi entrare, Ran?” E, terza persona a non attendere una sua risposta, le diede le spalle facendole strada verso la porta.
Lo seguì, allo stesso tempo imbarazzata ed elettrizzata. Ma non riusciva a non pensare che Shinichi indossava una camicia bianca, sciattata e sbottonata di parecchio; ed era scalzo. E aveva appena salutato una bella donna, probabilmente prima entrata in casa sua.
La testa volò a quel che dentro quella casa poteva essere successo, a quel che poteva essersi consumato in quelle mura. E lo stomaco le mandò segnali di dolore.
“Scusami, non sarei dovuta piombarti qui all’improvviso.” Si decise a dirgli, mentre varcava la soglia dell’abitazione. “Avrei fatto meglio a telefonarti.”
“Non ti preoccupare.”
Chiuse la porta alle sue spalle con un colpo secco, e la guardò negli occhi:
“Hidemi non è la mia amante.” Le rivelò.
Ran arrossì; desiderò ardentemente che quell’affermazione accompagnata dall’azione decisa volesse nascondere qualcosa come: “Lei non è la mia amante, io non sono fidanzato e non ho nessuna donna a cui dovere fedeltà. Ed ora sei tu la donna che è qui, in casa mia, chiusa in casa mia.”
Ma scosse violentemente il capo, cercando di tornare coi piedi per terra.
“E chi è?”
“Un’amica.”
“E’ un’attrice.”
“Una cosa non esclude l’altra.”
“Le attrici sono sempre coinvolte in torbide relazioni con uomini famosi.”
“Mia madre era un’attrice.”
“Lo so.”
Le lanciò un’occhiata divertita, e lei si corresse: “Cioè…devo averlo sentito da qualche parte.”
Così battibeccando giunsero in salotto, dove Ran rimase a bocca aperta di fronte ad una libreria spaventosamente enorme. Solo allora ricordò che suo padre, Yusaku Kudo, era uno scrittore.
“Dimmi, Ran. Vuoi qualcosa da bere?”
Uno scrittore e un’attrice che l’avevano educato secondo i modi galanti e chic dell’alta borghesia cui la loro famiglia apparteneva.
“No, Shinichi. Ti ringrazio! Ma devo urgentemente parlarti.”
“Ebbene, dimmi.”
“L’ispettore Megure ha rinvenuto, per opera dei suoi agenti, un telefono cellulare sul corpo della donna uccisa. In base a quello sono arrivati ad un certo…Ruii…mh, non ricordo il nome preciso, ma comunque un uomo che possiede una casa in periferia, e sta andando da lui. Aspetta…Oki Rurushi!”
Shinichi era impallidito di colpo:
“Un cellulare?!”
Lei annuì.
“Mi pare che fosse l’ultima chiamata in uscita quella fatta a questo signore…”
In un batter d’occhio si infilò la giacca e prese il cappotto.
“Vai da loro? Non so di preciso l’indirizzo…”
“Non importa, potrò facilmente reperirlo con una telefonata.” Sembrava parlare più con se stesso che con lei, che avrebbe voluto in qualche modo rassicurarlo:
“Calmati, non è colpa tua. Ti sono venuta ad informare subito, sei al loro stesso passo, non preoccuparti!” ma temette di farlo innervosire, e non seppe partorire nient’altro. Quindi tacque.
Lo osservò muta mentre afferrava il casco e qualche altro oggetto dal cassetto della scrivania, posizionata di fronte quell’enorme libreria-biblioteca personale.
“Non vorrei sembrarti scortese, Ran, ma a meno che tu non voglia rimanere qui in casa mia da sola, sono costretto a chiederti di uscire.”
“Ma certo, ma certo! Scusami Shinichi!” fece retro font, con lui al seguito.
“Tutt’altro!” chiuse la porta di casa alle loro spalle, dopo aver afferrato le chiavi al volo. Calzò il casco, e si affrettò lungo il vialetto: “Sei stata molto gentile, oltre che utile, ad avvisarmi.”
Saltò in sella alla moto e mise in moto allo stesso tempo: “Grazie di cuore, Ran!” le gridò mentre partiva in direzione centro.
 
§§§
 
I poliziotti, con al seguito Kogoro, parcheggiarono proprio all’angolo della villa, piuttosto dissestata e simile ad un vecchio capannone.
“Che aria spettrale…” commentò Kogoro, slacciandosi la cintura di sicurezza. Fece per scendere dalla vettura, ma l’ispettore lo bloccò.
“Fermo, Mouri! Guarda.”
Di fronte al cortile incolto e colmo di erbacce, due macchine parcheggiata in mezzo al campo e, attorno, tre uomini a discutere. Tre brutti ceffi.
“Scendiamo silenziosamente senza farci vedere e stiamo pronti ad intervenire. Ma rimaniamo immobili per il momento.” Ordinò ai suoi uomini e, indirettamente, anche a Kogoro. Poi gli additò una chiavetta USB che l’uomo biondo tra i tre, reggeva tra le dita:
“Potrebbero esserci le prove della rapina, se quelli sono complici dell’assassino. Magari le registrazioni di video-sorveglianza della banca, o i dati che hanno usato per raggirare la sicurezza. Puntiamo a quella.”
Si accucciarono sulle ginocchia, celandosi dietro gli pneumatici.
“Non interveniamo, o potrebbero scappare e distruggere le prove. Non devono vederci.”
D’un tratto una mano afferrò Kogoro per una spalla, e lui trasalì.
“Che cosa ci fai tu, qui?!” sbraitò, tirandola per un braccio affinchè s’accucciasse anche lei.
“Mi hai fatto venire un infarto, ma che idee ti vengono?!” non attese la risposta: “Sei pazza, perché sei qui?” insistette, stringendo la presa.
“Io volevo…” balbettò lei, in difficoltà. Non aveva pensato ad una scusa, eppure non si sentì in colpa, né si pentì.
Era lì per Shinichi.
Avrebbe aiutato quel ragazzo coraggioso con le unghie e con i denti.
“…volevo essere d’aiuto.” Non mentì, omettendo il soggetto della sua frase.
“Aiuto in cosa?! Come hai fatto a sapere che eravamo qui?”
“Io…sono venuta in centrale, e Reika-san mi ha detto che…”
Era vero.
Ma intervenne l’ispettore: “Silenzio, Mouri, o ci scopriranno. Ran-chan, questo non è un gioco, non dovevi permetterti di venire sin qui. Ma oramai non puoi più andare via, perciò resterai, ma in silenzio.” Tornò a rivolgersi a Kogoro:
“Non dobbiamo farci vedere. Non si tratta soltanto della rapina, lo sai. Dobbiamo pazientare a capire a cosa, e soprattutto a chi, ci porteranno questi ceffi. La fretta non aiuta, ora non possiamo far altro che aspettare.”
L’uomo annuì, poi lanciò un’occhiata ammonitrice alla figlia.
“Ok ok…starò zitta! Promesso. Non dirò una parola e non farò rumore.”
Si volse dunque ad osservare la situazione: muniti di pistole armate e binocoli, gli agenti non staccavano loro gli occhi di dosso. Quei tizi, dal canto loro, comunicavano concitatamente tra loro; poi si diressero verso un vecchio armadietto, pur munito di combinazione. Dopo averlo aperto ne estrassero una scatola di cartone, e la poggiarono a terra. Quello più basso si rivolse al biondo, che annuì e tirò fuori dalla tasca una chiavetta USB.
Furuya scattò sulle gambe e mirò, la pistola pronta a fare fuoco; ma Megure velocemente gli pose una mano sul braccio.
“Non ancora!” sussurrò.
In quel momento, Ran percepì qualcosa. Non propriamente un rumore, fu piuttosto una sensazione. Non seppe il motivo, non lo comprese neppure quando ci ripensò a posteriori; eppure, per qualche ragione, si voltò verso sinistra, e le sue pupille si dilatarono: ecco Shinichi comparire dall’angolo opposto, proprio dirimpetto ai due uomini, a destra degli agenti di polizia, i quali, si accorsero della sua presenza soltanto quando udirono un rombo, forte e rapido, come fosse un tuono che squarcia velocemente il cielo, ma sancisce la fine del temporale.
Il detective sparò quel colpo con estrema precisione, le ginocchia leggermente flesse e un gomito ad angolo retto per reggere il rinculo dello sparo, mentre l’altro braccio, teso, aveva assicurato al proiettile di colpire in pieno il bersaglio.
Il colpo sfiorò l’uomo biondo, facendogli volare dalle mani la pennetta USB che gli agenti avevano puntato.  Non fece in tempo a voltarsi che un secondo sparo colpì il compagno col cappello, causandogli un graffio sulla guancia sinistra, per poi infrangersi sul metallo del capannone.
“Ma che diavolo sta facendo?!” Megure lo scrutò per lungo tempo, basito.
“Ama le entrate in scena, il tuo amico!” Kogoro la rimbrottò, lanciandole uno sguardo velenoso, quasi avesse sparato lei stessa. Il tono di voce era duro, intransigente:
“Possibile non capisca che così facendo capiranno di essere braccati e distruggeranno le prove?!”
Uno degli uomini vestiti di scuro ordinò qualcosa ad un altro del gruppo, che prontamente si diresse verso lo scatolone a terra estraendone un cellulare che, con decisione, calpestò sino a ridurlo in un grumo di circuiti e sensori.
“Maledizione!” gemette Megure, tutti gli agenti in allarme.
“Cosa facciamo, signore?” lo incalzò Furuya “Interveniamo anche noi?”
“A questo punto, tanto vale.” Si alzò in piedi, estraendo la pistola dalla fodera.
“UOMINI! Cercate di salvare almeno la chiavetta, recuperatela intatta!”
Come se l’avessero sentiti, provvidero a distruggere anche quell’ultima importante prova, dandola alle fiamme d’un accendino celato nelle tasche.
Lo scontro fu impari: un paio di proiettili volarono, qualche minaccia, un “Fermi, polizia!” che non valse alcun che. In poco tempo quel gruppetto di uomini saltò nelle due automobili scure, e scomparve dietro un grande polverone.
Nessuno provò a rincorrerli. Neanche Shinichi.
Ran, allarmata e con il cuore in tumulto, si voltò per scrutarlo: il braccio con l’arma lungo il fianco, l’altra mano sulla vita e lo sguardo  proiettato lontano, preoccupato. Prima che Kogoro la strattonasse rudemente verso la volante, riuscì a vederlo mordersi con violenza un labbro.
 
 
 
 
Seduta di fronte la macchinetta del caffè, al primo piano della centrale, la ragazza attendeva il padre da buoni tre quarti d’ora. Forse di più. Era ancora in riunione con Megure, e più di un agente si era allontanato dalla stanza timoroso, come se all’interno si stesse svolgendo un incontro concitato, nervoso.
Come se Megure fosse arrabbiato.
Nella sua mente in continuazione s’addensavano i colori a formare l’immagine di Shinichi, teso e nervoso, osservare la fuga degli uomini.
-E se anche avesse sbagliato?- ammise, per quanto le paresse strano.
-Perché si arrabbiano così tanto? Chiunque può sbagliare, e lui l’ha fatto in buona fede! Voleva arrestarli, e ha contato nelle sue capacità. Forse un po’ troppo…forse ha peccato di superbia. E con questo? E’ bravissimo, glielo riconoscono tutti. Non dovrebbero arrabbiarsi così tanto, non è giusto.-
Si ritrovò a difenderlo, senza esitazione. Sebbene, comunque, in lei una vocina le diceva che non poteva aver sbagliato; che doveva esserci qualcos’altro sotto, che l’apparenza fosse erronea.
…che Shinichi avesse agito di proposito nella maniera sbagliata…
Furuya uscì dalla stanza, il volto tirato e le labbra curvate in una smorfia di preoccupazione.
“Furuya-san!” lo chiamò Ran, scattando in piedi.
L’agente la notò solo allora, e si avviò verso di lei sorridendole cordialmente.
“Ran-san, tuo padre è ancora dentro. Credo ne avrà ancora per un po’…”
“Ma perché si arrabbiano tanto?” non finse neppure di essere poco interessata, le parole le travolsero la bocca inconsciamente.
Lui sospirò, grattandosi la testa. Evidentemente non poteva parlare. Eppure parlò:
“L’errore di Kudo è stato troppo grossolano…”
Fece per difenderlo, ma la prosecuzione le fece scivolare la borsa dalle dita.
“…per essere stato compiuto inconsapevolmente.”
“Bene!” sorrise, chinandosi per raccoglierla. “Aveva in mente qualcosa, dunque! Che piano?”
Furuya sospirò.
“Evitare che arrivassimo al vero mandante della rapina.”
“E perché mai dovrebbe impedirvi…?”
“Perché è loro complice.”
La borsa le cadde nuovamente dalle mani, ma lei non si chinò più a raccoglierla.
Rimase in silenzio per parecchi istanti, che divennero minuti. Come se stesse incassando il colpo.
Furuya interpretò quel silenzio come confusione; non sapeva del debole che lei nutriva per il ragazzo, e credette che la sua perplessità fosse originata dalla domanda: “Come può un investigatore, come è mio padre ad esempio, essere complice di criminali?” quindi decise di spiegarle le loro supposizioni:
“E’ evidente che si nasconde qualcuno di più imponente dietro questa rapina. Non mi perdo in dettagli, ma l’ispettore Megure ne è sicuro. Un pesce più grande che, per qualche motivo, dirige questo genere di reati, e ne trae profitto.”
Questo qualcuno, Ran lo sapeva, era il capoquestore Ikari.
 
“Tutto a posto, papà?”
L’uomo sollevò gli occhi dalla scrivania a quella che ancora soleva definire la sua bambina.
“Ti senti bene?”
“ Ikari Shima.”
“Chi è?” la ragazza iniziò a preoccuparsi. In realtà conosceva quel nome; ma sperava di sbagliarsi.
“Il capoquestore, Ran. Megure teme che potrebbe intromettersi nell’indagine, in qualche modo.”
“Perché dovrebbe?”

“Perché Kudo non piace ai piani alti.” Tagliò corto, con severità, come se rimproverasse lei dei metodi dell’investigatore più giovane.
“E il suo intervento potrebbe causarci dei guai.”
 
Possibile che fin da allora…?
“Ed è assurdo pensare che per così lungo tempo e in maniera così esponenziale abbia avuto successo nei suoi misfatti ed allo stesso tempo non si sia fatto scoprire, senza essersi avvalso dell’aiuto di qualcuno. Chiamali infiltrati, se vuoi, o spie…sono suoi complici, nei nostri ranghi, mischiati a noi, che fingono di volerlo arrestare ed in realtà lavorano per lui.”
Ran continuava a guardarlo perplessa ed allibita, e d’un tratto era impallidita.
L’agente continuò a non comprendere fino in fondo quella sorpresa dipinta sul suo volto bianchissimo, e si congedò con una semplice scrollata di spalle:
“Sai, probabilmente li paga bene. E ai tipi come Kudo…beh, li leggiamo tutti i giornali. Lo sappiamo che è un ragazzino arrogante, che si bea del suo successo e si fa grande della sua fama. Persone tanto famose hanno sempre qualche altarino da nascondere, e soprattutto il successo da loro alla testa. Non riescono a gestirlo. E senza rendersene conto, tradiscono la loro causa. Ad essere onesto, mi era parso strano che non avesse subito trovato quel cellulare addosso alla vittima…era in una tasca interna della giacca, facilissimo da rinvenire. Ora so che non ha sbagliato; l’ha visto eccome, ma l’ha tenuto nascosto.”
La porta della stanza si aprì, ed una giovane agente con i capelli raccolti in una coda di cavallo ne uscì.
“Karei-san! A che punto è, Mouri-san?” le domandò Furuya.
“Credo abbia quasi fatto, sta uscendo.”
“Oh, bene, Ran-san. Potete tornare a casa, aspetta ancora qualche minuto e vedrai che tuo padre uscirà.”
Si inginocchiò per raccoglierle la borsa, ma lei pareva assente.
“Che cosa…farete…ora?” riuscì a domandare, afferrando con mani tremanti il borsone.
“Ne prenderemo atto. Kudo se ne pentirà molto presto.” Rispose il poliziotto, deciso.
 
“Sono il miglior detective che tu abbia mai incontrato. Con tutto il rispetto per tuo padre, s’intende.”
 “Perché vuoi incontrarlo?”
“E’ molto importante per me, Ran.”
“Per caso, c’entra…”

“C’entra…?”
“Shinichi, io…”
“Non voglio ingannarlo, Ran. E non sono complice di nessun cattivo progetto. Te lo assicuro. Te lo giuro.” La incalzò.
“C’entra con Ikari?”
“Chi ti ha fatto questo nome?”

“Non ti pare di pormi troppe domande?”
“Ne avrei ancora di più.”
 
Lentamente si sedette, anzi: cadde pian piano sulle sua gambe, e per fortuna trovò la sedia a bloccare il movimento.
Si sentiva mancare.
“Arrivederci, Ran-san. Due minuti e tuo padre arriva.”
Le importava davvero di aspettare suo padre?
 
“Io credo che ogni persona che passa nella nostra vita sia unica. Lascia sempre un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà sempre chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita, sapere cosa lasciamo a chi incontriamo. Ma la responsabilità che dobbiamo a  noi stessi è riconoscere cosa ciascuna persona può darci.”
 
Le importava davvero di aspettare suo padre?
No, non le importava.
Non ci pensò due volte, anzi neanche una: non pensò affatto, le venne spontaneo, come spontaneo è lo scroscio di un’ onda sullo scoglio che ne limita la forza d’urto. Ma in lei avvenne l’esatto opposto:  l’energia che quelle idee, quel pensiero, quel modo di concepire la vita –che nel modo di fare e nella condotta di Shinichi vedeva da anni riassunta-  non fu arginata da nessun ostacolo, e divampò violenta.
In un batter d’occhio fu in piedi e, senza curarsi che di lì a poco suo padre sarebbe rincasato, probabilmente al fianco di sua madre per la mensile litigata riguardo la decisione di tornare o non tornare a vivere con loro, uscì in tutta fretta dalla centrale di polizia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 §§§§§§§§                §§§§§§§§§§§             §§§§§§§              §§§§§§§§                §§§§§§§§§§§             §§§§§§§
 

Precisazioni d’autrice:
 
 
*Frivola apatia: espressione psichiatrica propria del dottor Massimo Recalcati.
* così sperduta, gettata nel mondo, sola e senza scuse, era condannata ad essere libera: espressione sartriana.
* L’orizzonte le appariva libero, anche se non era sereno: espressione di Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
*Non c’è nulla di più sfuggevole dell’ovvio: frase-manifesto di Sherlock Holmes.
*Quel che ho scritto sul calcio, è vero. Conan racconta ad Ai di aver ricevuto, e rifiutato, la proposta di giocare con la squadra. Quel che invece riguarda il Jeet kune do- arte marziale intuita e sintetizzata dal celebre sifu Bruce Lee negli anni sessanta - è di mia invenzione.
*Agente Furuya: altro agente di mia invenzione.
 
 
 
 

 
 
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Detective Conan / Vai alla pagina dell'autore: Il Cavaliere Nero