Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: MillyMalfoy    19/08/2008    6 recensioni
Seconda classificata al contest Tragic Love di Ragazza_Innamorata. Vittime e carnefici ruotano attorno ad uno strano gioco d'attrazione, dove il bene e il male non hanno che un confine sottile e l'amore è l'unica speranza.
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Kurenai Yuhi, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Febbraio 1943

Il peso della Memoria

Febbraio 1943

Ci sono suoni che sentiamo una sola volta nella vita e che mai più abbiamo il piacere di riudire, ma ci sono rumori martellanti, che ci penetrano l'anima come un chiodo, lasciandoci senza altro pensiero che il costante e ripetitivo motivo.

Il treno. Il rumore delle rotaie, e della locomotiva, sempre lo stesso, dovunque il treno vada o ti porti il rumore che esso produce non è mai differente.

Nella mia adolescenza il frastuono prodotto dall'ingranaggio delle ruote di un vagone corrispondeva alla gioia di un viaggio, generalmente in direzione della casa di campagna, dove vecchi amici e lunghe cavalcate impegnavano le mie lunghe giornate estive.

Ma ora non c'è più sole, ma ora non è estate e il continuo, ma ora assordante fischio del treno significa solo puzza e sete.

Nessuna finestra, nessun bagno, solo tante persone senza più un’espressione. Grida di rabbia e pianti di paura sono le compagne delle interminabili ore di questo viaggio. Mio cugino, mio padre, mia madre…tutti lontani da me, stanchi e provati dalla fatica. Nei loro occhi non leggo più la dignità della grande dinastia degli Hyuuga, leggo solo l'impotenza che ci affonda.

Giorni, settimane…il tempo non aveva senso quando contarlo diventava impossibile; nessun riferimento, nessun albero o tetto a dirci dove fossimo, nessun cartello o stazione a regalarci un nome.

Nessuna meta fino a quando le porte non si spalancarono e voci in una lingua barbara urlarono minacciose. Le persone vicino alla porta incominciarono a uscire e una luce penetrò all'interno del vagone colpendo i miei occhi e lasciandoli ciechi.

Venni spinta giù dal treno, e solo allora mi accorsi che era notte. Alzai la testa al cielo e sentii le mie guance bagnarsi; sollevai leggermente una mano e un piccolo, invisibile fiocco di neve vi si posò. Un brivido di freddo mi percorse la schiena.

Le grida erano strazianti.

Volsi il mio sguardo verso sinistra e vidi una madre strappata al proprio figlio , uomini in divisa con cani che sembravano pronti a divorarci, le loro zanne affilate, ricoperte di una bava rabbiosa.

I loro occhi, insieme a quelli dei loro padroni ricordavano il fuoco dell'inferno.

Mio cugino mi afferrò e mi costrinse a proseguire; avevo appena incominciato a incamminarmi quando sentii la sua presa sul mio braccio venire meno.

“Neji!” gridai il suo nome non scorgendo il suo volto.

Uno degli uomini in divisa lo stava colpendo ferocemente con il suo manganello: il mio adorato cugino, il mio protettore a scuola, il mio compagno di giochi, il mio confessore, il mio migliore amico.

Vidi mio padre dietro l'uomo con il manganello, e lessi nei suoi occhi la paura.

Ho sempre creduto che mio padre fosse l'uomo più coraggioso del mondo fino a quel momento, fino a quel giorno, quando lo vidi inerme davanti alla violenza.

Minuti, attimi di crudeltà e follia di un uomo con la divisa, e vidi mio cugino, oramai riverso a terra con il cranio aperto in due, e il suo sangue sparso sulla ghiaia della ferrovia.

Lacrime silenziose rigarono le mie guance, nessun urlo riuscì a lasciare la mia gola, nessuna imprecazione mi abbandonò.

Mio padre era in lacrime, e io non lo avevo mai visto piangere prima di quella notte. Mi corse incontro e mi strinse forte, sussurrandomi: “Mia principessa, sopravvivi per noi, per il nostro amore”.

L'uomo che tornava la sera dal suo studio medico e che mi prendeva sulle sue ginocchia così forti, l'uomo che aveva accolto un piccolo bambino orfano solo e spaventato, che aveva promesso ad un fratello amato di proteggere con la vita il suo erede, l’uomo che la sera mi rimboccava le coperte aveva fallito, non era riuscito a proteggere la sua famiglia, e la consapevolezza che qualcosa di orribile stava per incombere su tutti noi era ormai la sua unica compagnia.

Con mia madre affianco, mi vidi costretta a procedere diritta verso l'ignoto, mentre centinaia di persone continuavano a scendere dal treno che ci aveva condotti in quel luogo.

Le grida incessanti continuavano a gelare il mio cuore. Credevo di essere addormentata e di essere nel bel mezzo di un incubo, ma nessun pizzicotto avrebbe potuto risvegliarmi, perché il luogo in cui mi trovavo era l'orribile realtà di un presente senza futuro, di un futuro senza passato.

Dopo una decina di metri ci trovammo di fronte a un uomo in divisa: alto, distinto, elegante, dai movimenti aggraziati. Fischiettava una dolce melodia, indossava dei guanti bianchi e con la mano di destra, come a dirigere un'orchestra, indicava la sinistra e poi la destra, poi ancora una volta la sinistra.

E in base al suo volteggiare del polso le persone di fronte a lui venivano separate e condotte in due file differenti.

Solo allora mi resi conto di un enorme camino di fronte a noi, e per una frazione di secondi percepii un puzzo rivoltante di putrefazione e morte. Un conato di vomito si affacciò alla mia gola, ma fui costretta a rimandarlo indietro, perché l'uomo dai guanti bianchi aveva separato i miei genitori. Io, spaventata e indecisa, mi buttai fra le braccia di mia madre, senza nemmeno aspettare che il direttore d'orchestra emettesse la sua sentenza, ma due forti braccia mi afferrarono per la vita e sollevandomi da terra mi staccarono dal seno di mia madre. Ancora nessun grido uscì dalle mia labbra, solo lacrime che continuavano a piovere lungo il mio viso.

L'uomo che mi aveva afferrato mi disse qualcosa in quella lingua così fredda e impersonale; mi volsi verso di lui mentre mi conduceva nella fila in cui avevano mandato mio padre.

I suoi occhi non erano di fuoco, ma bensì d’acqua, pura e cristallina.

Triste, era la parole che meglio avrebbe descritto quel volto, e una volta che mi ebbe lasciata a terra, nella fila in cui mi aveva condotto, i suoi occhi incontrarono i miei, e nell'inferno in terra, e tra la peggiore perfidia umana, io incontrai un sorriso, una piccola speranza.

Non riuscii a sorridergli, non riuscii a guardarlo se non per pochi attimi. In fin dei conti lui e i suoi soldati stavano distruggendo la mia vita, avevano appena ucciso mio cugino e separato la mia famiglia.

Mio padre era scomparso nel mezzo della folla ed io avevo inutilmente cercato di raggiungerlo, ma quando la disperazione della solitudine stava per cogliermi, qualcuno gridò il mio nome.

“Hinata!”.

Mi voltai e incontrai ancora una volta il suo sguardo, mi osservava allontanarmi e il sorriso che mi aveva riservato era ancora impresso sul suo triste sguardo, senza nemmeno rendermene conto, una persona mi si gettò al collo: mia sorella, che ripeté nuovamente: “Hinata”.

Eravamo state separate alla stazione di partenza, e ora averla ritrovata sembrava la cosa più importante al mondo. Era l'ultima tangibile presenza della mia famiglia. La strinsi forte a me, quando un uomo dallo sguardo severo e dalla voce acuta ci spinse in avanti: ricominciammo così a marciare, io e mia sorella unite, mano nella mano.

Mi voltai un’ultima volta, spinta dalla curiosità. I suoi occhi erano ancora fissi ancora su di me, mentre le sue labbra silenziosamente ripetevano il mio nome: “Hinata”. E poi lui scomparve dalla mia visuale, sostituito da donne e uomini senza espressione che marciavano verso la fine.

Ci fecero entrare in un’enorme baracca, divisi uomini e donne. Ora non vi erano più uomini in divisa, ma solo donne, dai pesanti stivali, a spingerci.

Ci tagliarono via la nostra vita passata mentre vedevo i miei capelli cadere a terra disordinati, e sentivo scivolare via insieme i miei ricordi. Per la prima volta quella sera pensai a Dio, e mi sembrò così strano in quella situazione non averlo ancora pensato, ma in fin dei conti, in quel luogo e in quella situazione nulla aveva un senso, tutto era assurdo e strano.

Mia sorella ancora una volta al mio fianco, ci svestirono e ci misero poi in fila. Di nuovo.

Arrivato il mio turno capii il motivo per cui ci avevano messo in fila, mi tatuarono, come una bestia.

34764: questo era tutto quello che dovevo sapere, era tutto quello che ero diventata.

Non avevo mai sopportato la matematica e solo l’ironica sorte poteva trasformare la mia vita in un numero, la sorte oppure l'odio di un uomo per un altro.

Una donna al mio fianco mi afferrò il braccio e incominciò a ripetermi i miei numeri in quella lingua così pesante che usavano le guardie.

Drei...Vier...Sieben....Sechs....Vier(1). Imparai a dire quei numeri e dimenticai il mio nome.

Poi fu il turno di mia sorella.

Ci condussero alla fine della baracca per spingerci a forza dentro un’altra baracca.

Ricordo il buio e poi l’acqua - fredda ovviamente, perché il gelo di Febbraio non era bastato a congelare il nostro sangue e a spezzare le nostre speranze.

Una volta al di fuori delle docce ci costrinsero a indossare dei vestiti lisi, logori, leggeri.

Infine ci condussero in una baracca, ci aprirono le porte e ci sbatterono all'interno. Nulla può davvero descrivere cosa vedemmo, e non potrò mai spiegare l'odore che vi era all'interno di quelle fatiscenti costruzioni di legno.

Un centinaio di occhi puntati su di noi, nuovi arrivati, una decina di idiomi si levarono in aria.

Nessuna mi era conosciuta.

Sentii mia sorella stringersi a me e facendomi coraggio la trascinai su uno dei letti che riempivano la stanza, se così è possibile chiamarli. Uno dei pochi ancora liberi.

Ed eravamo, io, mia sorella insieme ad altre due ragazzine all'incirca della mia età.

Fu allora, nel buio e nel freddo della nostra nuova casa, che scoprimmo di essere giunte in Polonia, ad Auschwitz. Due donne non molto lontano da noi, parlando in una lingua non molto diversa dalla nostra, pronunciarono quei nomi, quei luoghi dove dovevamo essere approdate.

Così smisi di sognare, perché i sogni sono per chi è ancora ingordo di speranza e vita.

Dopo una settimana venimmo a conoscenza, grazie a dei nostri connazionali, del fatto che il nostro treno era giunto ad Auschwitz II, chiamata dai nostri carnefici Birkenau. Venimmo così trasferite al vero e proprio campo chiamato Auschwitz.

Le baracche erano case in mattone, lì non vi era un grande camino a sovrastare le nostre vite, e non vi era più mia madre, né mio cugino, né mio padre, ma solo filo spinato a mostrarci che quella era sempre la nostra prigione.

Nel campo fui assegnata alle cucine. Io che passavo le mie giornate impegnata ad organizzare balli e a cercare un onorevole marito, a leggere e dipingere, a suonare il mio amato violino, a sognare e vivere, ora passavo le mie ore sbucciando patate e ustionandomi le dita spostando gli enormi pentoloni sul fuoco.

Ogni giorno la sveglia era alle quattro, poi eravamo sottoposti all'interminabile appello, e da allora cominciava la lotta per la sopravvivenza. Unica consolazione per noi delle cucine era avere una piccola razione in più di cibo, che io portavo quotidianamente a mia sorella, che con molta più sfortuna di me era stata assegnata al lavoro pesante.

La vedevo spegnersi giorno dopo giorno, notavo il suo perdere peso con un’angoscia costante.

Ma lei continuava a sforzarsi di sorridermi e di rassicurarmi.

Le giornate trascorrevano sempre così lentamente, sembrava che l'agonia non dovesse finire mai, perché ad Auschwitz il sollievo maggiore era morire, la peggiore delle condanne sopravvivere.

Oltre a mia sorella non vi erano visi conosciuti, di una vicina, di una vecchia amica della mamma, fino al giorno in cui a guardia delle cucine fu messo il carnefice dal sorriso.

Colui che mi aveva cambiato fila, che mi aveva sollevata, che da come avevo poi compreso: mi aveva salvato la vita.

Quelli delle cucine dicevano che era un nazista gentile, ma io sapevo che non potevano esistere nazisti gentili.

Dicevano che non picchiava mai nessuno, ma mi metteva lo stesso paura, perché non smetteva mai di osservarmi e sorridermi, di parlarmi quando mi vedeva, ma nessuna delle sue parole mi suonava comprensibili, perché non riuscivo a capire cosa volesse da me.

Un giorno mi fermò, mi afferrò e mi strinse a sé e lasciò scivolare nella mia tasca un piccolo foglio di carta e una piccola matita.

Ignorai lo spavento, ignorai il mio cuore morto riprendere vita quando mi afferrò, ignorai la sensazione del foglio e della matita sulla mia coscia tutto il giorno, fino al mio rientro nelle baracche, dove potei finalmente estrarlo dalla mia tasca e leggere il biglietto.

Una sola parola era stata scritta, molto probabilmente un nome, il suo nome: Naruto.

Lo ripetei a voce alta, ma nessuno mi prestava attenzione. Tentennai, poi decisi che rischiare era solo un modo per accorciare la lunga agonia della morte. Presi la matita e scrissi il mio nome.

In quel momento rientrò mia sorella: nascosi di nuovo tutto in tasca.

Il suo piede destro era congelato, era diventato blu, e faceva fatica a camminare, ma nessun nazista le avrebbe risparmiato il lavoro il giorno dopo, e scambiare i nostri posti di lavoro avrebbe condotto a morte una decina di prigionieri.

Ad Auschwitz non vi era giustizia, solo regole.

Il giorno seguente, preoccupata dal piede di mia sorella andai alle cucine, dove incontrai i suoi occhi, che per la prima volta in mesi riuscirono a farmi arrossire di nuovo.

“Avete fame?” gli chiesi porgendogli un piatto. Lui annuì con il capo e prese il piatto, e fu allora che lasciai scivolare il foglio dalle mie dita alle sue.

Lui mi sorrise. Fu un riflesso involontario, ma anche io gli sorrisi. Per pochi secondi, attimi, perché subito mi ricomposi, non vi erano ragioni per sorridere, nemmeno la gentilezza di un carnefice.

Rientrai nelle cucine e solo allora mi chiesi se avevo fatto bene ad assecondare il mio carceriere, quando sarebbe potuto costarmi la vita. I rapporti fra i giudei, come me, e i puri ariani, come lui, erano categoricamente vietati, pena la morte: la nostra, la mia, ma al contempo anche la sua. Questo pensiero stranamente mi consolò, sapere che lui correva i miei stessi rischi mi fece sentire meglio. Bene. Respirai, e se avessi avuto ancora lacrime da versare le avrei usate.

Terminata la mia giornata di lavoro rientrai al dormitorio nell'attesa del rientro di mia sorella e dell'appello notturno.

Ma ogni attesa fu vana; il gruppo di lavoro di mi sorella rientrò nella baracca, ma di lei nessuna traccia. Si avvicinò a me allora una donna, una bulgara: mi ricordo che aveva un collo così lungo e sottile. Mi mise una mano sulla spalla e incominciò a parlarmi. Io non capivo nulla di quello che mi diceva, e continuavo a ripeterle: “Non ti capisco”, ma lei andava avanti parlando, ripetendo il suo messaggio. La disperazione e la paura stavano prendendo il sopravvento, le mie membra tremavano, il timbro della mia voce continuava ad alzarsi…caddi a terra sulle mie ginocchia cercando di afferrarmi a lei. Solo allora una ragazza di poco più grande di me, mi si avvicinò e incominciò a dirmi: “Dice che tua sorella si trova in infermeria e che domani potrai andare a trovarla. Dice che mentre lavorava è caduta a terra, e non è più riuscita ad alzarsi”.

Senza nemmeno rendermene conto le due donne mi aiutarono a sollevarmi da terra e ad uscire fuori dalla baracca per l'appello serale. Ferma, immobile, in piedi per ore, osservai il sole sparire dietro la terra, la luna e le stelle colorare il cielo, mentre io continuavo a vedere solo il viso di mia sorella, così piccola e indifesa. Lei che era sempre stata la più gioiosa, la più forte, la più determinata, la più bella, continuavo ad immaginarmela riversa su di un sudicio letto, pallida e fredda. Era l'unica famiglia rimastami e ora mi stavano portando via anche lei.

La notte rimasi con gli occhi spalancati, e il freddo, causato dall'assenza del corpo caldo di mia sorella, mi lasciò senza fiato. L'angoscia della possibilità di non rivedere mai più la mia piccola sorella, la mia piccola Hanabi, era l'unico sentimento che riuscivo a provare.

L'alba giunse con l'ennesimo appello che ci attendeva. Corsi al mio lavoro in cucina, e come un’ingenua ragazza credevo che prima fossi giunta al lavoro, prima me ne sarei potuta allontanare per poter andare in infermeria a trovare mia sorella.

Lui si presentò come sempre al principio della giornata e ci osservava lavorare, il fucile sulla spalla. Sentivo il suo sguardo sulla mia schiena scendere lentamente lungo il mio corpo, e sentivo il fastidio che provavo per quello sguardo indagatore, per quello sguardo che si soffermava su di me senza mai in realtà raccontare quale fosse il suo scopo.

Durante il pranzo si avvicinò a me, mi si sedette accanto e mi allungò un pezzo di pane. Lo presi e lo avvolsi dentro un fazzoletto, prima di infilarmelo nella tasca.

Wie geht es dir, Hinata?”(2) mi chiese. Io riuscii solamente a distinguere il suono del mio nome.

Un leggero brivido mi percorse la schiena e per pochi secondi ci immaginai lontano da quel luogo di morte e disperazione; ci vidi stesi su di una bianca coperta, attorno a noi solo erba, e sognai la sua voce pronunciare il mio nome.

“Mia sorella si trova in infermeria” gli risposi. Lui scosse il capo: sapevo che non poteva capirmi, ma parlare con quello sconosciuto era sempre meglio di nulla.

“Ho paura che non ce la farà, che morirà, che la ucciderete, come avete fatto con tutto il resto della mia famiglia. Posso ancora sentire le urla del nonno, lanciato giù dalla terrazza di casa nostra”.

Lui mi sorrise, un sorriso amaro, come se avesse intuito cosa stessi dicendo, senza però capirne davvero il significato.

Mi alzai di scatto e finito il mio lavoro cercai di dirigermi verso l'infermeria, ma lui mi afferrò e mi offrì un biglietto, il secondo. Lo presi frettolosamente prima di incamminarmi nuovamente, e di nuovo riposi il pezzo di carta nella tasca, dove solo in quel momento mi ricordai di avere anche un pezzo di pane.

“Hinata!” mi stava chiamando. Mi voltai e vidi che con la mano mi stava salutando, lo ignorai. Pensai che dovesse essere o molto ingenuo o molto stupido, o ancora più semplicemente, che stava progettando qualcosa, qualcosa che non avevo ancora afferrato.

Dovevo però ammettere che trovavo piacevole sentire ancora una volta qualcuno pronunciare il mio nome, chiamarmi come se avessi ancora un valore, un motivo per esistere.

Persa in questi pensieri giunsi fino all'edificio che fungeva da infermeria.

Entrai e la cercai mia sorella, fra le decine di infermi che affollavano le stanze e i letti. Dieci minuti di ricerca ed infine la trovai, esattamente come l'avevo sognata.

Sola, distesa su di uno sporco letto di paglia, il piede gonfio e cianotico, la gamba enorme e tumefatta, pallida in volto, fredda, sudata.

Hanabi!” la chiamai. Lei non mi sentì, così mi avvicinai a lei e la presi fra le mie braccia. Lei era assente; il suo cuore batteva ancora, ma debolmente.

“Hinata” un sussurro, un inganno della mia mente probabilmente. Restai con lei fino all'appello serale, poi mi diressi esanime verso l'edificio del mio dormitorio e una volta sistematami nel letto estrassi il biglietto che mi era stato dato quel giorno.

Un disegno primitivo e stilizzato, che molto probabilmente voleva rappresentare un giovane ragazzo, e di fianco alla figura erano scritte una serie di numeri e parole: Berlin, 22, 10/10/1921.

Quel disegno riuscì a strapparmi un sorriso, appena accennato, ma pur sempre un sorriso.

Estrassi allora la matita e dietro al disegno stilizzai una figura femminile, rassomigliante a me, e poi scrissi Roma, 20, 27/12/1923, Jude. Non sapevo perché facesse così male scrivere quella parola, probabilmente perché riflettendoci attentamente era l'unica parola che conosceva in quella lingua, oppure perché quella parole non significava solo e semplicemente ebreo nella sua lingua, ma significava principalmente lo sterminio totale della mia famiglia.

Io che ero la più timida, la più introversa, la più dolce e onesta delle creature di Dio, come mi diceva sempre mio padre, ero l'unica ad essere sopravvissuta.

Il giorno dopo, arrivata alle cucine lo incontrai in piedi davanti alla porta, come se mi stesse aspettando.

Guten Morgen, Hinata”(3) mi disse, io immaginai che le sue parole celassero un saluto, così gli risposi: “Buongiorno Naruto”.

Era come se tutte le mie paure e tutti i miei timori fossero stati prosciugati dalla notte. Nulla aveva più importanza, perché un pensiero mi aveva colpito al risveglio: se anche questa guerra fosse finita, se anche la pazzia umana fosse stata sconfitta…nulla sarebbe stato più come prima. Io mi sarei ritrovata sola in un mondo distrutto, con nessuna casa, nessun lavoro, nessuna famiglia, nessun amico.

Gli allungai di nascosto il pezzo di carta e mi diressi al mio solito posto, per il mio solito lavoro.

E anche al termine di quella giornata mi diressi verso l'infermeria, il cuore in gola, la paura disegnata in volto.

Giunta all'interno dell'edificio, mi diressi verso il letto sul quale avrebbe dovuto giacere mia sorella, ma come nei miei peggiori incubi, un'altra persona lo occupava.

Mi girai e vidi uno dei medici ebrei dell'infermeria, così gli corsi incontro e chiesi: “Dov'è mia sorella?”.

Lui mi rispose in quella lingua così orribile e fredda, quella dei miei carcerieri. “Entschuldigung. Ich verstehe dich nicht”(4).

Hanabi” mormorai.

Versterbt”(5) mi rispose.

Capii. Non avevo bisogno di traduzioni o altri giri di parole, lo sapevo, lo avevo intuito, lo avevo già capito.

Corsi fuori dall'edificio, e avrei voluto lanciarmi contro il filo spinato. Molti dicevano che era una morte orribile, che se volevi suicidarti era meglio tentare di scappare, in modo che i soldati ti fucilassero; sarebbe stata una morte più degna.

Ma qualcuno mi afferrò per le spalle e mi prese il polso: un nazista, un SS; i suoi capelli biondi erano l'unica cosa che riuscivo a vedere.

Sentii ogni pelo del mio corpo sollevarsi, rizzarsi in allerta.

Volevo morire con tutta me stessa, e ora che stava per succedere avevo così tanta paura.

Mi stringeva il polso, mi faceva male, e continuava a trascinarmi. Mi condusse fin dietro un edificio, uno isolato: non c'era nessuno, solo io e il mio assassino. Mi lasciò andare il polso, e si voltò verso di me.

“Naruto” dissi, gli occhi spalancati. Vide il terrore nei miei occhi, e mi sorrise, credo nella speranza di rassicurarmi.

Poi fece l'ultima delle cose che mai avrei potuto immaginare.

Mi abbracciò. Fu allora che dimenticai che era un nazista, e che il duro che sentivo premere contro la mia coscia era la sua pistola, che avrebbe potuto uccidermi senza nessun problema. Fu allora che dimenticai che avrebbero potuto scoprici e accusarmi di averlo irretito e ammaliato, ma in quello stesso momento pensai alle grida di mio nonno, al sangue sparso sul terreno del mio amato cugino, al pianto di mia madre, all'abbraccio di mio padre, e al sorriso di mia sorella, e mi aggrappai a lui, come se fosse l'ultima speranza, e piansi e piansi.

Se Auschwitz mi aveva uccisa, la gentilezza e il sorriso di Naruto mi avevano ricordato che c'era anche qualcosa di buono in questo mondo, qualcosa in cui credere, e allora fra le sue braccia pregai Dio, pregai per tutti i morti e pregai per noi vivi, pregai per lui mentre respiravo il suo odore e pensavo che mai la lavanda era stata così profumata.

Ma una sirena ci richiamò alla “vita”, mi ricordò che dovevo scappare per non arrivare tardi all'appello della sera.

Da quel giorno, da quella sera, imparai a capire cosa significava la parola solitudine, a 20 anni, è realmente complesso comprendere fino in fondo la tristezza e l'amarezza della vita, ma ancor peggio è essere costretti a comprenderlo nel corso di pochi giorni, come mi era successo.

Naruto continuava a scrivermi dei bigliettini, ed io continuavo a rispondergli, non ancora ben convita delle sue motivazioni, ma poter avere un po' di speranza in tutta quella disperazione non mi sembrava così pericoloso.

Mi trovavo all'inferno e continuavo in un modo tutto mio a conservare il mio candore e la mia ingenuità.

Avevo scoperto che Naruto suonava il piano, avevo scoperto che il suo pittore preferito era Leonardo, avevo scoperto che il suo autore preferito era Petrarca. Avevo capito che era un disastro come cuoco, che era un bravo ragazzo nel mezzo della follia, e che non aveva davvero ben compreso i rischi che corresse nel tentare di essere mio amico.

La fame era propria di Auschwitz, ma non per me, avevo le mie razioni abbondanti di cibo, grazie al mio lavoro nelle cucine, e giungevo sempre nel dormitorio con del pane o della marmellata infilato nelle tasche.

La donna bulgara adorava la marmellata di fragole, la ragazza che invece mi aveva aiutato a capire la donna bulgara era un'amante del pane con il burro. Quest'ultima era diventata in poco tempo una mia amica. Si chiamava Kurenai, era di un paesino nei dintorni di Roma, la mia Roma, avevo scoperto avere 25 anni, sua madre era tedesca, per cui lei aveva fin da piccola imparato le due lingue: l'italiano e il tedesco. Mi aveva aiutato ad imparare alcune parole, in tedesco, necessarie per la mia sopravvivenza all'interno del campo.

Pensavo che la nostra amicizia fosse nata così rapidamente perché eravamo due ragazze giovani che si trovavano a passare attraverso la stessa medesima tortura. Anche lei era sola, non aveva più nessuno della sua famiglia. Capii però, solo molto tempo dopo, che all'interno del campo tutti i rapporti sociali si sviluppavano in maniera rapida, per due semplici, ma fondamentali motivi: perché sapevi che non potevi fidarti di nessuno, e quindi la disperazione per un po' di amicizia diventa tale, che chiunque ti rassomigliasse, poteva diventare il tuo miglior amico nel giro di un giorno, in secondo luogo perché nel campo non c'era un modo giusto o una sbagliato di comportarsi per sopravvivere, le cause di morte all'interno del campo erano così tante che nessuno era sicuro di poter arrivare fino a sera, e quindi ogni rapporto era prezioso e raro.

Io e Kurenai, passavamo le serate sdraiate nei nostri letti scomodi e sporchi, stanche morte per la fatica, ma contente di essere ancora vive, di essere ancora presenti e più di ogni altra cosa di non essere più sole.

C'erano giorni in cui riuscivo a sognare: ed ero a casa, e c'era la mia famiglia, ed era capodanno, Kurenai veniva per festeggiarlo con me e la mia famiglia. Il mio divertimento maggiore era far arrossire mio cugino Neji, che aveva sviluppato una tremenda cotta per Kurenai. Poi arrivava anche Naruto, ed eravamo fidanzati... ma poi c'era il freddo, o la tosse secca di un'altra ragazza a svegliarmi e a riportarmi alla realtà.

Una mattina come tante altre, un alba come tutte le altre albe prima di lei, all'appello della nostra baracca mancava una ragazza.

Quel giorno di diverso c'era che a fare l'appello era il comandante del campo e di fianco lui Naruro. Il suo viso, il suo volto sembrava malato, da quanto era divenuto pallido, vedevo le sue mani stringersi in in pungo, in gesto di rabbia e di delusione, come qualcuno tradito, ferito, come qualcuno che finalmente ha capito l'errore che ha commesso, quello in cui ha creduto.

Tre ore di lungo ed estenuante appello, nevicava, e le mie scarpe erano bucate, il mio pollicione aveva perso la sensibilità, ma sentire ad Auschwitz era un lusso, perché solo il vuoto era concesso nel campo.

Quando pensavamo che l'appello si fosse concluso e la donna che non si trovava ricomparsa, il comandante prese una delle “precauzioni” che quotidianamente venivano prese ad Auschiwitz. Estrasse la sua pistola ed incominciò a spare ad una donna, e poi ad un altra. Una sì, ed una no... tutte le file.

Sparò alla donna alla mia sinistra, e poi alla donna alla mia destra, sparò a Kurenai. E per tutto il tempo, per tutto il dannatissimo tempo, in cui fu costretta ad ascoltare i pianti delle donne che avevano già intuito che di lì a poco sarebbero morte, in cui fui obbligata a sentire il rumore di uno sparo e poi di quello successivo e di quello dopo ancora, mantenni i miei occhi fissi in quelli di Naruto, in quelli senza vita di Naruto, l'acqua dei suoi occhi aveva lasciato il posto alla nebbia, erano diventati grigi.

Ed infine l'appello si concluse.

Fummo mandate tutte ai nostri impieghi, arrivai in cucina con quasi quattro ore di ritardo, nessuno però aveva incominciato a fare il mio lavoro e mi ritrovai da sola nelle cucina alla fine della giornata di lavoro, ancora impegnata nello sbucciare patate.

Lui scese con calma le scale, mi si avvicina e mi accarezzò la nuca, dolcemente, mi scostai, e subito pensai che era una pazzia, che lui mi aveva scelto, come suo divertimento, che non mi avrebbe mai lasciato andare, che non avevo vie di fuga e quella mattina mi era stato ben dimostrato.

Alzai lo sguardo in attesa che mi picchiasse o estraesse la sua arma.

Ma invece mi si avvicinò nuovamente, lentamente, delicatamente e posò una mano sulla mia guancia e mi accarezzò, non riuscivo a sollevare lo sguardo da terra, ero terrorizzata e morta, morta dentro, vuota.

Fino a quando non sentì il suo fiato accorciarsi e aumentare di frequenza, fino a quando non vidi una lacrima cadere a terra.

Allora lo osservai in viso e i suoi occhi erano pieni di lacrime, e non so perché, non so quale demone folle mi possedette, ma con la mia mano asciugai le sue lacrime e poi passai un braccio dietro alla sua schiena e con l'altro spinsi la sua testa sulla mia spalla.

Ero sporca e puzzavo, ed ero un’ebrea, ma lui mi strinse e pianse sulla mia spalle, poi posò la testa nell'incavo del mio collo.

Sentì le sue labbra posarsi sul mio collo, accarezzare la mia pelle,baciarmi. Un bacio, e poi un altro, ed un altro ancora, salendo lungo il mio collo, la mia guancia, fino a raggiungere le mie labbra.

Mi persi nel piacere della sicurezza di quel bacio, mi persi nei miei sogni dove noi due eravamo felici e futuri sposi.

Lasciai che le sue mani percorressero il mio corpo, che mi slacciassero il primo bottone della divisa che mi accarezzassero il collo.

Ma un'immagine mi bloccò: Kurenai cadere a terra.

Misi le mie mani sulle sue allontanandole da me. Mi guardò confuso e perso.

“Non posso, non possiamo” incominciai a dirgli, “tu hai ucciso la mia famiglia, i miei amici, so che ad Auschwitz non ci sono amici, perché tu non ci consideri nemmeno esseri umani, e se non tu, tutti quelli come te. Ogni tanto mi sveglio nel cuore della notte penando che io dovrei essere ancora a Roma, nella mia casa, con le mie certezze e gioie e non qui completamente sola, con solo te al mio fianco, te un nazista, un SS, il mio carceriere. Potresti uccidermi ora e nessuno direbbe mai nulla” dissi, sapevo che non aveva capito nemmeno una parola, ma avevo così bisogno di dirglielo, perché non avrei mai potuto, mai nel campo dirgli quello che sognavo, quello che volevo.

“Sono nato in una famiglia ricca, mi hanno insegnato che il Furher era, ed è il Salvatore del popolo tedesco, come nostro signore Gesù Cristo, e poi ho visto Auschwitz. Solo ora ho capito che Hitler non è un salvatore, ma un pazzo assassino, e potrei morire per questo pensiero, ma con te posso dirlo, e non solo perché non mi capisci, ma perché io Ti amo, e perché so che quel pazzo ha rovinato la tua vita molto di più della mia. Vorrei poterti salvare, aiutare, amare, ma non posso fare altro che guardare e sperare che questa guerra giunga alla fine nel più breve tempo possibile, con una nostra sconfitta e con te ancora viva. Ti prego continua a vivere, per me, per te, per noi. Questo mondo non ci perdonerà e non ci dimenticherà mai, ogni morto oggi, sarà un morto che pagheremo, ed è giusto così perché siamo solo dei mostro... io sono un mostro” le sue ultime parole erano state dette con rabbia, stava urlando e stava piangendo. Cadde a terra, sulle sue ginocchia, lo seguì e presi il suo viso fra le mie mani. Non avevo capito molto, se non la parola “mostro”, ma sapevo cosa voleva dirmi, cosa mi stava dicendo, e per la prima volta da quando fui caricata sul treno che mi portò ad Auschwitz, seppi che di lui potevo fidarmi e allora gli dissi, consapevole che le mie parole si sarebbero perse nel vento: “Tu non sei un mostro... perché non posso aver riposto le mie ultime speranze in un difetto della natura”.

Lo baciai, e lui si lasciò baciare, per poi assalirmi con le sue labbra.

Lo amai, e lui mi amò, come Dio insegnò ai suoi figli. La mia prima volta, in una sporca cucina, su di uno sporco terreno, ma lui fu dolce, fu gentile e anche se non capivo le sue parole, il mio cuore sapeva cosa volevano dire.

Avrei voluto potermi addormentare fra le sue braccia, una volta finita la passione, ma la sirena dell'appello non ci concesse proroghe, ma solo la consapevolezza che sarei potuta uscire da quella cucina e morire, ma che avrei dovuto lottare per noi.

Il sole calò e riapparve alto nel cielo, maestoso come un re.

Ripensai agli accadimenti del giorno precedente: Kurenai era morta, avevo fatto l'amore per la prima volta con Naruto, ero ritornata a fidarmi di qualcuno.

Ma come sempre la prova più dura per la fiducia è il tradimento.

Naruto quel giorno non si presentò al suo solito posto a guardia delle cucine. Al suo posto c’era un'altra SS, una di quelle che picchiavano i prigionieri, una di quelle credeva che i mostri fossimo noi.

Ma venne la sera e la mia speranza, così difficile da trovare in quel campo e così ardua da mantenere, vacillò ancora una volta, quando una guardia mi intimò di seguirlo. Camminava dietro a me, il fucile puntato alla mia schiena, il sudore che mi colava lungo il collo e poi giù, lungo la colonna vertebrale.

Mi condusse in uno degli edifici dove mangiavano le SS, un luogo proibito per noi ebrei, e io non capivo cosa stesse succedendo: questo era realmente il pericolo maggiore nel campo.

Arrivati alla porta bussò, e io fui spinta fino ad una stanza, dove mi fu lanciato un asciugamano e un vestito. Mi ordinarono di rendermi presentabile e di vestirmi.

Mi avvicinai alla brocca d'acqua con un certo timore, la sfiorai con il palmo, e quando stabilii che non avrebbe potuto ferirmi, o arrecarmi danno, infilai la mano e sollevando più acqua possibile mi lavai il viso e il collo. Mentre mi asciugavo mi diressi verso uno specchio appeso al muro, e non riconobbi il mio viso. I miei occhi, le mie guance che una volta si arrossivano con la facilità di un “Ciao”…i miei capelli che non c’erano più.

Mi pizzicai le guance per riottenere almeno un po' del mio vecchio colore, indossai il vestito e per paura di qualche punizione ripiegai diligentemente la mia divisa con la stella a cinque punte cucita sul petto.

Poi attesi attimi infiniti mentre giocavo nervosamente con le mie dita. Avevo imparato nei mesi della mia permanenza nel campo, che l'immaginazione e la crudeltà dei nazisti era inarrivabile, e quindi non tentai nemmeno di immaginare cosa mi sarebbe successo di lì a pochi attimi.

La porta si aprì e fui condotta in una stanza piena di uomini e donne in divisa, di SS; il fumo che permeava la stanza era talmente tanto denso, da impedire di riconoscere i volti dei nostri usuali carnefici.

Salsicce nei loro piatti, mentre noi la carne la sognavamo di notte; birra nei loro boccali, mentre noi avevamo perfino l'acqua razionata.

Mi porsero un violino e lo presi fra le mani, e per una piccola frazione di secondo mi sorrisi, e mi sentii di nuovo felice.

Presi posto vicino all'orchestra: erano ebrei come me. Riconobbi persino l'uomo che suonava la chitarra, era uno dei medici dell'infermeria.

Mi passarono uno spartito e incominciammo a suonare. Una canzone dopo l'altra, un'umiliazione dopo l'altra. Vedevo i loro visi nascosti dal fumo, sempre più ubriachi e spensierati e pensavo a Kurenai, ai nostri sogni, pensavo alla mia casa, a mia madre, a mio cugino e sapevo che le mani di quegli uomini e di quelle donne avevano ucciso la mia vita, avevano premuto il grilletto contro le persone che amavo.

Avrei voluto ucciderli, ma poi notai qualcuno che non beveva, qualcuno che non rideva, qualcuno che mi guardava: Naruto.

Dopo ore che l'orchestra suonava e tutti quanti i musicisti erano visibilmente stanchi, finalmente ci congedarono. Per ogni membro di quel piccolo circo la giornata era cominciata alle quattro del mattino e il giorno dopo sarebbe cominciata sempre al medesimo orario. Naruto si sollevò in piedi e approfittando dello stato di ebbrezza dei suoi commilitoni, si avvicinò all'orchestra, indicando di uscire dalla stanza a tutti tranne me. Poi, si sedette al piano e incominciò a suonare. D’istinto il mio violino seguì le note del suo piano in una melodia dolce e malinconica, proprio come il nostro amore.

I suoi occhi non erano mai stati così tristi e al contempo così belli.

Finito di suonare si alzò e mi indicò di dirigermi dietro la porta. Gli altri musicisti non erano più lì, e io ero rimasta sola col terrore di dover ritornare al mio edificio da sola, di notte, nel campo. Mi spogliai a fatica, le mie mani tremavano; indossai la divisa e lo sporco della mia vita tornò a ricoprirmi. Poi la porta si aprì e lui entrò, mi corse incontro e mi baciò.

Ich liebe dich” (6)mi disse “Ich habe dir sehr vermisst heute”(7).

Io annuii. non sapevo se mi avesse detto che mi avrebbe uccisa o che mi avrebbe sposata, ma i suoi baci gridavano devozione, le sue carezze fedeltà e la sua bocca amore.

Uscimmo dall'edificio e mi accompagnò al mio dormitorio. Prima di farmi entrare si accertò che nessuno ci vedesse ed un breve bacio sulle labbra fu il nostro “buonanotte” . Poi, l'ennesimo suo bigliettino.

Sdraiata a letto, illuminata dal raggio di luna che penetrava, lessi quello che mi aveva scritto:

Quanto, deh quanto

Di te mi dolse e duol: né mi credea

Che risaper tu lo dovessi; e questo

Facea più sconsolato il dolor mio

(Sogno, vv.14-16) Giacomo Leopardi

I’ vo pensando,e nel penser m’assale

Pietà forte di me stesso

Che mi conduce spesso

Ad altro lagrimar ch’i non soleva

(Canzoniere, 264) Francesco Petrarca

I nostri poeti preferiti.

Poi, Buio.

Sono Hinata Hyuuga, e questa e la mia storia.

Sono sopravissuta al campo di Auschwitz, unica della mia famiglia. Ero la prigioniera numero 34764. Nel campo di detenzione ho incontrato l'amicizia e l'ho persa dopo averla apprezzata, ho incontrato l'amore e la passione e qualcuno me l'ha strappata via.

Hanno ucciso un SS che non ha mai voluto essere un SS. Hanno ucciso il mio Naruto, la sera che aveva suonato con me, che mi aveva concesso un po' di dignità, un po' di felicità. Un polacco, un pover uomo che lottava per la sua libertà, come tutti in tempo di guerra, l'aveva aggredito, l'aveva disarmato e gli aveva sparato, e così il grande amore della mia vita mi aveva abbandonata, per sempre. Nei miei sogni eravamo felici, eravamo vivi.

Sono sopravvissuta grazie a lui, grazie al suo ricordo, e in onore di tutti coloro che sono morti, perché fino a che ne avremo memoria, non saranno morti invano.

Note:

Traduzioni:

1 Uno...Due...Tre...Quattro...Cinque

2 Come stai Hinata?

3 Buon giorno Hinata

4 Mi scuso non la capisco

5 Morta

6 Ti amo

7 mi sei mancata oggi

Finalmente finita! E' stato davvero ostico scrivere e giungere fino alla fine di questa storia, ci sono stati momenti in cui era semplicemente troppo.

Ma sono soddisfatta, spero che possa piacere.

Solo due piccole note, le poesie come è scritto nella storia sono di Leopardi e di Petrarca.

Il resto è mio, tranne per i personaggi che come ovviamente saprai sono di un giapponese!

Milly Malfoy

  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: MillyMalfoy