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Autore: allegretto    24/06/2014    5 recensioni
Ci vuole un incidente per far sì che tutti si rendano conto di quanto seriamente Jensen stia male. Ma come possono Jared, la famiglia Ackles e i suoi amici aiutarlo, quando lo stesso Jensen rifiuta ogni tipo di aiuto esterno? L'unico modo che essi conoscano, anche a costo di perdere per sempre la stima e l'affetto di questa persona!
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jared Padalecki, Jensen Ackles, Misha Collins
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 14

 

In carcere ci sono alcune regole non scritte che è bene assimilare all'istante per evitare guai peggiori e Jensen le imparò subito mentre era in coda alla mensa. Intanto l'aver chiesto protezione alle guardie non era stato un bel biglietto da visita: se si aveva qualche problema con un altro detenuto lo si doveva risolvere da soli. Facile a dirsi ma non a farsi. Quando si è oggetto di bramosia da parte di centinaia di uomini non si può stare lì a ponderare cosa sia meglio fare o dire. In quel momento l'unica ancora di salvezza era stato il secondino. E così i suoi compagni di clausura lo prendevano in giro, mentre avanzava lungo l'interminabile fila per arrivare al vassoio e da lì all'addetto che doveva servire le pietanze.

Non aveva più rivisto né Mark né Jeffrey da quando erano arrivati nel pomeriggio. Era sicuro di non aver avuto le allucinazioni. Erano loro e sapeva anche il motivo della loro presenza. Sicuramente non erano là per aver compiuto qualche reato.

“Di cosa sei accusato?”, gli chiese, sottovoce, un ragazzo accanto a lui.

“Sono evaso dai domiciliari”, rispose Jensen, evasivo. “E tu?”

Un'altra regola era quella di non chiedere mai a qualcuno quel che aveva fatto, ma quello che l'autorità giudiziaria ti imputava di aver fatto. Così eri nella condizione di rispondere, senza peraltro ammettere nulla.

“Mah, furto con scasso”, rispose quello, sospirando. “Anche se la refurtiva non l'hanno trovata, mi hanno arrestato lo stesso”

“Come ti chiami?, gli domandò l'altro, guardandolo con insistenza. “Ci siamo già incontrati, per caso? Mi sei familiare...”

“Jensen”, rispose, mentre avanzava di un passo, verso l'agognata meta. Aveva fame, nonostante la nausea che ormai non lo abbandonava mai. Aveva ponderato molto se mentire sul suo nome oppure no. Negli Usa, Jensen era un cognome abbastanza diffuso, tipico di chi era originario della Danimarca o della penisola scandinava. Come nome proprio era una rarità. Era sicuro di essere l'unico ad avere quel privilegio. Se avesse avuto un nome comune avrebbe potuto passare inosservato ma allo stesso tempo era orgoglioso di quel tratto distintivo. Inconsciamente sperava che qualcuno lo riconoscesse per quell'attore che interpretava Dean Winchester. Avesse avuto un decimo del coraggio del suo personaggio, non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla.

“Ah, sei tu quello che ha causato la rissa stamattina”, esclamò il ragazzo, osservandolo attentamente. “Mi chiamo Jack e ti do un consiglio: trovati un protettore al più presto o verrai usato come sputacchiera da tutti”, disse, serio.

“Protettore? Sputacchiera?”, domandò, inorridito, Jensen. Nonostante i crampi allo stomaco per la fame, ebbe un improvvisa repulsione per il cibo.

“Ti spiego dopo. Vieniti a sedere vicino a me. Ti tengo il posto”, gli sussurrò poi.

Con un cabaret in acciaio suddiviso in tanti scomparti, ricolmi di fagioli in salsa, patate al forno, budino al cioccolato, tre fette di pane tostato, un cartone da un quarto di latte intero, Jensen si accinse a cercare tra la marea di tavoli e teste, Jack. Mentre scrutava le varie persone intravide, quasi in fondo a una delle file, i due compari. Entrambi con la barba lunga e l'aria stanca e scocciata, sembravano proprio due avanzi di galera. Distolse subito lo sguardo e altrettanto fecero loro, ma l'occhiata che si scambiarono valeva più della parola: siamo qui, stai tranquillo!

Piazzato in mezzo al refettorio, imbambolato a pensare a come sarebbero riusciti i due amici a difenderlo, se a malapena potevano guardarsi e soprattutto se gli stavano così lontano, non si accorse del silenzio improvviso che era calato nella mensa. Si sentì tirare per un lembo del blusotto blu che indossava, sopra la tuta arancione, emblema del carcerato in attesa di giudizio.

"Forse se ti siedi, è meglio!”, esclamò Jack, seduto accanto a un posto vuoto, lungo uno dei lati di una tavolata di dieci paia di occhi fissi su di lui.

“Certo che sembri proprio l'ape regina. Neanche entrasse Jennifer Lopez susciterebbe tanto interesse....”, esclamò un uomo sulla sessantina che si presentò come Brown.

Jensen lo guardò come se avesse visto un alieno. Stonava non poco una persona così anziana là dentro. La media dell'età era più o meno di trenta anni e più della metà dei presenti erano di pelle nera.

“Ah, si? Non pensavo di essere così interessante”, replicò Jensen, iniziando a mangiare una pietanza a base di legumi.

“Sei nuovo dell'ambiente, spaventato, giovane e di bell'aspetto. In pratica hai tatuato in fronte la scritta 'sputacchiera'”, spiegò Brown.

“Vorrei proprio sapere cosa vuol dire quel termine lì?”, sospirò Jensen, bevendo un sorso di latte.

“In pratica esprime il concetto che possono fare tutto quello che vogliono con il tuo corpo, tanto vali meno di uno sputo”, sentenziò Jack, ricevendo occhiate di approvazione da parte degli astanti.

Jensen smise di masticare e guardò con orrore colui che aveva parlato. Per la seconda volta in poche volte sentì l'impellente bisogno di firmare un certo documento.

“E come si fa a non fare questa brutta fine?”, chiese poi, con un filo di voce.

“Trovandoti un protettore. Semplice”, rispose l'uomo più anziano, trangugiando una sorsata di Coca-Cola.

“Non sapevo si potesse bere quella bevanda qui”, ribattè, sorpreso, Jensen, dopo essersi ripreso dallo shock, suscitatogli dalla parola incriminata.

“Se si hanno i soldi qui dentro, si può fare una vita da nababbi”, spiegò Brown, scartando il cellophan che conteneva una crostatina al cioccolato. “La mia condanna è a vita e cerco di avere tutti i comforts come se fossi a casa mia”

“Come faccio a sapere se il protettore che mi reclama, è meglio o peggio di un altro?”, chiese Jensen, affascinato da quell'uomo così pacifico e calmo, nonostante quell'ambiente saturo di violenza e rancore.

“Ah, non sei tu a scegliere, ma loro!”, rispose Jack, indicando i compagni di reclusione. “ E ho paura che saranno tanti i contendenti, visto che si accettano già le scommesse”, aggiunse poi, ingoiando un boccone della merendina.

“Comunque il primo che si presenta qui e ti reclama come 'suo' è quello che dovrà poi battersi con tutti gli altri per tenerti. E chi vincerà dovrà fare altrettanto con gli altri pretendenti”, spiegò, infine.

“Ah, bene. Sono in una botte di ferro. Quando avranno finito di litigarsi fra di loro, io sarò già andato via”, replicò Jensen, pensando di essere al sicuro.

“Si, certo. Ovviamente a ogni 'nuovo' protettore dovrai dare prova della tua gratitudine nei suoi confronti”, sogghignò Brown, strizzando un occhio nella direzione di un sconvolto Jensen.

Dopo questa sconfortante chiacchierata, Jensen ritornò nella sua cella. Il suo compagno era un tipo mingherlino, dai muscoli possenti e dall'apparente età di vent'anni. Aveva le braccia piene di tatuaggi, di cui molti con tematiche demoniache. Per fortuna non era minimamente interessato a lui, perciò potè sdraiarsi nella sua cuccetta e leggere in pace il suo libro sulla Grande Depressione Americana. Mancava ancora un'ora alla chiusura definitiva delle celle per la notte e gli altri detenuti erano nella sala comune, dotata di televisore, riviste e libri da leggere, scacchiere per dama e scacchi e se non avesse avuto così paura, a Jensen sarebbe piaciuto fare una partita con quelle pedine a forma di torre e cavalli. Quel gioco gliel'aveva insegnato Jared. Lui, mago della matematica e dei giochi di logica, si era impegnato tanto a spiegargli le mosse e le strategie di quel gioco millenario e Jensen gliene era grato. Avrebbe voluto giocare una partita e far finta che il suo avversario fosse Jared, così per sentirsi più sicuro anche solo con il pensiero. Ci fosse stato Jared con lui, tutto sarebbe stato diverso.

Si rannicchiò nella cuccetta. Aveva freddo, era scosso da brividi. Sapeva che non era febbre dovuta a un malanno. Era solo il suo organismo che reclamava alcool. Da oltre ventiquattro ore non assumeva alcun alcolico e ciò gli iniziava a causare i primi sintomi da astinenza. Aveva già provato in passato a disintossicarsi da solo ma non c'era riuscito. Combattere quel demone dentro di lui che lo ipnotizzava a tal punto da pensare che la bottiglia del whisky fosse l'unica soluzione per tutti i suoi problemi, era impossibile!

Si avvolse nella coperta, mettendo anche la testa sotto quel ruvido tessuto e cercò di calmarsi. Fece alcuni respiri lunghi e lenti, cercando anche di respingere il senso di nausea che minacciava di travolgerlo da un momento all'altro. Impegnato in ciò, non si accorse che qualcuno era entrato nella cella. Solo quando si sentì scrollare per una spalla, smise di tremare e rimase in ascolto.

“Jensen! Jensen! Sono Mark. Esci fuori dalla tana, dai!”, proruppe una voce, dall'inconfondibile accento britannico.

Sconcertato, il giovane emerse dal groviglio di lenzuola e coperte e si ritrovò davanti il faccione barbuto dell'amico. L'espressione sollevata e il sorriso benevolo incoraggiarono Jensen ad uscire fuori dal suo bozzolo.

“Senti, domani mattina in refettorio, Morgan verrà a reclamarti come 'sua proprietà' e io cercherò di diventare il paladino della tua integrità”, spiegò Sheppard, inginocchiandosi a lato del letto, in modo da parlare sottovoce.

Jensen sgranò gli occhi al sentire tale piano. “Non è pericoloso per voi due?”, chiese, a fatica

“A Jeff hanno dato un'identità da boss mafioso e perciò non fa altro che recitare il suo personaggio e lo fa maledettamente bene”, rispose Mark, ghignando, ripensando al collega, impegnato in una recitazione da primato.

“A chi è venuta questa brillante idea?”, chiese Jensen, cercando di non rendere tanto evidente il suo tremore.

“Era l'unica cosa che potessimo fare oppure avresti dovuto stare per quattro giorni in isolamento. Non so cosa preferisci, ma io cercherei di stare lontano da una stanza piccola e soffocante dove trascorrere tutto il tempo”, rispose Mark, osservando con preoccupazione il tremito incontrollato dell'amico.

“Adesso io vado. Tra poco c'è l'appello e poi chiudono le celle. Hai bisogno di qualcosa?”, domandò poi Mark, ben sapendo di cosa avesse bisogno in quel momento Jensen,

“No, grazie. Non credo tu abbia sotto mano una bottiglia di bourbon...”, esclamò Jensen, sospirando, rintanandosi sotto le coltri.

Il mattino seguente il refettorio era permeato da una strana aria eletrizzata; tutti erano in aspettativa di qualcosa di eclatante che avrebbe distratto tutti gli abitanti e fatto chiacchierare per un po' i residenti di quello strano complesso abitativo.

Jensen, in coda, non riusciva a stare fermo. Saltellava prima su un piede e poi sull'altro, facendo così irritare i suoi compagni di attesa. Inoltre ogni cinque secondi si girava a guardare verso il fondo della sala, in direzione dell'entrata, alla ricerca dei suoi amici. Poi, mentre stava contrattando una porzione in più di uova strapazzate con l'inserviente, assai parsimonioso, percepì qualcosa di sinistro aleggiare nel refettorio, come se tutti avessero smesso di respirare. L'addetto alla mensa davanti a lui spalancò gli occhi dalla sorpresa guardando qualcosa dietro Jensen.

Gli si rizzarono i corti capelli sulla nuca, non appena intuì di avere accanto a sé una persona diversa da colui che lo aveva preceduto prima nella fila. Lo riconobbe subito, però. La sua costosa acqua di colonia all'essenza di pino che Jensen gli aveva comprato in Italia lo aveva identificato e ciò contribuì non poco a calmarlo. Un sussurro rapido gli disse di reggergli il gioco.

Così, quando Morgan gli si affiancò, gli afferrò la mano destra e la tirò fino ad afferrare la fodera della tasca dei pantaloni che penzolava fuori. Gesto inequivocabile, nelle carceri americane, per indicare la sottomissione di un detenuto nei confronti di un altro.

Jensen, dapprima riluttante e poi via via sempre più incline ad avvicinarsi per la forte stretta alla mano, alla fine cedette con una gran smorfia di dolore dipinta in volto.

Morgan, soddisfatto, elargì un gran sorriso di trionfo a tutti gli astanti e dopo essersi dotato di vassoio, se lo fece riempire con tutto il necessario per una abbondante colazione, spingendo poi Jensen, il quale aveva un'espressione assai abbattuta, verso un tavolo vuoto.

“Una recitazione da Oscar!”, mormorò Jeffrey, mentre si sedeva davanti al suo protetto.

“Spero tu non prentenda una dimostrazione più plateale di quella messa in scena prima”, replicò Jensen , con lo sguardo fisso nel piatto.

“Dipenderà dalle circostanze”, ribattè il collega, sornione. “Ora mangia o ti viene tutto freddo”, aggiunse poi, alzando di un ottava la voce, per far sentire agli altri il suo tono autoritario.

“In che senso?”, chiese Jensen, a disagio. “Tutti devono sapere che sei di mia proprietà e che, volente o nolente, devi fare quello che ti dico io e se non lo fai, ci saranno delle conseguenze”, spiegò Morgan, finendo di mangiare le salsicce.

“Un po' meno criptico, no?”, chiese Jensen, non capendo bene cosa volesse intendere il suo collega.

“Hai presente quando ti si blocca il cellulare?”, domandò Jeffrey, fissando Jensen. “Lo insulti, lo scrolli e poi, con mala grazia, gli stacchi la batteria”, continuò. “Questo è il trattamento che riserviamo agli oggetti che riteniamo più utili e preziosi. In questo momento tu sei il mio giocattolo preferito o meglio dobbiamo farlo credere agli altri, perciò, se non ubbidisci o no ti atteggi da concubina, mi devo arrabbiare”, concluse, con enfasi, l'attore più anziano.

“Stai scherzando, vero?”, chiese Jensen allibito.

“Il piano è questo”, rispose l'altro. “E comunque è la fine che faresti se né io né Mark riusciremo a tenerti alla larga da tutti quelli che non ti perdono di vista nemmeno per un istante”

“Continuo a non capire”, bofonchiò Jensen, sospirando.

“Ora mangia, poi ti spiego”, ordinò Morgan, perentorio.

Nel carcere della contea di Dallas solo i detenuti già passati in giudicato potevano lavorare; tutti gli altri dovevano far passare il tempo passeggiando in cortile durante le due ore di aria concesse, una all'esterno in cortile durante il pomeriggio e una all'interno dopo cena, oppure fare pesi in palestra, leggere libri in biblioteca e soprattutto stare alla larga dalle bande di latinos o neri che spadroneggiavano nelle prigione.

Perciò Jensen e Morgan scelsero di andare fuori e usufruire dell'ora d'aria per stare un po' da soli. Si sedettero su una panca di legno, nel posto più ombreggiato dello spiazzo a godersi un po' di fresco.

Jensen aveva seguito l'amico sempre tenendo la mano stretta alla fodera della tasca dei pantaloni e con un atteggiamento più remissivo che era riuscito a trovare nel suo essere.

“Allora spiegami un po' cosa avete escogitato tu e Mark”, disse Jensen, sedendosi sulla panchina.

“Mah, non c'erano molte alternative. Abbiamo pensato che uno di noi due doveva essere il cattivo e l'altro il buono, gli altri ti avrebbero lasciato stare. L'altra possibilità era quella di fare una gara per possederti ma avevamo paura che si potesse inserire una terza persona e soffiarti via. Perciò io sarò il despota che ti maltratta e Mark quello che ti salverà”, spiegò Morgan, con una mano davanti alla bocca per evitare di essere compreso da qualcuno in lontananza.

“Despota? Maltratta?”, chiese Jensen, perplesso. “Fammi capire. Io mi ribello a te, tu mi tratti male e io mi rifugio tra le braccia di Mark?”, aggiunse poi, incredulo. “Cosa è? Beautiful?”, sbottò poi, attonito.

Morgan ridacchiò. “In effetti suona proprio così!”

“Per quanto questa commedia andrà avanti fra noi due?”, chiese, poi, Jensen.

“Un paio di giorni. Mi sono fatto spostare nella tua cella. La transazione fra me e il capo delle guardie è stata fatta in pubblico e la busta con i soldi l'hanno vista tutti. La mia copertura è quella di un boss del narcotraffico a Miami e so come muovermi in quell'ambito, grazie alla serie di cui sono protagonista”, spiegò Morgan, guardandosi attorno.

“Quindi nessuno dovrebbe tentare di portarti via da te? Giusto?”, domandò Jensen, speranzoso.

“No, teoricamente no. Ma non sarà una passeggiata, Jensen. All'esterno dovrò essere spietato quanto loro. L'unica consolazione che hai è che io ti sono amico e ho a cuore la tua integrità morale e fisica”, rispose Morgan, guardandolo fisso in volto.

Jensen anuì, sollevato. “L'unica cosa che mi sfugge è quella della tua severità verso di me. Cosa dovrei fare per suscitare la tua ira?”

“E qui sorge il problema”, sospirò Morgan.

“In che senso?”

“Far finta o no?”

“Ma ci sei o ci fai? Mi vuoi dare una spiegazione plausibile?”, urlò Jensen, alzandosi in piedi.

Lo schiaffo fu rapido e bruciante. Jensen, sorpreso dal gesto dell'amico, si passò la mano sulla guancia sinistra, arrossata e dolorante per il colpo ricevuto. Tutti si erano girati a guardarli.

Morgan, impassibile, gli fece segno di sedersi. Jensen ubbidì subito.

“Hai compreso ora?”, gli chiese, poi, sottovoce.

“Perfettamente”, rispose l'altro. “Quindi mi prenderai a sberle per due giorni?”, aggiunse, poi, sospirando.

“Ehehe, a quanto pare. Non ti fanno male comunque. Fa tutto parte della tua terapia. Vedo che sei nel pieno dell'astinenza”, spiegò Jeffrey, calmo.

“Spiritoso. Spero sia l'unica parte reale del nostro fantasioso rapporto”, esclamò Jensen, ancora traumatizzato dal violento ed inaspettato gesto del suo collega.

“Eh, già. Stasera dovremo mettere in scena la rappresentazione del povero ragazzo seviziato dal bruto di turno. Quindi cerca di calarti già nella parte così mi rendi il lavoro meno complicato e faticoso”

“Faticoso?”, chiese, ironico, Jensen. “Sarò io che dovrò agitarmi, urlare e invocare pietà, mentre tu starai a leggere nella tua branda...”, continuò, sullo stesso tono, il giovane.

Morgan elargì un sorrisino beffardo e si alzò in piedi. “Ora andiamo a fare un giro per far vedere quanto sei dolce e zuccheroso!”, disse poi, ghignando.

Il pomeriggio passò liscio e senza traumi. A cena, con abile strategia, Morgan dirottò se stesso e Jensen verso il tavolo dove era seduto Mark. Qust'ultimo doveva recitare il ruolo di un uomo facoltoso ma caduto in disgrazia per frode fiscale, coriaceo ma dal cuore tenero e paladino dei diritti umani il quale, davanti ai soprusi del molestatore, avrebbe dovuto prendere le parti del giovane indifeso e sottrarlo alle sue violenze.

Jensen aveva anche il problema di dover tenere a bada gli effetti assai fastidiosi della sua astinenza: brividi intensi di freddo, mal di testa, tremori e vertigini. Il più pericoloso era l'aggressività. Bastava un nonnulla ed esplodeva all'istante. Quindi il suo nervosismo era palese e quella genuinità era molto utile in quel frangente, anche se la motivazione era un'altra. Ciò però, accentuava lo scontro con il suo 'protettore'. Erano d'accordo che a ogni moto di ribellione in pubblico Morgan poteva colpirlo, se possibile senza eccedere nella violenza ma cercando di far apparire il tutto il più reale possibile.

La mansuetudine e l'obbedienza non erano qualità eccelse nel carattere di Jensen ma di essere usato come punging ball non era proprio nelle sue intenzioni in quel momento. Aveva concordato un moto di ribellione durante il pasto serale, per suscitare l'attenzione di Mark, e inscenare il contrasto tra i due 'suoi' protettori.

Ognuno avrebbe recitato a braccio, ma il primo passo era stato già definito. Morgan avrebbe palpeggiato platealmente Jensen nelle zone intime e al suo rifiuto lo avrebbe punito davanti a tutti.

Quello che rendeva Jensen così nervoso era l'essere al centro dell'attenzione in quel contesto e in quel modo. Aveva cercato di dissuadere Morgan ma era stato invano e in realtà ne condivideva la scelta e la tempistica, solo che non era tanto entusiasa di esserne lui il protagonista.

“Se non rallenti il battito cardiaco, rischi un infarto!”, mormorò Jeffrey a un sempre più agitato Jensen. “Stai tranquillo, su!”

“Facile per te. Sono io quello che le prende davanti a tutti. Anche una semplice sberla può essere umiliante assai”, bofonchiò Jensen, tentando di finire di mangiare un hamburger.

“Mah, pensavo a qualcosa di più eclatante di un semplice schiaffo”, esclamò Jeffrey, evasivo.

Jensen sgranò gli occhi e lo guardò a bocca aperta. L'espressione sul viso dell'attore più anziano era indecifrabile e per questo pericolosa. Con la barba lunga e brizzolata, gli occhi arrossati e stanchi, sembrava proprio John Winchester e quella visione mandò nel panico Jensen.

“Cosa ti frulla per la mente, amico? Non credo tu possa prendermi a calci e pugni qui dentro. Le guardie non te lo permetterebbero e finiresti in isolamento!”, esclamò, poi, cercando di capire quali fossero le sue vere intenzioni.

“Appunto, ma l'impronta della mia mano può tatuare altre parti del tuo corpo...”, rispose l'amico sibillino.

Jensen smise di respirare. Aprì la bocca per replicare ma non ci riuscì. Poi, alcuni secondi dopo, si riscosse un pochino anche se guardava l'altro come se gli si fosse parato davanti un fantasma.

“Tu, le tue mani sul mio fondoschiena non ce le metti...”, gracchiò Jensen, al quale gli si era azzerata la salivazione.

“Si, lo so quello è territorio jarediano”, replicò Morgan, facendo così avvampare Jensen, “ma una piccola intromissione non sarà giudicata male dal nostro comune amico. E poi non posso fare altro. Anzi, questo è l'unico modo per suscitare pietà negli altri detenuti. Certi atteggiamenti non sono ammissibili in carcere se fatti in pubblico!”, spiegò Morgan a un sempre più allibito Jensen.

 

“Non vorrai davvero sculacciarmi, vero?”, chiese il più giovane fra i due, con un filo di voce.

“Sarà più scena che altro, Jensen. Fai finta di essere Dean che ha fatto incazzare John e sarà tutto più semplice”, rispose Jeff, finendo di bere il suo succo di mela.

“John Winchester non punirebbe mai così uno dei suoi figli, men che meno Dean!”, mormorò Jensen, contrariato.

“Infatti a John bastava uno sguardo per essere ubbidito ma credo che qualche rinforzo ogni tanto lo elargisse anche sotto forma di sculacciata!”, replicò Morgan, perentorio.

“Finisci di mangiare, Ackles. A me quelli magri non piacciono,,,”, esclamò, ad alta voce, Morgan.

Mentre stava per finire di mangiare gli ultimi bocconi di purea di patate, Jensen vide un cenno di intesa fra Mark e Jeff e il suo cuore accellerò il ritmo.

“Va bene. Possiamo andarcene a dormire”, sentenziò Morgan, alzandosi in piedi. “Tirati su, dai. Non fare il finto tonto”, esclamò, poi, strattonando per un braccio, il recalcitrante Jensen, Questo lo fulminò con lo sguardo ma si alzò in piedi abbastanza velocemente.

“Ah, stasera, vediamo un po' se questo culetto potrà soddisfarmi per bene”, esclamò Morgan, toccandogli il didietro con enfasi e in modo plateale. Jensen scattò immediamente, spingendolo via con violenza.

Morgan fu fulmineo. Lo prese per un braccio, alzò un piede sulla sedia, lo girò contro la sua gamba e lo spinse giù con l'altra mano, mentre con la destra lo colpì alcune volte con forza sulle natiche a mano aperta.

La scena suscitò indignazione da parte degli astanti. Alcuni risolini imbarazzati si sparsero per la sala ma erano più evidenti i commenti irosi e indignati. Quel tipo di violenza gratuita non era tollerata da quegli uomini coriacei e rotti a ogni esperienza criminale. Magari erano capaci di punirti per un torto subito pugnalandoti con coltelli aritigianali o a prenderti a calci e a pugni fino a renderti un ammasso sanguinante, ma punizioni corporali di quel tipo andavano fatte nel chiuso della propria cella o comunque al riparo da sguardi altrui. Jensen si tirò su con il volto in fiamme, tenne gli occhi bassi per evitare di vedere le occhiate di pietà da parte degli altri detenuti.

C'era ben poco da recitare in quel momento. L'odio che provava era genuino. Se avesse potuto, avrebbe spaccato la faccia a Morgan. Gli aveva fatto male in modo inatteso. Avrebbe voluto che ci fosse Jared a difenderlo e il solo suo pensiero gli fece scappare un singhiozzo che trattenne a stento.

Si avvicinò comunque a Morgan, gli afferrò la fodera della tasca e lo seguì docilmente. Passando accanto a Mark questi gli fece un sorrisino di compatimento e poi afferrò per un braccio Jeff tirandolo verso di sé.

“Le tue perversioni sei pregato di farle nella tua cella. Noi non vogliamo assistere a ciò. E poi, lascia in pace questo giovanotto. Non mi sembra che sia consenziente!”, lo apostrò, indignato.

Nel frattempo altri si erano avvicinati e molti annuivano alle parole di Mark.

“Se non vuoi vedere, ti giri dall'altra parte. E comunque non sono affari tuoi!”, replicò l'altro di rimando.

Stavano uno di fronte all'altro. Molti vicini fra di loro ed emanavano una forte tensione. “I tuoi giochetti sadici a noi non piacciono!”, esclamò Mark, prendendo per il bavero Jeff.

Jensen, con la coda dell'occhio, vide un secondino avvicinarsi e bisbigliò ai due contendenti ciò che stava per accadere.

“Ti tengo d'occhio, comunque!”, esclamò Mark, arretrando di un passo.

Morgan non disse nulla, trascinò via Jensen in malo modo, quasi travolgendo quanti si erano avvicinati a loro. Il ritorno in cella fu veloce e silenzioso. Quando furono al sicuro, Jensen afferrò Jeffrey e lo sbattè contro il muro.

“Non azzardarti mai più a toccarmi in quel modo o la prossima volta ti spacco la faccia! Hai capito?”, gli gridò contro, ricacciandolo contro il muro.

Morgan non disse nulla. Lasciò che il giovane si sfogasse. L'umiliazione era stata grande ma non aveva potuto fare diversamente.

Jensen lo lasciò andare. Per cercare di calmarsi, fece avanti e indietro dalla minuscola finestra alla porta un paio di volte, mentre Mark si era seduto sulla sua branda. Non era spaventato dalla reazione del giovane ma aveva timore che se avesse fatto qualche gesto inconsulto, quello lo avrebbe potuto scambiare per un'aggressione fisica e innescare qualche risposta inadeguata. Aspettò che si arrampicasse sulla propria branda per potersi muovere liberamente.

Sistemò la sua roba, si diede una rinfrescata e ogni tanto dava un'occhiata al dormiente sdraiato prono nella cuccetta superiore. Con il fornelletto elettrico (unico lusso concesso) in dotazione, preparò due tazze di caffè solubile e dopo aver bagnato e strizzato un lembo di un asciugamano, si avvicinò al compagno di sventure.

“Dai, lo so, che non stai dormendo. Sei arrabbiato con me. Hai ragione ma non potevo fare altrimenti. E poi non ti ho fatto male. E' stata tutta scena”, esclamò, scrollandolo gentilmente.

“E lo sarà stata per te. Io ho sentito dolore”, bofonchiò Jensen, con la testa sprofondata nel cuscino.

“Se ti giri verso di me, ti rinfresco un po' il viso e poi ti bevi una tazza di caffè caldo”, gli disse in tono paterno.

“Caffè?”, mormorò l'altro, interessato.

“Si, ho anche due biscotti al cioccolato presi al distributore nell'area comune”

La parola 'cioccolato' fu decisiva. Lentamente il giovane si girò verso il più anziano, il quale gli sorrise con affetto. Poi gli passò l'asciugamano per detergergli un po' il viso, ancora accaldato per il pianto e la collera.

“Dove lo hai infilato il tuo doppio, stronzo e sadico?”, gli domandò Jensen mentre si asciugava la faccia.

“Lo tengo nascosto. Non ti preoccupare. Qui in cella ha il sopravvento il mio lato umano e caricatevole”, rispose, mentre gli passava la tazza con il caffè.

“Ah, bene. Buono a sapersi”, replicò Jensen, mentre assaporava la scura bevanda calda.

“Riesci a stare seduto sul letto?”, gli chiese Morgan, aprendo la confezione di biscotti.

Jensen fece segno di no con la testa.

“Ma ti fa ancora male il fondoschiena?”, chiese Morgan, incredulo, mentre gli passava i dolci. “Jensen, davvero, è impossibile che ti abbia fatto male. Ti ho colpito con la punta delle dita. I miei figli ridono quando li punisco in quel modo”, aggiunse poi, ridacchiando.

“E si vede che ci sono abituati...”, bofonchiò l'altro, massaggiandosi con una mano il didietro.

Iniziò poi a sgranocchiarsi il biscotto con evidente soddisfazione. “Devo, per caso, mettermi un paracolpi al sedere domani o pensi che la pantomima odierna abbia sortito i suoi effetti?”, chiese poi, ammiccando.

“Non lo so. Mark è ancora un po' preoccupato. C'è la doccia domani mattina. Teme che qualcuno si possa inserire nella questione. Tu stai vicino a me e comunque ci sarà anche lui a tenerci d'occhio. Vedrai che tutto andrà bene”, rispose Morgan, cercando di essere ottimista anche se in cuor suo aveva una fifa tremenda.

Per fortuna il giorno dopo tutto andò liscio. Jensen rimase attaccato come una cozza al suo protettore e Mark li tenne sotto controllo. Il pomeriggio scorse lento e soffocante. Jensen decise di rimanere in cella a leggere, mentre i suoi due amici passeggiavano lungo l'assolato cortile, ognuno per conto loro.

Ma era la quiete prima della tempesta...

Già dal mattino dopo, Jensen si rese conto che l'atmosfera era cambiata. In refettorio la parola predominante era Supernatural e tutti lo guardavano con rinnovato interesse che andava al di là del desiderio lussurioso. Vide nelle espressioni dei suoi compagni di detenzione lampi di interesse puramente economico.

Uno di loro afferrò per una manica Morgan e lo attirò verso di sé. “I detenuti appena arrivati non possono avere privilegi, a meno che questi non siano approvati dal consiglio interno. Perciò devi avere la nostra autorizzazione se vuoi solazzarti con 'carne fresca' e comunque questa andrà prima usata da noi”, esclamò un energumeno, di chiara origine portoricana, con evidente disprezzo.

Morgan ingoiò a vuoto. Quello di cui aveva avuto timore, si stava materializzando in quel momento. Iniziò a contare mentalmente quante ore mancassero all'udienza di martedì. Cercando di non farsi vedere spaventato da quelle parole, si allontanò con calma trascinandosi appresso un timoroso Jensen, il quale continuava a chiedere cosa avrebbero fatto in quel frangente.

All'apertura pomeridiana delle celle, Morgan si eclissò, lasciando nell'incertezza più totale Jensen. Avrebbe voluto andare a cercare Mark ma sapeva che non era una mossa furba, anche se avrebbe potuto dire che voleva chiedergli aiuto. Avrebbe dovuto uscire fuori dalla sua cella e percorrere tutto il corridoio per arrivare alla cella dell'amico. Diede un paio di volte una sbirciata fuori ma troppa gente ingombrava il passaggio. Decise così di rimanere dentro ed evitare guai peggiori.

Morgan tornò poco prima delle cinque, in tempo per la chiusura delle celle. Non disse una parola ma si capiva perfettamente che era teso e preoccupato. Alle sette comunicò a Jensen che insieme sarebbero andati nell'area comune a parlare con i capi del consiglio dei detenuti. Morgan aveva accarezzato l'idea di non andarci affatto e far finta di nulla ma sapeva che non era un buon piano. Perciò fu costretto ad andare all'appuntamento e costrinse Jensen a seguirlo.

Nell'area comune del blocco si stava formando un crocicchio di persone, tutti in ansiosa aspettativa. Tra questi Jensen riconobbe il grosso portoricano che li aveva fermati precedentemente e fu proprio costui quello più infervorato nel discorso ma lui era troppo lontano per capire di cosa stessero parlando. L'attesa fu lunga e snervante. Avrebbe voluto dar man forte al suo amico ma sapeva che doveva recitare la parte dell'umile e sottomesso. Mark lo teneva d'occhio ma non poteva avvicinare neanche lui.

Quando ormai aveva perso ogni speranza, la riunione si sciolse e ognuno tornò alle proprie faccende. La sua espressione era indecifrabile. Fece segno ai due compari di seguirlo nei bagni. Dopo essersi accertato che non vi era nessuno, spiegò loro la situazione.

“Allora cosa ti hanno detto?”, chiese Mark, impaziente.

“Dapprima volevano che gli consegnassi Jensen questa sera per potersi un po' divertire. Al mio rifiuto allora hanno preteso soldi, tanti soldi che qui non ho e loro lo sanno, ovviamente. Entro le nove devo consegnare cinquemila dollari, anche sotto forma di oro o oggetti preziosi”, rispose, sconsolato.

L'espressione di Jensen era di terrore puro, mentre Mark era sconcertato..

“Non possiamo chiamare uno dei miei avvocati e spiegargli il problema?”, chiese Jensen, nervoso.

“Si, potremmo farlo ma mi è stato chiaramente vietato di parlare con le guardie e tu sai benissimo che se vuoi conferire con i tuoi legali, devi prima chiedere a loro”, rispose Morgan, mentre si grattava la barba, pensoso.

“Ho paura che dovremo chiedere aiuto ai detenuti comuni”, esclamò Mark.

“E come? Per me di certo nessuno vorrà intercedere...”, replicò Jeff, afflitto.

“Diremo loro la verità!”, sentenziò Mark.

“Bavo! Così mi venderanno subito al miglior offerente”, sbottò Jensen, guardando allibito il suo collega.

“Il mio compagno di cella è un bravo uomo. Lo conosco da solo due giorni ma mi sembra onesto e di buon cuore e tutti lo rispettano e chiedono a lui consigli e favori”, spiegò Mark.

“E' un ergastolano, Sheppard. Come fai a fidarti di lui?”, chiese Jensen, allibito.

“E allora? Puoi essere anche un assassino ma non per questo una cattiva persona. E poi è stato incastrato e gli ho promesso che, quando uscirò di qui, gli manderò uno dei migliori avvocati di Dallas per farlo uscire almeno sulla parola”, rispose Morgan, un po' alterato.

“Come al solito voi inglesi siete tutti altruisti, vero?”, sbottò Jensen, parandosi davanti al suo collega con fare minaccioso. “Il vostro ideale di moralità è quello dell'età vittoriana. I poveri erano in quella condizioni perchè erano pigri e non perchè vivevano in condizioni igieniche pessime e in città con le fogne a cielo aperto”

“Non farti fregare dalle tue origini texane e repubblicane, Jensen”, replicò Mark, calmo, nonostante la tensione crescente sul viso del suo interlocutore. “Hai sempre detto che non la pensavi come tuo padre. Non tutti gli assassini sono da camera a gas!”

“Non sono mai stato repubblicano e sono contrario alla pena di morte ma non mi fido di chi uccide a sangue freddo!”

Morgan, vedendo che la situazione stava degenerando, si frappose fra i due contendenti e spingendo via Jensen, esclamò: “Mark, va bene. Facciamo come dici tu. Mi sembra che non abbiamo altra scelta. Come intendi procedere?”

“Seguitemi”, replicò il britannico, dirigendosi verso il blocco delle celle.

“Ah, si, tanto si tratta della mia di pellaccia, mica la vostra....”, mormorò Jensen, suscitando occhiate minacciose da parte di Jeffrey e Mark.

“Brown, possiamo parlarti un momento?”, domandò Mark, avvicinandosi ad un uomo anziano, mentre stava appartato in un angolo della sala comune.

Quello annuì. Spostò poi lo sguardo verso Morgan e Jensen e non apparve sorpreso, come era naturale pensare che fosse, vedendo l'atteggiamento non deferente del più giovane verso il suo padrone. Non proferì parola e salì su per le scale, verso la sua cella. Giunti al secondo piano, entrò dentro e si sedette sull'unica sedia in dotazione. Morgan rimase fuori, in posizione più defilata, quasi sulla porta per non intralciare il collega ma anche preoccupato dalla reazione del detenuto più anziano. Se non accettava di aiutarli, erano fregati. O meglio, lo era Jensen!

Dopo che Brown ebbe fatto un cenno a Mark, questo iniziò a parlare. Lo ascoltò senza interromperlo, annuendo un paio di volte e scuotendo il capo altrettante volte. Al termine del monologo, calò il silenzio. Il compagno di cella di Mark era pensieroso. Si stropicciava le mani con lo sguardo perso nel vuoto. Jensen si alzò in piedi e iniziò a saltellare sui piedi. Morgan, fuori sul ballatoio, guardava lungo il corridoio di ferro che fungeva da raccordo con le celle e il cortile interno del braccio.

“Sinceramente avevo capito che non eravate quello che pretendevate di essere. Quello che mi ha lasciato interdetto è stata la sceneggiata in sala mensa l'altra sera. Era molto realistica, ma ora capisco il motivo. Siete attori e anche molto bravi”, esclamò, dopo un breve periodo di riflessione.

“Visto che mancano dieci minuti alle nove e quindi alla chiusura definitiva, garantirò io per voi. Vanto una serie di favori da quella gente, perciò non avete nulla da temere”, aggiunse poi.

“Questo tuo intervento basterà?”, chiese Jensen, dubbioso.

“Sono venti anni che sono qui. L'anzianità in questi posti ha il suo peso ed è rispettata anche da quei pivelli che si credono chissà che cosa. Perciò ti posso assicurare che finché starete qui, non vi sarà fatto alcun male”, rispose l'anziano detenuto con determinazione.

“Ti ringrazio Brown e ovviamente il tuo contributo sarà largamente ricompensato, a partire dalla nomina di un avvocato penalista che possa farti avere la libertà condizionata e perché no, la revoca della tua condanna”, esclamò Mark, grato e supportato anche dagli altri due amici.

Il giorno dopo passò nella calma più totale. Era come se Jensen e gli altri fossero in una campana di vetro, dove tutti li potessero guardare ma non toccare. Ovunque andassero mensa, sala comune, cortile e biblioteca erano additati e chiacchierati ma nessuno di azzardò a interloquire con loro né tanto meno a toccarli.

In Jensen, che non doveva più recitare la parte del sottomesso, si era fatta strada nella sua mente, la certezza che se il giudice lo avesse condannato a scontare tutta la pena in carcere, lui avrebbe potuto rimanere là dentro, sotto la protezione di Brown, senza dover accettare di andare in clinica.

Le ultime ore prima dell'udienza furono piene di aspettativa per Jensen e quando lasciò la casa circondariale su un pulmino con i suoi due compagni di avventura, non rivolse un addio a quei muraglioni alti e fortificati, bensì un arrivederci a presto!

 

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Angolo di Allegretto

In questo capitolo sono presenti alcune tematiche forti. Ho cercato di essere più evasiva possibile, per evitare di dover aumentare il rating della storia e impedire così la lettura da parte di tutti. Se vi dovessero disturbare questi particolari, avvertitemi che li modifico o li cambio del tutto.

La maggior parte dei riferimenti carcerari sono presi dalla visione di una serie televisiva 'Prison Break', già conclusa da alcuni anni, che sto riguardando di nuovo. (la consiglio vivamente a chi non l'avesse mai vista prima. Guarda caso, racconta la storia di due fratelli)

Jeffrey Dean Morgan è stato protagonista di 'Magic City', dove recita la parte di un boss della mafia a Miami.(consiglio anche questa serie)

Dal prossimo capitolo, rientro nella narrazione originaria che avevo previsto all'inizio e quindi ne prevedo ancora due o tre al massimo prima della conclusione della storia.

Ringrazio come sempre coloro che mi seguono, commentano e leggono questa fan-fiction e soprattutto sono grata a coloro che sopportano i lunghi tempi di pubblicazione. Grazie mille e a presto!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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