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Autore: Ali_taki_    24/06/2014    0 recensioni
“Tre sono le forze che muovono ogni vicenda umana: l’amore, l’odio, e la noia. Per ognuna di queste cose, gli uomini sono capaci di compiere i gesti più impensabili. Immagina cosa potrebbe fare un dio.”
[La storia è liberamente ispirata all'inno omerico a Dioniso, del quale riprende personaggi e avvenimenti.]
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il giovane dai riccioli biondi passeggiava in riva al mare, godendosi il sole sul volto e la freschezza delle onde che gli lambivano i piedi. Quella mattina il mare era di un blu carico e luminoso; le onde ne increspavano appena la superficie, smuovendolo come un enorme lenzuolo gonfiato dal vento. Le impronte del giovane venivano inghiottite dall’acqua mentre lui avanzava lungo la spiaggia. Il peplo bianco che indossava gli lasciava una spalla scoperta e si agitava nella brezza, sfiorando le onde che si gettavano in avanti e poi si ritiravano trascinando sassolini e conchiglie.
Allungò lo sguardo all’orizzonte. Il mare era una distesa di riflessi luminosi. D’un tratto, con la cosa dell’occhio, scorse il profilo di una nave sbucare da destra. Si girò a guardarla: era una nave grande, con un albero maestro svettante; le vele erano ammainate; forse i marinai stavano per fermarsi.
Il giovane distolse lo sguardo e proseguì la sua passeggiata.
Gli faceva piacere che la spiaggia fosse libera dalla presenza degli esseri umani. Aveva voglia di rimanere da solo; gli ultimi giorni erano stati noiosi e privi di avvenimenti rilevanti, ma questo forse era un bene. L’ultima cosa che gli serviva, di certo, erano gli irritanti mortali, che da un lato avrebbero interrotto la quiete o anche la semplice armonia solitaria tra lui e la natura, dall’altro lo avrebbero annoiato, ricordandogli quanto fossero stati monotoni gli ultimi tempi.
 
Il timoniere indirizzava la nave verso la spiaggia, senza smettere un attimo di sbuffare. I suoi compagni si affaccendavano tutt’intorno a lui, raccogliendo reti, coltelli e tutto ciò che sarebbe potuto tornare utile per il rapimento. Oltre che negli sbuffi, l’irritazione del timoniere si palesava nella grossa vena che gli pulsava sulla fronte. Lui non era d’accordo con quanto gli altri pirati avevano pianificato.
“Un fanciullo sulla spiaggia” aveva urlato la vedetta dall’alto dell’albero maestro. Nessuno inizialmente aveva prestato attenzione all’annuncio; il timoniere aveva continuato a mantenere dritta la rotta. Ma poi un nuovo urlo era piovuto giù dall’albero maestro catturando l’attenzione dei marinai: “Probabilmente è un aristocratico. È biondo e indossa un peplo.” Il capitano allora si era incuriosito, e aveva ordinato al timoniere di avvicinarsi alla spiaggia perché potessero vedere più da vicino. Il timoniere aveva obbedito; evitando di impelagarsi in acque troppo basse per la nave, per evitare di incagliarsi al fondale, aveva accostato la nave alla spiaggia più che poteva. La testa bionda del giovane allora era divenuta visibile anche a lui. Mentre tutti i pirati si sporgevano per dare un’occhiata, un sommesso mormorio di stupore si era levato tra gli uomini. Senza rendersene conto anche il timoniere era rimasto a bocca aperta. Il giovane che passeggiava con andatura lenta sulla spiaggia era quanto di più bello avesse mai visto. Più bello della ragazza che aveva conosciuto qualche mese prima al porto di Smirne, più bello della principessa della sua città di provenienza, talmente stupendo  da risultare quasi fastidioso alla vista. I riccioli d’oro splendevano al sole come fili d’oro, incorniciandogli il viso in uno sfondo di bagliori dorati. Il suo viso era perfetto nelle proporzioni; il timoniere si era incantato nel seguirne i contorni. La linea delicata, benché visibile, della mascella scivolava sul collo e poi verso l’alto, uniformandosi nella sporgenza degli zigomi; da questi sembravano proiettarsi a loro volta i tratti della fronte e della sopracciglia; e questi tratti, intersecandosi, facevano scaturire la linea del naso, sottile e perfetto. Le labbra erano rosee e gonfie  e coronavano la base di un mento deciso ma garbato. L’armonia di quel volto gli ricordava la dolcezza del miele e la fluidità del vino che scorre. Il timoniere rimase incantato dal modo in cui i lineamenti si susseguivano e si combinavano con la stessa precisione dei pezzi di un mosaico.
Immediatamente si erano levate altre urla: “Dev’essere senz’altro il figlio di un re.”
“Io dico di catturarlo.”
“Potremo chiedere un grandissimo riscatto.”
Il timoniere si era voltato, sconvolto. “Siete impazziti? Volete fare dal male a un fanciullo tanto splendido?” La sua voce si era persa nel coro di strepiti sulla nave. Con desolazione aveva visto che il capitano era stato tra quelli a proporre il rapimento e così aveva dovuto rassegnarsi. E adesso eccolo qui, a pedinare il bellissimo giovane che continuava a camminare lento sulla spiaggia.
 
Il rumore di acqua smossa da qualcosa che vi precipita. Il giovane si girò. La nave si era fatta ancora più vicina; vedeva i marinai affacciati ai bordi e poi li vide tuffarsi, atterrare nell’acqua e riemergere, nuotando a fatica con le mani occupate da spade e reti. Il giovane si arrestò. Rimase immobile dov’era, osservando i pirati che si trascinava verso la riva. Il suo viso era impassibile; tradiva soltanto uno spiraglio di divertita incredulità.
Forse, dopotutto, era arrivato il momento di interrompere la monotonia e divertirsi un po’.
Il primo pirata guadagnò la spiaggia. Emerse gocciolante e brutale, con la sciabola in mano. “Tu” apostrofò il giovane, che inarcò un po’ le sopracciglia. “Adesso verrai con noi.” Il pirata sorrise, un ghigno maligno che avrebbe fatto impallidire un normale fanciullo.
I compagni del pirata lo raggiunsero presto. In uno sciabordare disordinato si materializzarono accanto a lui, brandendo altre spade e reti.
Il fanciullo li studiò con un’occhiata rapida. “Riponete le armi, pirati. Non intendo muovere resistenza.” La sua voce risuonò limpida, come se avesse parlato al centro di un teatro vuoto. Alcuni dei pirati aggrottarono le sopracciglia, altro fecero spallucce. “Vedo che hai senno” disse un altro. “Dunque vieni con noi.”
Il giovane annuì impercettibilmente e si immise tra i pirati. Due di loro lo afferrarono con malagrazia per le braccia e lo trascinarono in mare. Il peplo danzava nell’acqua mentre il giovane muoveva le gambe per tenersi a galla e mentre i pirati lo traevano verso la nave. Quando furono vicini, uno urlò: “Lo abbiamo preso! Lo abbiamo preso!”
Un coro gioioso si levò dal ponte della nave. I pirati a bordo buttarono una scala di lenza, che si srotolò lungo il fianco della nave e sbatté sulla superficie del mare. “Due di voi aspettino quaggiù finché il marmocchio non sarà salito. Se si butta, potete aprirgli il ventre.” Il giovane sbatté gli occhi con aria di sufficienza e cominciò ad arrampicarsi su per la scala. Il peplo bagnato aderiva sul suo corpo magro. Dovette stringere forte le scala quando il primo pirata vi si aggrappò per arrampicarsi, facendola tremare tutta. Il giovane continuò a salire, rasentando la stessa tranquillità che dimostrava nel camminare in spiaggia. Quella parvenza di divertimento, però, rompeva pezzo dopo pezzo l’inespressività del suo viso.
Il pirata che veniva dietro di lui sibilò. Gli arrivavano le gocce giù dal peplo del giovane. Ma quando la sua pelle vi entrava in contatto, bruciava. Come se invece di gocce d’acqua, quelle fossero gocce di un qualche metallo fuso.
Il giovane arrivò in cima alla scala e un paio di braccia si protesero per issarlo a bordo.
Mentre tutti i pirati che erano scesi tornavano sulla nave, lo sguardo di quelli che erano rimasti si inchiodò su di lui. Bagnata, la pelle del ragazzo sembrava emettere una luminosità ambrata. Il peplo che aderiva al suo corpo metteva in risalto le forme scolpite del torace e delle gambe. Pur essendo piccolo di statura, la sua bellezza era tanto immane da scacciare dalla mente dei pirati il ricordo di qualsiasi donna o qualsiasi amante.
Un uomo slanciato, con i capelli neri e mossi si fece avanti. “Io sono il capitano di questa nave. Benvenuto a bordo.” Il sorriso del capitano era lucente, ma nascondeva intenzioni tutt’altro che benevole. “La tua bellezza ci ha colpito, fanciullo, tanto che abbiamo creduto che tu sia figlio di un re.”
Il ragazzo sorrise da un solo lato della bocca. Il caso non era stato dalla parte di questi pirati squattrinati, dal momento che aveva fatto incrociare il loro cammino con il suo.
“È per questo che ti abbiamo rapito, perché tu possa fruttarci un grande riscatto. Ora parla e dimmi chi sei!”
Il giovane sorrise e si sedette a terra. I suoi movimenti furono seguiti da ogni singolo paio d’occhi sulla nave. Ma non parlò. Il capitano corrugò la fronte, poi ripeté: “Dimmi chi sei.”
Il giovane sollevò lo sguardo mentre sistemava in posizione conserta le gambe. Tutti i pirati allungarono inconsapevolmente il collo per scorgere sotto il tessuto. “Io sono la tua rovina.”
Ci fu un attimo di silenzio. Poi il capitano scoppiò a ridere, e gli altri pirati lo imitarono.
“Molto bene. Hai deciso di metterci il bastone tra le ruote. Molto bene. Molto bene. Adesso peggio per te.” Scambiò uno sguardo maligno con i subalterni a lui più vicini e disse: “Ragazzi, dal momento che abbiamo questo fanciullo così bello, sarebbe un affronto agli dèi non approfittare di lui, non credete?”
I volti dei pirati divennero maschere crudeli. “Fate di lui quello che volete.”
Ecco allora che il ragazzo si sentì afferrare per il braccio. Venne bruscamente messo in piedi. Un uomo barbuto e muscoloso si attaccò a lui, trattenendolo con un braccio, e cominciò a toccarlo con una mano. Un altro pirata si avvicinò, massaggiandosi in mezzo alle gambe, e si addossò anche lui al giovane, chiudendolo in una morsa di uomini gonfi di desiderio. Il giovane sembrava rilassato. Aveva gli occhi chiusi e sembrava che si stesse godendo tutte quelle attenzioni. Gli altri pirati si stringevano a cerchio attorno a loro. Sempre più mani estranee si infilavano sotto il peplo del giovane. Si udì uno strappo e la stoffa ricadde giù dal torso, afflosciandosi lungo le gambe. L’espressione incurante del giovane in preda agli aguzzini sembrò renderli ancora più affamati. Uno di essi spintonò gli altri e accarezzò con forza il torace del ragazzo, per poi strizzargli un capezzolo; quest’uomo fu a sua volta buttato giù da un altro, che, dopo aver fissato dalla testa ai piedi il giovane, lo spinse contro l’albero maestro e cominciò a strusciarsi su di lui, con violenza, emettendo gemiti di piacere.
I riccioli biondi ondeggiavano nel vento e a causa degli strattoni. Il pirata vi passò una mano, mentre intorno ai lui sorgevano proteste per il troppo tempo che stava impiegando per se stesso. A un tratto, un urlo secco e arrabbiato lacerò l’atmosfera caotica della nave e penetrò della turgida frenesia dei pirati. “Basta! Avete perduto la ragione? È soltanto un ragazzino!”
L’uomo si fermò.
Per la prima volta da quando il giovane era salito a bordo della nave, l’attenzione di tutti si focalizzò su qualcosa che non era né il suo viso, né i suoi capelli, né il suo corpo.
Il timoniere era in piedi in un buco tra la folla, come se la sua rabbia lo avesse riparato sotto un’ampolla invisibile. Il capitano sgusciò nella calca per avvicinarsi a lui; comparve un varco, la folla cominciava a dissiparsi.
Timoniere e capitano furono uno di fronte all’altro. Il timoniere tremava leggermente, consapevole di aver contraddetto la volontà collettiva ma soprattutto quella del suo superiore. Il capitano lo studiò in silenzio per svariati istanti. Dopodiché disse: “Il timoniere ha ragione. Per ora riserviamoci il piacere di avere questo ragazzo. Che la paura di quello che ha evitato possa servirgli a sciogliergli la lingua.”
Il suo sguardo si spostò sul giovane biondo. Era rimasto appoggiato all’albero maestro. Le sue guance erano leggermente arrossate e i riccioli biondi scompigliati. Era più attraente che mai. Il capitano gli lanciò un’occhiata che era una sorta di monito, poi gli rivolse il suo sorriso maligno. “Legatelo.”
Un pirata alzò un pezzo di corda e lo fece passare tra i suoi compagni. Mentre il giovane veniva legato all’albero maestro, il capitano si voltò, guardò con un leggero disprezzo il timoniere e si allontanò.
Il timoniere teneva gli occhi fissi sul giovane, incantato. Vederlo mentre lo legavano all’albero maestro provocava in lui tristezza ma al tempo stesso una lussuria rampante. Il giovane girò il capo e incrociò il suo sguardo. Questa volta, sul suo viso non albergava il divertimento, né un’espressione impassibile: era più curiosità, benevolo stupore. Un sorriso gli increspava le labbra. Non sembrava che lo stesse ringraziando: era più come se volesse dirgli che aveva preso la scelta più saggia ad opporsi a tutti gli altri. Il timoniere deglutì, poi tornò a prua e la nave salpò.
 
 
Il giovane non poteva fare a meno di pensare a come fosse imprevedibile il destino. Solo quella mattina era in preda alla noia, mentre adesso era stato rapito da alcuni pirati che lo credevano il figlio di un re.
Il cielo del tardo pomeriggio era velato di nuvole. Squarci di un blu elettrico si aprivano nella volta come grandi ferite, dalle quali sgorgava una luce intensa, liquida. In fondo, lungo l’orizzonte, correva una linea rosso sangue mentre il sole si accingeva a tuffarsi in mare.
La vita dei pirati sembrava aver ripreso il suo corso. Andavano avanti e indietro sulla nave, sopra e sotto, trasportavano oggetti e ridevano tra loro; oppure rimanevano in un punto raccolti in gruppetti, sempre a ridere. Il giovane non sapeva niente della vita da pirati, per cui non avrebbe saputo descrivere con esattezza che cosa stavano facendo. In realtà non gli interessava. Il suo sguardo era puntato in direzione della prua, dove il bel timoniere direzionava l’intera nave. Mentre era legato, aveva passato ore a fissarlo. Gli piaceva osservare i suoi muscoli guizzare e contrarsi mentre manteneva dritto il timone. Il vento gli scompigliava i capelli ricci e castani, glieli faceva svolazzare, scoprendogli il viso, che il giovane purtroppo non poteva vedere bene.
Di sicuro c’era qualcosa di speciale in lui. Il fatto che fosse risultato immune alla sua influenza, davanti alla quale l’autocontrollo di tutti gli altri pirati era capitolato, significava che non era un essere umano comune. Il giovane biondo legato all’albero maestro si domandò se per caso nelle vene del timoniere scorresse sangue divino. Ma era improbabile, anzi, quasi impossibile: se così fosse stato, l’avrebbe percepito subito a miglia di distanza. E adesso, che erano a poche decine di metri, non vedeva altro che un essere umano normale.
Lo osservò attentamente, registrando ogni singolo movimento che compiva. Di tanto in tanto il timoniere si voltava leggermente, dedicando al giovane legato uno sguardo frettoloso. Ma non era come se provasse paura, o imbarazzo (il che, ancora di più, faceva pensare che nella sua natura risiedesse qualcosa di straordinario): era più che altro una forma di rispetto, distaccata e formale. Sembrava che fosse lui a non voler far sentire il giovane dai riccioli biondi in imbarazzo per la situazione in cui si trovava.
La nave solcava i mari, seguendo la linea della costa ma mantenendosi piuttosto distante da essa. Il giovane pensò a come fosse strano e peculiare che il suo destino si fosse incrociato con quello dei pirati appena poco tempo prima. In realtà, non credeva nel destino: sarebbe stato come porre un limite al proprio potere e a quello dei suoi simili; come ammettere che esisteva una forza più potente persino di loro. Ma non poteva fare a meno di pensare che trovarsi in quella situazione – legato contro l’albero maestro di una nave di pirati tanto sventurati da averlo rapito – non poteva che essere l’esito di una convergenza di eventi tutti particolari.
Senza che se ne fosse reso conto, la nave si era avvicinata alla terraferma. La riva appariva ancora come una striscia lontana, dorata, contrapposta a quella fiammante del tramonto dal lato opposto.
Qualcuno – forse il capitano: aveva la visuale limitata per poterne essere certo – aveva gridato di gettare l’ancora. La nave sperimentò un breve momento di squilibrio; poi diventò più stabile che mai, cullata sempre nello stesso punto dall’eterno movimento delle onde.
Il timoniere si era allontanato dalla sua postazione e si stava dirigendo verso di lui. Il giovane alzò lo sguardo, incuriosito. Quando furono a pochi metri di distanza, si osservarono a vicenda l’uno con l’altro. Il timoniere era fermo, simile a una statua; la sua immagine emanava sicurezza. Il giovane, pur essendo intrappolato nella costrizione delle corde, era circondato da un’aura di innocenza, micidiale e ingannevole. Ai suoi piedi si era creata una piccola pozza, a causa delle gocce che continuavano a cadere dai bordi del suo peplo bianco.
“Il mio nome è Spiros” si presentò il primo. “Come avrai notato, sono il timoniere della nave.”
Il giovane biondo gli lanciò un’occhiata divertita, ma le sue labbra rimasero serrate. I grandi occhi indugiavano sulle braccia del timoniere e sul suo collo marmoreo.
“Qual è invece il tuo nome, fanciullo?” Lo incalzò Spiros, avvicinandosi un poco di più. Il suo tono era carezzevole, ma non in modo lascivo. Nella sua voce non c’era traccia di malizia; al contrario, suonò dura come il granito, perentoria, tanto che quella domanda parve più un ordine.
Dimmi il tuo nome. Questo fu ciò che il ragazzino biondo udì attraverso il suono di quelle parole. Ma non avrebbe ceduto così presto. “Non ti rivelerò il mio nome, giovane timoniere. O almeno, non ancora. Arriverà presto, io credo, il momento in cui non vi sarà pirata su questa nave che non sappia più chi sono, e che non ricorderà di avermi incontrato per ogni giorno della sua vita.”
Spiros ebbe un sussulto; i capelli castani e ricci tremolarono appena. Il giovane biondo ridacchiò, strusciando le costole contro le corde. Se prima aveva creduto di non avere alcun ascendente sul timoniere, si era sbagliato: la sua voce e la sua presenza potevano non aver fatto impazzire Spiros come avevano fatto con gli altri pirati, ma ne avevano comunque infiammato la passione. Questo, almeno, poteva percepirlo. Quel ragazzo aitante dalla facciata imperscrutabile, in realtà, stava ardendo internamente: aveva solo un’incredibile capacità a far trapelare ben poco del suo tumulto interiore.
“Ragazzo, devi dirmi il tuo nome” disse con dolcezza. Il suo sguardo era venato da un luccichio compassionevole. Poteva essere preoccupato? “Se non informi immediatamente il capitano sulla tua identità, è possibile che non farai in tempo a salvarti da un secondo abuso. E questa volta non potrò fare niente per evitarlo…”
La sua bocca tornò immobile, la linea tra le labbra appena visibile per come le teneva strette.
“Spiros” quando il giovane pronunciò quel nome, il timoniere allentò un po’ la mascella e i suoi occhi si riempirono di meraviglia, come se il solo sentirsi chiamare provocasse in lui un alteramento dei sensi. “Non temere per me, né per te. Piuttosto, se ci tieni ai tuoi compagni, avvertili di liberarmi immediatamente, e potrei essere clemente con loro.” Il giovane biondo era consapevole della falsità di queste parole; per nulla al mondo avrebbe rinunciato a divertirsi coi membri dell’equipaggio. “Io sono la loro rovina” ripeté, seguito da un silenzio increspato dal rumore del mare e dei pirati.
 
Il timoniere rimase in piedi, fissando l’ostaggio. Il peplo strappato gli scopriva il petto per intero, e ricadeva attorno ai suoi piedi come una tenda lacera. Il contrasto tra la bellezza radiosa di quel fanciullo e la trasandatezza che lo circondava, adesso, era uno spettacolo: Spiros lo trovava inconcepibile, quasi aberrante, eppure non sarebbe stato in grado di farne a meno. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso; osservava senza tregua i capelli dorati, il viso simile a quello di un dio, il petto asciutto, abbronzato, e i tratti dell’addome che si indovinavano ma che erano nascosti da quanto rimaneva del peplo. Questo fanciullo era una meraviglia, un dono inviato direttamente dagli dèi: sapeva che i giovani di bellezza stupefacente erano spesso rapiti dalle divinità, e che dopo aver visitato il loro mondo, se tornavano sulla terra, non erano più gli stessi: qualcosa brillava in loro, come se il tocco divino li avesse dotati di una luminosità che li faceva spiccare in mezzo a tutti gli altri mortali. Così dicevano le leggende.
Spiros, finora, non aveva mai saputo se crederci. Ma adesso non aveva più dubbi: l’anonimo fanciullo dai capelli color miele non era un essere umano qualsiasi; semplicemente, non poteva esserlo, in nome della stessa razionalità che gli aveva impedito di prestare orecchio a quelle leggende.
Se il ragazzo era stato baciato dagli dèi, era senza dubbio più prezioso di qualsiasi aristocratico gli altri pirati credevano di aver catturato. E infinitamente più pericoloso. Rapire chi era nelle grazie di un dio era quanto di più stolto si potesse fare, rimuginò Spiros. Era questione di tempo prima che la vendetta di chissà quale essere soprannaturale si abbattesse su di loro. Doveva fare qualcosa.
 
Il fanciullo biondo parve seguire in silenzio i ragionamenti e le decisioni che si stavano formando nella mente del timoniere. Per questo non sussultò, neppure diede cenno di sorpresa, o di gratitudine alcuna, quando Spiros tornò a rivolgersi a lui dicendo: “Ti farò scappare.”
Il ragazzo alzò un sopracciglio biondo. “Intendi davvero contrastare la volontà di tutti i tuoi compagni, persino quella del capitano, per salvare uno sconosciuto che potrebbe fruttare oro a non finire a tutti voi?”
Spiros si arrestò un istante: gli sembrava quasi di essere stato messo alla prova. “Io ti credo” disse, “quando affermi che sarai la nostra rovina: e anche se tu non vuoi dirmi il tuo nome, io so chi sei.”
Questa volta, persino il fanciullo lasciò trapelare una punta di sorpresa, venata di un’ansia superficiale.
“Davvero?” chiese, con una voce che ricordava il tintinnio di tanti cristalli.
“So che se non ti liberiamo subito, qualche dio si vendicherà sull’intera ciurma.”
Il fanciullo ridacchiò tra sé e sé, senza farsi notare. “Ebbene, Spiros, come intendi fare? Gli altri ti vedranno.”
“Non avevo la pretesa di passare inosservato” replicò il timoniere, accennando un po’ di sarcasmo. “Ma non mi faranno del male, anche se ti libero. Siamo stati amici per troppo tempo. E proprio per questo non posso lasciare  che la loro stupidità li accechi inducendoli a perpetrare in questa follia. Io ti libero. Non siamo lontani dalla spiaggia. Ora dimmi: sai nuotare, non è così?”
Il fanciullo annuì.
“Bene, allora ascoltami. Adesso taglierò queste corde; non appena le sentirai cadere dovrai correre il più velocemente possibile verso il bordo della nave. Io ti starò accanto, e ti proteggerò. Non dovrai avere alcuna esitazione: non appena avrai raggiunto il bordo, dovrai salire, e tuffarti. Non ci sono garanzie che gli altri non ti vengano dietro, anzi… Io proverò a fermarli come posso, cercando di farli ragionare. Chissà, magari, lontani dalla tua influenza, penseranno in maniera più lucida.”
Spiros allungò la mano verso la spalla del fanciullo e lo accarezzò; il tocco provocò una scarica elettrica biunivoca che li fece rabbrividire entrambi.
“Spiros…” disse il giovane in un sussurro, “sarai ricompensato per tutto questo.”
Il timoniere frugò nello sguardo azzurro del fanciullo, e sperimentò un’ondata di sollievo quando capì che ognuna di quelle parole aveva valore. In vita sua mai aveva preso decisione di più saggia di adesso.
 
Il timoniere estrasse un coltello. La lama era corta ma brillava di quella luminescenza tipica delle cose affilate. “Pronto?” chiese. Non aspettò risposta: con un solo gesto, recise le corde che tenevano il fanciullo avvinto all’albero maestro. I legacci caddero, afflosciandosi ai suoi piedi. Il fanciullo si rialzò, non tradendo neanche un briciolo di intorpidimento o stanchezza.
Un pirata che passava accanto all’albero maestro si voltò nella loro direzione e sgranò gli occhi. “IL PRIGIONIERO! STA SCAPPANDO!”
“Presto!” incalzò Spiros, prendendo il fanciullo per mano e trascinandolo via con sé. Il contatto con quella pelle ambrata bruciava il timoniere, ma gli infondeva un’energia incoercibile, come se ogni centimetro del suo corpo stesse ardendo di potere.
Tutti i pirati si erano voltati verso di loro; uno gli si parò davanti, e fu investito nella corsa da un gomito di Spiros; il timoniere lo centrò tra il collo e la spalla, facendolo crollare a terra. Un altro si lanciò addosso a loro: era un uomo nerboruto, lo stesso che prima che prima si era strusciato addosso al fanciullo. Le sue mani si chiusero attorno alla stoffa del peplo e cominciarono a tirare. Per un momento Spiros avvertì la presa del fanciullo allentarsi, le loro mani che si separavano; ma poi, con una prontezza della quale non credeva di essere capace, menò un colpo col manico del coltello contro le nocche dell’aggressore. Il pirata imprecò con una voce tonante, intrisa di dolore. Ma aveva lasciato andare il fanciullo, la cui mano era tornata a congiungersi con quella del timoniere.
Non appena il contatto fu ripristinato, Spiros avvertì, anche se in maniera meno intesa rispetto a prima, una nuova scarica di energia attraverso il suo corpo.
I due ripresero a correre; le loro gambe parevano volare sul legno del ponte. Erano quasi arrivati a toccare il bordo quando il capitano si materializzò davanti a loro. Il vento gli scompigliava i lunghi capelli scuri e una spada gli luccicava in mano. La teneva dritta davanti a sé.
Il fanciullo spalancò gli occhi: realizzò quello che sarebbe accaduto un attimo prima che avvenisse, e non poté fare nulla per evitarlo.
La velocità della corsa era troppo elevata; i piedi di Spiros balzavano, si susseguivano come caprioli in fuga, quasi senza toccare il suolo. Il corpo del timoniere era bloccato a mezz’aria, nel momento esatto in cui i suoi piedi stavano per tornare di nuovo a terra, quando la punta della spada del capitano incontrò la sua carne: e la trapassò. Mentre il tempo riprendeva a scorrere, un fiotto di sangue sgorgò schizzando a terra.
La corsa si arrestò.
Il capitano ritrasse la spada con un gesto secco; uno zampillo rosso volò fuori dall’addome di Spiros, che stramazzò a terra. Dalla sua bocca colava una spessa striscia scarlatta che stava formando una pozza sul legno.
Il fanciullo rimase in piedi accanto al suo corpo, lo sguardo basso. I pirati mormoravano tutt’attorno a lui. Il capitano era l’unico che non proferiva parola. I suoi occhi fissavano il corpo del timoniere, e non osavano spostarsi. Il fanciullo incrociò lo sguardo dell’assassino e vi trovò la fredda determinazione di chi sa di aver commesso un sacrificio necessario: come una animale che, per avere salva la vita, lascia che i denti della trappola gli strappino una gamba e fugge. Solo che il capitano non aveva sacrificato una sua gamba.
“Quando avete messo piede su questa nave” si levò all’improvviso la sua voce, e tutti gli altri tacquero, “siete stati avvertiti che il tradimento viene punito con la morte. Il tradimento include calpestare gli ordini del capitano. Spiros era un valoroso timoniere, ma è stato stregato dalla bellezza del nostro ostaggio e, sicuramente, ha pensato di portarlo via, per ottenere un riscatto tutto per sé. Gli dèi hanno decretato la sua fine.”
Il mormorio riprese, per poi spegnersi nuovamente quando il capitano ricominciò a parlare. “Adesso, riportiamo l’ordine su questa nave” gridò, perentorio. “Per prima cosa, legate nuovamente il fanciullo: questa volta legatagli insieme i polsi; portatelo nella mia stanza, dove lo guarderò personalmente. Poi liberatevi del corpo del traditore.”
I pirati più vicini al fanciullo si scambiarono sguardi apprensivi. Dopo aver esitato un attimo, cominciarono a farsi più vicini a lui; uno dei pirati si fece passare un pezzo di corda, e ne tirò i capi con aria minacciosa.
La risata del fanciullo risuonò sopra al vento.
Tutti si arrestarono per un attimo nella posizione in cui erano. “Trovi che la situazione sia divertente?” sputò il capitano.
“In realtà, sì” asserì l’altro, e questa volta il fatto che la sua voce si propagasse come se fosse stato al centro di un anfiteatro non fu solo un’impressione: eruppe dalla bocca del fanciullo e rimbalzò ovunque sulla nave, frammentandosi in migliaia di eco diverse che costrinsero molti pirati a coprirsi le orecchie. Si protese fino al cielo, come aprendo nell’aria un varco che si allungava verso le nuvole. “Se le circostanze fossero state diverse, sarebbe stato di certo drammatico. Ma si dà il caso che io possa rendere tutto questo estremamente divertente!”
Il fanciullo si incamminò verso il capitano, scrutando direttamente nei suoi occhi. Mentre si avvicinava, i lembi del peplo che gli penzolavano attorno alle gambe si animarono: si sollevarono verso l’alto, come i petali di un fiore che si richiude, e si ricongiunsero nel loro disegno originale. Eccolo lì, la stoffa perfettamente intatta, come se non fosse mai stato danneggiato.
Alcuni pirati indietreggiarono; un mormorio spaventato corse attraverso l’equipaggio, mentre l’agitazione di faceva più palpabile. Il capitano non si mosse, ma un rivolo di sudore gli scorreva lungo una tempia.
“Se c’è una cosa che odio di voi esseri umani, è che non capite quando potete fare qualcosa e quando non la potete fare. Ci sono esseri umani così brillanti che neanche si avvedono di esserlo, per timidezza, per pudore. E poi ci sono umani che sono complete nullità, e che non fanno che peccare di ybris.” Il fanciullo si fermò. Il suo volto era animato da ombre inquietanti, dalla crudeltà del bambino che pregusta di torturare le formiche. Si voltò, e si chinò accanto al corpo di Spiros. Con una mano abbronzata, il fanciullo accarezzò i capelli del timoniere e le labbra gli si strinsero in una linea. I pirati che lo videro indietreggiarono ancor più terrorizzati.
Il fanciullo passò una mano lungo il corso di Spiros, accarezzandolo. Di colpo, una luce vermiglia si accese dentro il corpo del timoniere, visibile nonostante l’ostacolo della carne. La luce bruciava con calma, quasi con pigrizia, e gettava sul volto del fanciullo una tinta rossastra. In quel momento, pareva una creatura infernale, e quell’apparenza gli donava, come se fosse più conforme alla sua vera natura. La luce rossa ebbe un guizzo, si riassorbì in se stessa, finché le sue dimensioni furono ridotte a quelle di un granello di sabbia. Poi si estinse.
Il sangue era sparito dal ponte della nave. Ormai i volti dei pirati erano piegati in smorfie impaurite e persino il capitano si era appoggiato contro il bordo della nave, stravolto. Il sudore gli aveva incollato in fronte un ciuffo di capelli e i suoi occhi strabuzzavano, come se non credesse a ciò che aveva appena visto.
Il fanciullo si rialzò. Un lamento docile lo raggiunse: proveniva da Spiros. Il timoniere era guarito completamente – persino i suoi abiti erano tornati intonsi – e ora dormiva.
“Il capitano” cominciò il fanciullo, “l’uomo che un attimo prima si mostrava così sicurò di sé, adesso si prostra come uno scarafaggio impaurito al mio cospetto. Guardate, tutti voi: guardate il volto del capitano, e poi guardate i vostri volti: sono questi i volti di chi provoca l’ira degli dèi con la tracotanza!” Mentre parlava, un vapore rossastro si manifestava attorno a lui, avvolgendolo in cortine diafane che salivano verso l’alto, configurandosi in volute. I ricci biondi del fanciullo si gonfiarono allargandosi, e il suo cranio appariva molto più grande, inficiando la perfezione delle proporzioni dei suoi tratti. Il peplo prese a ondeggiare, come mosso da un forte vento. Ma sul resto della nave, l’aria rimaneva immobile.
Il capitano deglutì, mentre sul suo viso prendeva forma la disperazione. Sapeva di aver commesso un grave errore. Lanciò uno sguardo supplichevole al fanciullo. “Ti prego, io non volevo… non sapevo…” Si gettò in avanti, si graffiò i palmi delle mani col legno della nave. Il suo sguardo puntava in basso, mentre lacrime miste a sudore gli colavano giù dal naso. “Perdonaci, ti prego…”
“Ti accontenterò” disse secco il fanciullo; la nebbia rossastra di agitò intorno a lui, avvolgendosi su se stessa.
Il capitano alzò il viso, una parvenza di speranza attraversava la disperazione del suo volto come una crepa.
“Ti dirò chi sono.” Il fanciullo ridacchiò, godendosi l’effetto delle sue parole crudeli mentre il capitano riprendeva a supplicarlo. “Hai davanti a te il dio Dioniso. E avevi indovinato: sono figlio di un re. La nostra è, in effetti, una famiglia aristocratica: forse la famiglia più regale che esista. Ma hai scelto di provocarmi al momento sbagliato.”
Il capitano strisciò verso di lui, protendendo un braccio; i fumi rossastri turbinarono e lo investirono, assumendo brevemente la forma di mani. L’uomo rotolò sul pavimento e urtò il bordo della nave, contro il quale rimase di nuovo accasciato.
La nebbia rossa si ritrasse e riprese a vorticare intorno al dio. “C’è un insegnamento che vorrei darti, prima di punirti” disse Dioniso, piegandosi leggermente in avanti, quasi volesse confessare un segreto. “Tre sono le forze che muovono ogni vicenda umana: l’amore, l’odio, e la noia. Per ognuna di queste cose, gli uomini sono capaci di compiere i gesti più impensabili. Immagina cosa potrebbe fare un dio.” Dioniso si raddrizzò e i fumi rossi si agitarono vorticosamente, come una tenda trasparente mossa dal vento. Il suo peplo si gonfiò più che mai.
Un aroma di vino, verace, sopraffacente, si diffuse sulla nave. Sembrava spirare dal legno stesso di cui era composta, come un’esalazione naturale. Il fenomeno confuse i marinai che si guardavano attorno, in cerca della fonte dell’odore; alcuni si erano piegati verso il basso, per constatare se l’effluvio provenisse dalle tegole del pavimento.
Dioniso inspirò profondamente, inebriandosi del profumo. I suoi occhi erano grandi e luccicavano nello sfondo del cielo serotino. I vapori rossastri danzavano attorno alle sue braccia e si ramificavano per tutta la nave; i marinai che lo respiravano cominciavano a tossire forte. Il capitano osservava lo spettacolo senza proferire parola o muoversi, le guance rigate dalle lacrime.
Dioniso gli scoccò un’occhiata raggelante e allargò le braccia. Come se quel gesto avesse innescato una reazione soprannaturale, il legno di tutta la nave cominciò a cigolare. Le fibre si gonfiavano e esplodevano come grosse pustole lignee, dal cui scoppio scaturivano germogli. L’intero mezzo stava traballando, e i pirati urlavano in preda allo stupore.
Una luce scarlatta si accese attorno alla base dell’albero maestro e con un rumore simile a ossa che si spezzano, dal pavimento emersero tralci di vite che si arrampicarono fino alla vela. L’aroma di vino era diventato insopportabile; i pirati fissavano sbalorditi i rami che si avviluppavano intorno all’albero maestro, salendo fino alla postazione della vedetta. Dopo averlo avvolto per intero, i tralci colonizzarono le vele ammainate, distendendosi attraverso tutta la loro lunghezza. Le spire di legno abbracciarono la stoffa, la stritolarono, costringendo le vele a una rigidità cui non erano abituate: da entrambi i lati, le avevano intrappolate plasmandole nella forma di una falce, alla cui estremità si arricciava un ramo carico di grappoli d’uva.
In basso, lo spazio tra le tegole del pavimento si illuminò di rosso, e se ne riversarono fuori viticci sottili, simili a fruste. Presero a saettare in ogni direzione nella nave, avvolgendosi attorno alle caviglie dei pirati e trascinandoli verso l’alto a testa in giù.
I marinai avevano cominciato a scappare. Urlavano. I viticci sfrecciavano per catturarli; per qualche minuto il ponte ospitò una tempesta di rami e foglie. Alcuni pirati si gettavano fuori dalla nave, ma le piante li raggiungevano, si stringevano sopra i loro piedi e li riportavano a bordo, lasciandoli appesi. Urla di terrore risuonavano nella notte.
Un ramo sorse proprio davanti al capitano, e con un guizzo elastico prese anche lui, scavando nella sua caviglia fino a spremerne fuori il sangue.
Tutti gli uomini sulla nave vennero catturati, accetto Spiros, che dormiva ancora beato, indifferente a ciò che accadeva.
Dioniso osservava il risultato soddisfatto, la nebbia purpurea che si spiralizzava attorno a lui. Gli sembrava di essere in mezzo a un campo di viti, i cui tralci recavano uomini al posto di grappoli d’uva.
“Ti prego, lasciaci andare” supplicò il capitano, la disperazione nella voce. Rovesciato com’era, i capelli dondolavano in una tendina nera. I suoi occhi erano gonfi di lacrime, lacerati dalle vene che pulsavano nella cornea. “Farò qualunq-”
Dioniso fece un gesto della mano, e la nebbia si chiuse sul capitano, riempiendogli la bocca e le narici. Il suo intero corpo brillò di una luce rossa, aprendo uno squarcio sanguigno nel buio. Quando l’oscurità della prima sera tornò a regnare, al suo posto si agitava un delfino, stretto dai viticci appena sopra la coda. I suoi versi echeggiarono per un attimo prima di essere sopraffatti dalle urla di terrore di tutti gli altri marinai. Dioniso rise. “Farò qualunque cosa” scimmiottò, avvicinandosi al muso del delfino che si dimenava a testa in giù. “Forse mi sbagliavo, dopotutto. Non sono solo l’amore, l’odio e la noia che fanno fare agli uomini qualunque cosa. Forse, anche la paura.”
Dopodiché la nebbia prese a vorticare veloce intorno alla figura del piccolo dio, configurandosi come una galassia turbolenta; avvolse l’intera nave, e la notte fu squarciata dal bagliore sanguigno di decine di uomini che venivano tramutati tutti in una volta.
Adesso, ogni tralcio teneva per la coda un delfino diverso; si agitavano tutti sbattendo le pinne ed emanando i loro versi. Vi era una baraonda infernale; se Spiros non fosse stato in un sonno incantato, non ci sarebbe stato modo che non si svegliasse per tutto quel rumore.
Dioniso fece un giro su se stesso, allargando le braccia e ridendo di cuore. “Sono molto soddisfatto di me stesso” ghignò, sovrastando i versi di tutti i delfini con una voce amplificata dai propri poteri. “Adesso, andate, siete liberi” disse, con un tono intriso di crudele sarcasmo.
I tralci si allungarono oltre il bordo della nave e lasciarono andare i delfini. Tonfi umidi annunciarono l’istante in cui caddero in acqua. Poi la vegetazione si ritirò, riassorbendosi nel legno; la nave ne fu completamente libera, eccetto per quei tralci che avvolgevano l’albero maestro. Dioniso li squadrò, trovando che lo avrebbero abbellito molto. Con un gesto della mano fece sparire soltanto i rami che avviluppavano le vele: una volta libere, ricaddero in basso, dispiegandosi. Quando si sarebbe svegliato, Spiros avrebbe potuto riprendere il controllo del mezzo e decidere dove dirigersi.
Il dio lo osservò attentamente, notando la bellezza dei suoi lineamenti e la lucentezza dei capelli. Si chinò su di lui, e gli posò un bacio sulla fronte. Era un bravo timoniere, e il bacio di un dio era più che sufficiente a tenerlo al sicuro per il resto della vita.
Quasi quasi gli dispiaceva abbandonarlo in quel modo, ma era meglio così: malgrado quanto credessero i mortali, gli dèi preferivano rimanere nella loro intimità, senza intrusioni terrene. Ma era anche innegabile che fossero stregati dagli umani. Dioniso si rialzò. Quest’umano era speciale, e lui lo avrebbe ricordato per l’eternità. Era certo che si sarebbero rincontrati, prima o poi. In fin dei conti, se c’era una cosa che aveva imparato quel giorno, era l’imprevedibilità degli eventi. Quella mattina, avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero andate evolvendosi così? Adesso che ci pensava, vi era, in effetti, qualcosa di superiore persino agli dèi: ma non era né il destino, né il caso. Dioniso ripensò alle parole che aveva rivolto al capitano, e rifletté su cosa queste implicassero. La consequenzialità degli eventi, il labirintico sentiero tracciato dalle azioni una volta messe in moto. Una risatina infantile lasciò le sue labbra.
I versi dei delfini risuonarono sul mare mentre l’oscurità si addensava, cancellando il colore da ogni cosa. Poi tutto tacque, per quella notte.
   
 
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