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Autore: Melitot Proud Eye    21/08/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VI
Grandi speranze




“La forza di volontà attraversa anche le rocce.”

Proverbio giapponese.




La mattina dopo, quando finalmente decise che usare Shinta come scusa per poltrire stava andando ogni sentimento di buona creanza, spalancato lo shoji del figlio maggiore, Kaoru trovò solo il più piccolo avvoltolato in un bozzolo di coperte.
Lì per lì rimase interdetta: non aveva visto Kenji in giro.
Ma non vi diede troppo peso, perché il giorno prima era stato strano e forse desiderava starsene fuori dalle scatole. Faceva bene, si ricordò, perché appena l’avesse beccato l’avrebbe costretto a scusarsi con Inoi. La bambina era sempre più sola, emarginata tra gli amici.
All’ora di pranzo la faccia tosta era ancora assente. Indirizzò una scrollata di spalle perplessa a Kenshin, che sembrava giù di morale (come al solito nelle ultime due settimane), e disse che l’aveva sentito sgattaiolare in cucina quella notte.
Probabilmente aveva rubato gli onigiri avanzati dalla cena.
E infatti le polpettine erano sparite.
«Adesso metto via tutto e chiudo a chiave. Vedrai che stasera si fa vedere. Magari è sotto il pavimento che ci ascolta» brontolò, e per buona misura pestò ripetutamente un piede sul pavimento, sapendo per esperienza di causare una piacevole pioggia di polvere e ragni.
Ma la giornata ― pur lentamente ― trascorse senza Kenji e, nel tardo pomeriggio, i due genitori cominciarono a preoccuparsi. Quella storia prima o poi avrebbe dovuto finire. Quanto voleva aspettare Kenji, per crescere?
Kaoru lo chiamò, col pieno intendimento di fargli l’ennesima (possibilmente ultima) ramanzina e metterlo a tavola insieme agli altri pargoli.
Nessuna risposta.
«Kenji, guarda che ti stai mettendo nei guai! Sul serio!»
Ancora niente. Sotto gli occhi un po’ intimoriti di Kenshin, marciò fino alla sua stanza ed entrò. Non s’era più intrufolata dalla mattina, sicura che il figlio fosse accampato lì e non gradisse disturbi. Ora scoprì che proprio di accampamento si trattava. Guardando con occhi consapevoli, si rese conto che l’ambiente era un vero e proprio macello, col futon nella stessa condizione in cui l’aveva lasciato lei per portare Shinta a lavarsi, le stampe appese storte alle pareti e roba rovesciata un po’ dappertutto. Come se qualcuno avesse camminato al buio per farsi strada…
«Il farabutto» commentò. «Ma me la paga.»
Sebbene sentisse di averne colpa in prima persona (dopotutto, Kenji non s’era certo relegato in casa da solo), represse il sentimento e marciò fuori.
«Kenji, t’ho detto di venire fuori!»
Ma ancora niente Kenji.
E il risultato fu il medesimo quand’ebbero setacciato la casa. Kenji non c’era.
Kaoru e Kenshin si guardarono.
«E’ uscito, allora» disse lui. «E non me ne sono neanche accorto.»
Lei si morse un labbro. In un angolo della cucina notò Shinta, un po’ spaesato.
«Shinta-chan» si accucciò e tese le braccia nella sua direzione; lui rispose accorrendo, felice. «Dimmi, hai dormito bene questa notte con Kenji-chan?» E lanciò un’occhiata al marito.
Il figlioletto annuì. «Kenji mi ha lasciato dormire vicino. Inoi-chan invece non vuole.»
Come se si fosse sentita chiamata in causa, la bambina fece la sua entrata trionfale in quell’istante. «Che succede?»
Suo padre le carezzò la testa, tirandosela contro un fianco.
«Shinta-chan, Kenji ti ha detto dove andava?»
Shinta batté le palpebre. «No.»
«Accidenti.»
«Però mi ha detto di non uscire da solo.»
Quello attirò la loro attenzione.
«Sei uscito da solo?»
Kaoru parve ricordarsi di una cosa. «Ah, ieri, mentre c’erano Megumi e Ota, il portone è rimasto aperto e Shinta è uscito, ma gli ho subito mandato dietro Kenji.»
Il volto dell’uomo si rabbuiò.
«E’ successo qualcosa, mentre eri fuori?» chiese rivolto al figlio.
Un altro diniego.
Ma non era un mistero che il piccolo potesse distrarsi praticamente davanti a tutto… e se Kenji avesse visto qualcosa? Se Shinta fosse stato in pericolo?
All’improvviso ebbe il flash di un tizio sospetto venire dalla direzione della casa, proprio verso l’ora di pranzo, mentre lui tornava con un carico di farine e miso.
«Dove vai, Kenshin?»
«Fuori a cercarlo.»
«Aspetta, vengo con te.»
«No. Kaoru, chiuditi in casa e tieni d’occhio i bambini.»
«Uh?»
«Credo» abbassò la voce «che quello stupido abbia visto qualcuno avvicinarsi a Shinta con cattive intenzioni.» Lei sgranò gli occhi. «Pensaci: “non uscire da solo”; tu che lo mandi a prendere Shinta e lui che torna sconvolto.»
Che idiota! Che idiota! Perché non se n’era accorto prima? La normalità lo stava davvero rendendo cieco ai pericoli?
«E ora secondo te sta dando la caccia a quell’uomo?»
Strinse le labbra in una linea.
«Credo di sì.»
«Oh dei…»
«Te lo riporto sano e salvo, te lo prometto.»
Tuttavia, quando il canto degli uccelli annunciò l’alba, Kaoru ― addormentatasi contro lo shoji della cucina, una bokken contro la spalla, le teste di due bambini sulle gambe (in un campeggio improvvisato) ― vide che non era ancora tornato.
Si stropicciò gli occhi e uscì.
Lo incontrò sulla soglia, morto di stanchezza. Solo.

Kyoto, finalmente!
Kenji saltò giù dal treno e si stirò, sentendosi crampi in tutto il corpo.
Il viaggio era stato pazzesco, folle al punto di fargli considerare un paio di volte una fuga alla cowboy, come nei racconti dello zio Sano. Era già stato molte volte in città insieme ai suoi, di solito per far visita a zia Misao, a quel musone di zio Aoshi e a tutta la loro cricca di aspiranti ninja; però, da bravo studente medio, non s’era mai curato di informarsi sulle attuali distanze percorse.
Quattrocento e passa chilometri, aveva sentito dire a un occidentale impettito.
Dopo un paio di calcoli per convertire in misure più familiari, per poco non gli erano schizzati gli occhi fuori delle orbite.
Un conto era percorrere quegli spazi in allegra compagnia, scorrazzando per i vagoni insieme a Sozou e facendo disperare i vari adulti, un conto era farseli da solo, col timore di vedersi comparire facce note a ogni fermata.
Poi c’era stato quel controllore sospettoso…
Ma adesso era finita e, grazie agli dèi, poteva assaltare l’Aoiya.
Figurativamente parlando, s’intende.
Accorgendosi che il pomeriggio volgeva rapido alla sera, ben conscio dei pericoli che una metropoli come Kyoto poteva regalare al buio (ebbe un’immagine di suo padre poco più grande di lui, lì, un assassino della notte, e sfiatò dal naso), accelerò il passo.
L’albergo non era cambiato. Sempre tradizionale, con le belle lanterne gialle appese all’entrata e rumore di risa dalle sale.
Prese un forte respiro.
Non possono ancora sapere che sei scappato, si disse. Ma di certo sanno già che sei qui. Giocatela bene.
In treno aveva avuto tutto il tempo di perfezionare le prove: un collage di vecchie lettere di suo padre, giunte durante brevi assenze o minute di altre spedite da casa, tutte scritte su carta uguale. I pezzi erano pochi e strappati ad arte; chiunque avrebbe detto che la lettera fosse stata una, incidentalmente distrutta nel viaggio.
Niente missiva per avvertire del mio arrivo? E cosa sarà mai per il servizio di posta perderne una?
Era tutta questione di sangue freddo.
E determinazione.
Li avrebbe convinti, perché doveva trovare Hiko.
E seppe che ci sarebbe riuscito quando, individuato il previsto gruppo di Oniwabanshu in sua attesa, levò un braccio e salutò col suo sorriso più accattivante del mondo.

Cari Aoshi e Misao,
come state?
――――――――――――――――――――
Spero che dalle vostre parti le cose vadano bene e gli affari siano fiorenti come e più del passato.
Vi prego di scusarmi per non essere venuto in visita, qui al dojo Kamiya ogni giorno è impegnativo (oserei dire estenuante) e non mi è possibile spostarmi. Mi scuso anche per le poche, scarne righe che vi mando.
Per essere sinceri, avrei un favore da chiedervi.
――――――――――――――――――――
Si tratta di Kenji e della sua educazione alla spada. Come sapete, io sono l’ultimo allievo della scuola Hiten Mitsurugi, ma non ho mai avuto intenzione di prendere il posto del mio maestro come quattordicesimo successore, né di insegnare informalmente (di questo è stato più volte scontento Yahiko, ma ahimè tempo proprio di essere deciso).
Mio figlio prova curiosità per questo stile, com’è naturale.
――――――――――――――――――――
Ve lo chiedo come favore personale, fate in modo che
――――――――――――――――――――
possa incontrare il mio vecchio maestro e imparare qualunque cosa riguardi l’Hiten Mitsurugi.
――――――――――――――――――――
Abbiate cura di lui fino a quel momento. Non sarò lì finché tutto non sarà pronto.
Con affetto
――――――――――――――――――――
Kenshin Himura

Kenji era sparito.
Non era in casa, nessuno l’aveva visto in città, nessuno sapeva qualcosa.
I Sagara e i Myojin guardarono con un misto di orrore e preoccupazione i due genitori, scarmigliati dalla notte insonne ma decisi a continuare le ricerche senza un attimo di sosta.
«Potrebbe essergli successa qualsiasi cosa, è solo un bambino»  gemette Kaoru, tenendosi una mano sulla fronte.
Kenshin stava ritto accanto a lei, gli occhi cerchiati.
«Vi aiuteremo» disse Yahiko, facendo per incamminarsi. «Siete già stati al Vecchio Tempio?»
«Non ancora.»
«Ieri ci siamo resi conto tardi che mancava» aggiunse Kaoru, tormentandosi le mani. «Ultimamente se ne stava parecchio per conto suo…»
«Beh, allora ci vado io. Sano, tu puoi andare al porto?»
Sanosuke annuì, scambiando un’occhiata con Megumi. «E la volpe qui dice che spargerà la voce alla clinica, il viavai aiuterà a diffondere la notizia. Così, se il barattolo sta giocando a nascondino, forse capirà che un bel gioco dura poco.»
Accanto a lui, stordito per il mucchio di informazioni che gli venivano riversate addosso in qualità di pargolo più grande (gli altri erano tenuti in casa per non sollevare polvere inutile), Sozou deglutì.
Sparire senza una notizia?
Sebbene desiderasse essere cinico, quella non era una cosa da Kenji.
Ne avrebbe parlato a qualcuno, prima di levare le tende. A lui, almeno.
Ma forse aveva ritenuto che il loro giuramento di reciproca fedeltà sarebbe stato stracciato facilmente. E non aveva tutti i torti. In quel momento notò che tutti gli sguardi s’erano puntati su di lui.
«Sozou» disse zio Kenshin.
Era così preoccupato che il suo volto sembrava grigio.
«Non so niente» rispose, scuotendo la testa. «Non mi ha mai detto di volersene andare… se se n’è andato spontaneamente.»
Sua madre gli strinse forte la spalla.
«E’ la verità? E’ importante, Sozou.»
«E’ la verità.»
«Mamma! Papà!» Si voltarono tutti per vedere Inoi correre verso di loro, il pugno alzato. «Guardate! Era in camera di Kenji!»
Le diedero appena il tempo di raggiungerli e subito il foglietto, minuscolo, stropicciato e sporco passò di mano, finendo in quelle di Kaoru.
La donna lesse muovendo appena le labbra.
«Che cosa dice? E’ suo?!»
«“Torno presto”» fu la flebile risposta.
Kenshin prese il foglio e scorse a sua volta l’esiguo messaggio, impallidendo se possibile ancora di più.
«Ma è almeno la sua calligrafia?» chiese Sanosuke, guardando oltre la spalla dell’amico. Questi annuì.
«Dove l’hai trovato, Inoi-chan?»
«Era finito sotto il suo futon.»
Sul gruppo scese il silenzio.
«Beh» mormorò poi Megumi, maneggiando con insipienza il bordo del suo haori floreale. «Almeno sappiamo che non è stato rapito.»
Kenshin emise un verso ambiguo, tra la risatina e il gemito.
«Ha solo tredici anni. Quanto durerà in giro da solo, prima di esser rapito davvero?»
«Questo no, zio Kenshin» protestò Sozou. «Kenji sa badare a se stesso, l’hai visto anche―»
Sua madre lo zittì con un’occhiata.
«Lo so io dov’è andato» sbottò allora Yahiko, che doveva essersi trattenuto a stento fino ad allora. «Kaoru, dove sono le tue sacche da viaggio?»

Altrove, il mattino giunse roseo e tiepido, facendo capolino con gentilezza nella stanza dell’ospite più giovane. Questi si svegliò con un profondo respiro, gli eventi del giorno prima già in arrivo nel cervello appena desto.
Il viaggio. L’arrivo. L’accoglienza sorpresa ma calorosa e, soprattutto, l’assenza di zio Aoshi.
Di tutti, lui era la persona cui Kenji aveva guardato con più apprensione. Se c’era qualcuno che poteva smontare il suo piano prima ancora che partisse, quello era il capo degli Oniwabanshu. Ma il Grande Buddha mancava e questa era già una piccola vittoria.
Significava che la sorte gli arrideva.
Zia Misao, nell’ascoltarlo e vagliare la lettera rappezzata col piccolo Shiki in braccio, s’era convinta con ingenuo ottimismo e gli aveva dato il benvenuto nell’Aoiya, promettendogli di aiutarlo a trovare Seijuro XIII. Sarebbe stato molto semplice.
Al di là di uno scintillio divertito, che un po’ lo insospettì, gli occhi della donna non avevano tradito sospetto alcuno. Sempliciotta da giovane, sempliciotta da adulta.
Semmai, Kenji doveva stare attento col nonno Okina. Il vecchio era ancora acuto.
Buttò le coperte a lato e si alzò, già inebriato dal profumo che filtrava sotto le porte.
Doveva proprio essere ora di colazione.
Sciogliendosi accuratamente i muscoli, per poter scattare in caso di fuga d’emergenza (non aveva ancora del tutto escluso di esser sgamato), uscì. La locanda non era enorme, ma la gente non mancava. La nuova epoca apparteneva ai commercianti e ai viaggiatori, figure che spesso coincidevano, come diceva sempre suo padre. Rabbuiato dal ricordo di quella persona, bighellonò per il giardino finché le distrazioni non gli ridiedero una certa padronanza.
Cavoli, doveva darsi un tono.
I veri giochi erano ancora tutti da giocare, non poteva farsi prendere dalla collera. Quella l’avrebbe sfogata allenandosi con Hiko.
E a proposito di Hiko… voleva che glielo cercassero appena possibile. Subito.
Balzò sulla veranda che adornava l’intero perimetro interno dell’Aoiya ed entrò in uno dei passaggi riservati al personale, chiudendosi subito dietro lo shoji e sgattaiolando via per i corridoi.
La sua memoria era buona: non faticò a trovare le cucine, dove Omasu ― i capelli raccolti in un fazzoletto e un cucchiaio in mano ― lo nutrì generosamente.
«Sei mattiniero, Kenji-chan» commentò mentre lui masticava, appollaiato su un vecchio cassone per le stoviglie. Per fortuna la scodella nascose la sua smorfia al “chan”. «Ti aspettavamo per le otto o le nove… come quella pelandrona di Misao; ora che ha la scusa del piccolo Shiki non si alzerebbe mai!»
Kenji offrì un sorriso educato, maledicendosi internamente per non aver preso la colazione ed essersela battuta a mangiare altrove.
Trangugiò gli ultimi sorsi di soba e restituì tazza e cucchiaio.
«Grazie, zia Omasu.»
Lei arrossì tutta e il ragazzino si congratulò mentalmente con se stesso. Onestà ed educazione, i migliori amici degli imbucati. Beh, apparente onestà, d’accordo… ma non è che stesse progettando una rapina colossale alla banca; alla fine aveva solo piegato un po’ la verità.
Pochino pochino.
Evacuò la cucina e andò in cerca di qualcosa da fare, pregando che quel giorno zia Misao sentisse un’oncia di dovere nei confronti del povero ospite e si alzasse prima.
Ma scoprì presto che non ne avrebbe avuto bisogno. Giunto nei pressi dell’atrio, dove alcuni sconosciuti si vestivano e pagavano gli extra del soggiorno, colse il trambusto di un carro alla porta. Incuriosito dal baccano schioccante, rimase a vedere.
E, quando la porta si spalancò, riconobbe zia Okon con una sacca a tracolla e un bambinetto dai capelli nerissimi alle calcagna. Ricordò che ― era vero ― non l’aveva ancora vista da quand’era arrivato.
Levò la mano, vagamente intrigato dal bambino.
«Hey, zia O―»
Il saluto gli morì in gola.
Non era stato un carro a fare casino. Era un uomo, stracarico di quelli che sembravano orci di terracotta legati per i manici e issati in spalla.
«Maledizione, Okon! Dammi una mano, altrimenti le mie opere finiranno per scheggiarsi!»
«Subito amore» cinguettò lei.
«E non chiamarmi “amore” quando siamo qui» ringhiò lui, cercando di apparire minaccioso.
«Va bene, amore.»
«Urgg.»
A causa del suo movimento brusco, un vaso si sganciò e cadde in frantumi.
Mentre si aprivano le porte dell’inferno e tutto il personale storico della locanda accorreva per salutare, ridendo, il ritorno “dei poveri eremiti montani”, Kenji rimase a osservare la scena a bocca spalancata.
Dall’ultima (e unica) volta che l’aveva visto erano passati quasi sette anni, ma quel volto era rimasto impresso a fuoco nella sua mente. L’avrebbe riconosciuto fra mille. Avanzò di pochi passi, il cuore in tumulto per l’emozione.
Eccola, finalmente. La sua unica speranza di imparare. Il grande uomo che gli avrebbe trasmesso la tecnica che altri volevano uccidere.
Lo guardò con insistenza.
E infine Seijuro Hiko, tredicesimo maestro della scuola Hiten Mitsurugi, il volto e il corpo ancora irrealmente giovani come se immuni al tempo, incrociò il suo sguardo.

A Tokyo, Kenshin Himura prese una decisione.
«Io vado.»
«A Shinshu?»
«Sì. Parto adesso. Giusto il tempo di prendere il necessario per il viaggio.»
«Ma―» balbettò Kaoru.
«Mi raccomando, abbi cura di Inoi e Shinta. Tornerò in men che non si dica.»
«No, voglio venire anch’io!»
Lui scosse la testa. «E’ meglio di no. Il treno non arriva fino al paese e non possiamo far scalare di corsa le montagne ai piccoli. Da solo farò prima.»
Kaoru cercò, invano, di trovare una risposta.
Fu battuta sul tempo da Sano.
«Ma tu sai come arrivare a Shinshu?»
«Chiederò per strada» rispose Kenshin.
«Non m’interessa se ci sono montagne, sia Inoi sia Shinta sono in forma» puntualizzò Kaoru. Poi abbassò la voce. «Non ho alcuna intenzione di restare a casa da sola… dopo quello che è successo.»
«Perché, cos’è successo?» s’intromise Yahiko.
I due indicarono che l’avrebbero spiegato più avanti.
Prima che potessero riprendere a discutere, Megumi si schiarì la voce.
«Scusate, non sta certo a me dirlo, ma… siete sicuri che Kenji vorrà seguire il signor Ken? Negli ultimi tempi―»
«Sì, lo so, nelle ultime settimane non siamo andati proprio d’accordo ed è arrabbiato col sottoscritto» ammise Kenshin. «Però è mio figlio e, finché non sarà adulto, è in questa casa che dovrà stare. Voglio assicurarmi che―» s’interruppe, guardando altrove. «Lo convincerò. Devo solo ritrovarlo e assicurarmi che stia bene. Kaoru, per favore, preparami una sacca con del cibo, una coperta e un po’ di denaro, io corro in stazione.»
Lei stava per protestare ancora, ma davanti ai suoi occhi tormentati tacque.
Poi sparì in casa, le guance rigate di lacrime.
I Sagara e Yahiko, ancora in giardino, capirono che il loro ruolo doveva essere deciso oppure la loro presenza sarebbe diventata inopportuna.
Sanosuke fece schioccare le nocche.
«Non sia mai che io lasci solo un amico in difficoltà. Accetti una mano, Kenshin?»
Fu sollevato nel vedere il suo sorriso d’assenso. Non che un rifiuto gli avrebbe impedito di andare, ma tant’è.
Yahiko storse la bocca. «Io invece ho la palestra, muovermi è impossibile. Però terrò d’occhio il dojo e se Kaoru non si sente sicura potrà dormire da me e Tsubame.»
«Grazie, Yahiko.»
«Ah. E un’altra cosa.»
L’espressione di Kenshin si fece stupita quando, armeggiando alla cintura, il giovane uomo liberò la sakabato.
«Oro.»
«Portala con te. A scorno di quello che dice il governo, io continuo a pensare che non ci si possa muovere tranquilli senza.»
Kenshin alzò le mani.
«Yahiko, è tua, l’ho regalata a te. Non posso riprendermela ogni volta che mi garba. Ultimamente ha girato fin troppe mani.»
Imperterrita, la spada continuò ad essergli offerta.
«Primo, questa non è “ogni volta” , secondo, quello che mi hai dato tu era un concetto più che un’arma in sé e per sé, no?» Yahiko s’indicò la testa. «E quello resterà sempre in zucca. Fossi sicuro che non ti offendi, potrei arrivare a dirti che te la restituisco. Ora serve più a te.»
Kenshin scosse il capo, ma strinse il pugno intorno alla familiare, fredda guaina di ferro.
«Un regalo non torna indietro.» Poi s’inchinò leggermente. «Ma accetto il prestito, grazie.»
Mentre Yahiko brontolava qualcosa sulla sua “bistrattata gentilezza, che non si sarebbe più fatta vedere”, Kaoru tornò col necessario per la spedizione.
«E tu, Sano?» chiese Megumi, appoggiando il palmo della mano sul petto del marito.
«Non preoccuparti, volpe. Sono sicuro che la signorinella ha messo della roba in più in saccoccia, vero?»
Kaoru confermò, un po’ rassegnata.
Poi Kenshin la baciò, salutò Inoi e Shinta e diede un’occhiata a Sano.
«Prenderemo il primo treno.»
La moglie annuì, si strinse a Megumi, ricambiata e attorniata dai bambini perplessi, e giunse le mani.
Fa’ che sia a Shinshu. Fa’ che lo trovino presto. Che sia sano e salvo!

A volte sua moglie lo accusava di avere una pessima memoria, ma certe cose erano troppo gravi per essere dimenticate, persino per Kakunoshin Nitsu. Fissò il ragazzino coi capelli rossi, spuntato da una notte all’altra dal pavimento dell’Aoiya, le gambe dritte, gli occhi decisi, e si passò una mano fra i capelli.
Per tutti gli dèi. Non di nuovo.
Accettò il bicchiere di sakè portogli da Omasu e cominciò a centellinarlo, senza muoversi dall’uscio.
«Seijuro, entra fredd―» sullo sfondo, Shiro degli Oniwabanshu fu zittito. «Ma la legna costa!»
«Sst!»
«Dunque» disse Hiko, squadrando Kenji. «Ti ricordavo più alto, stupido allievo.»
Sapevo che prima o poi sarebbe venuto.
La faccia del ragazzo divenne paonazza.
«Non sono Kenshin. Sono Kenji
E sembri anche più avventato di lui.
Le prospettive erano tutt’altro che rosee. Kakunoshin, ovvero Seijuro XIII era sopravvissuto a un Himura, ma non era sicuro di poterne reggere due. La pazienza di un uomo aveva dei limiti.
Acchiappò il figlio e tentò una dignitosa, compassata uscita di scena.
«E’ stato un piacere rivederti, figlio dello stupido allievo.»
«Cosa? Hey… un attimo! Aspetta! Devo parlarti!»
Seijuro si trovò la porta bloccata ― ed era stata appena alle sue spalle.
Il ragazzo era veloce.
Interessante. Suo malgrado, avvertì una scarica di adrenalina. «Parlarmi? E di cosa, se non è troppo chiedere?»
«Io, uh… ecco, voglio― ma non possiamo parlarne in privato?»
«E’ una cosa illecita?»
«No!»
«E allora che problema c’è?»
«…»
«Marmocchio, mi sto stufando. Ho ancora parecchio da sbrigare su al rifugio, non ho tempo da perdere con te.»
Il viso del postulante divenne quasi viola, come se fosse sul punto di esplodere. Ah, l’orgoglio.
Un punto a sfavore per lui, nel confronto col padre.
Tuttavia, Seijuro scoprì subito che era pieno di risorse. Ignorava quando e come fosse arrivato, ma se sapeva ancora il fatto suo poteva scommettere che la mezza pinta avesse viaggiato da sola, senza l’appoggio né tanto meno il permesso di qualcuno, convincendo Misao della propria buona fede grazie a qualche trucchetto ben congegnato.
E poi lo vide inchinarsi profondamente davanti a tutti, i pugni stretti contro i fianchi.
«Signor Hiko, sono venuto qui per chiedervi di insegnarmi l’arte della spada. Vi prego, permettetemi di chiamarvi “maestro”.»
«Ah» rispose, lisciandosi il mento dopo che Okon gli ebbe preso il figlio di braccio. «Allora sai anche essere educato.»
«Ma Kenji è educatissimo» commentò Omasu dalle quinte.
Accanto a lei, comparso chissà quando, Okina si appoggiava a uno stipite, le braccia incrociate. I suoi occhi scintillarono.
Seijuro sogghignò.
«Ragazzo, quando un aspirante allievo chiede di essere ammesso, la tradizione vuole che si sporchi la fronte, non lo sai?»
Dalla piccola folla di spettatori si levò un coro di voci costernate.

Sporcarsi la fronte.
Cioè prostrarsi fino a premerla contro il pavimento, i gomiti flessi in fuori, le mani stese una di fronte all’altra davanti alle ginocchia, nell’inchino più formale che esistesse.
Kenji quasi spalancò la bocca.
Era una scusa per umiliarlo, fin lì ci arrivava. Quel che non capiva era perché.
Che tipo di uomo era veramente Hiko?
Ma soprattutto, cosa doveva fare lui adesso? Prostrarsi sul serio?
«Allora? Già cambiato idea?»
Strinse la mascella, mentre il formicolare bruciante della rabbia gli pompava nelle arterie.
«No.»
«Dimostralo.»
«Un guerriero non si prostra davanti a nessuno.»
«E tu saresti un guerriero? Bah, ne ho abbastanza.» Kenji lo vide girare sui tacchi, indirizzando un gesto a qualcuno nel corridoio. «Una volta i mocciosi conoscevano il proprio posto e non ti importunavano a oltranza. Che tempi.»
Se ne stava andando.
La sua unica possibilità se ne stava andando, e in fretta, e lui doveva fare qualcosa o non si sarebbe mai perdonato.
«Aspetta!»
Era una prova. Una prova. Una prova.
Continuò a ripeterselo intanto che piegava le gambe, soffrendo a ogni centimetro, giurando vendetta quando le sue ginocchia collisero col legno della pavimentazione.
E’ per l’Hiten Mitsurugi!
Poi strinse i denti e si buttò in avanti.
«Per favore, mi prenda come allievo.»
Nulla.
Né risa, né mormorii di compatimento, men che meno una risposta.
Lentamente, sollevò la testa e sbirciò. La stanza era vuota, priva di vita… fatto salvo per lui ed Hiko.
L’uomo lo sovrastava, l’espressione indecifrabile.
Quand’era uscita tutta l’altra gente? Non… non lo avevano visto umiliarsi in quel modo?
«Cosa faresti» disse Seijuro XIII, facendogli segno di sedere dritto «se ora ti dicessi che non prendo più allievi?»
Kenji deglutì, conscio d’aver passato una prima verifica e di essere alla seconda.
«Direi che non accetto una risposta del genere. Che lei è ancora giovane e in grado di insegnare. Che ne valgo la pena.»
«Se vali o non vali la pena sarò io a deciderlo, pel di carota.»
Digrignò i denti.
«Che ho già fatto parecchio da solo. E che non ho altri cui rivolgermi.»
Gli occhi dell’uomo baluginarono.
«Cosa vuoi dire con “parecchio”?»
«So eseguire le basi dell’Hiten Mitsurugi. Ho bisogno di una guida per i livelli―»
«E chi ti ha insegnato. Tuo padre
All’improvviso, seppe di esser scivolato su un terreno franoso. Questa persona era come zio Aoshi, scaltra e informata.
«No. Ho imparato da solo.»
«Come?»
«Dalle descrizioni.»
«E lui non ti ha detto niente? Non ha cercato di impedirtelo?»
«E’ stato lui a mandarmi qui. Non può più fare niente del genere.» Almeno così si sapeva, aggiunse tra sé, venefico. Ma non doveva assolutamente distrarsi. Si frugò nel gi, cercando i frammenti della presunta lettera. «Ecco―»
Hiko la prese, scorse le poche righe e un’ombra di sorriso gli animò le labbra.
«Ah.»
Il ragazzino lo fissò, in trepida attesa.
Ma l’uomo cominciò a muoversi verso l’interno della locanda, il mantello svolazzante oltre le spalle.
Il cuore di Kenji fece l’ennesimo salto. Aveva fallito?
«Maestro!»
«Ma sì, ti darò una settimana. Il tempo di tornare su al rifugio e sistemare le ultime cose per l’inverno. Io e la mia famiglia lo trascorriamo sempre a Kyoto. Sarai tu a dovermi far cambiare idea.» Si tolse la lunghissima coda dal collo. «Adesso vieni, voglio mangiare, stupido allievo.»
L’appellativo passò inosservato.
Per un attimo, Kenji aveva dimenticato persino l’umiliazione dell’inchino.
Ce l’aveva fatta.
Seijuro Hiko l’avrebbe istruito.
Era il suo maestro!
Fu più forte di lui: accartocciò il viso, fletté le ginocchia e saltò alto, abbandonandosi a un belluino grido di giubilo.

Kenshin fissò con orrore il nodoso impiegato della stazione, trovandosi momentaneamente muto.
Non così Sano.
«Che cazzo vuol dire?»
L’omino si ritrasse un po’ dietro il vetro appannato del botteghino.
«Q-quello che ho detto, signore. C’è stata una frana, le linee sono tutte bloccate.»
«Ma non è possibile!»
«La prego di credermi, pensa che mi prenderei―»
«Poche storie!» Il pugno del non-tanto-ex-attaccabrighe cozzò contro il banco. «Qui c’è un ragazzo che è scomparso e deve essere recuperato, non abbiamo tempo per le vostre―»
«Sano…»
«―stronzate.»
«Sano.»
«Uh?»
Kenshin gli mise una mano sull’avambraccio per buona misura, scuotendo la testa. Poi si rivolse al bigliettaio.
«Quanto ci vorrà perché i treni ripartano?»
«Cre-credo qualche giorno, signore. La frana è davvero grande e un treno si è schiantato.»
«Ma quand’è successo?» s’intromise uno sconosciuto. S’era già formata una piccola calca e l’impiegato cominciò a sudare visibilmente.
«Stanotte, ci hanno dato notizia appena―»
Kenshin gli ostruì la visuale, costringendolo a guardarlo.
«Quanto?»
«Quanto cosa, signore?» pigolò l’omino.
«Quanto ci vorrà di preciso?»
Non poteva essere. Non potevano bloccare tutto, lui doveva andare!
«N-non ci hanno detto.»
«Non ha altri casi da portare a esempio?» disse, ripetendosi di mantenere la calma. Puoi sempre partire a piedi, Kenshin. «Altre frane, altri incidenti.»
L’impiegato impallidì fino a diventare quasi trasparente e Kenshin, a un gesto di Sano che indicava i suoi occhi, si rese conto di avere l’espressione un po’ tirata. Sospirò, imitato dagli altri mancati passeggeri.
«Per favore.»
«S-sì, ora ricordo… uh… l’ultima volta… sì, qualche anno fa, c’è voluta più di una settimana. Ah, ma» si corresse, cogliendo nell’aria un sentore di morte «oggigiorno le tecniche di lavoro sono molto più svelte, certamente ci vorrà―»
«Quanto
«Q-quattro, cinque giorni!»
«E dove ce la vedi la differenza, tappo?» sbraitò Sanosuke, sentendosi preso in giro.
«Già, è una vergogna!» commentò qualcuno.
«Noi dobbiamo partire, come facciamo adesso?» aggiunse una donna, tenendo per mano tre bambini.
E mille altre proteste finché, ormai preoccupato per la propria vita, prima di abbassare lo schermo e chiudere il botteghino il bigliettaio non accennò al fatto che avrebbero potuto usare le carrozze offerte dal servizio postale.
Se riuscivano a trovarne ancora una.
Difatti, quando arrivarono al grande centro dei trasporti di Tokyo, non lontano dalla stazione, non c’era più un cavallo neanche a pagarlo, figuriamoci un carro.
«Nessun problema» dichiarò Sanosuke, caricando i pugni. «Assaltiamo la prima che incrociamo e facciamo scendere tutti.»
«Sano, non è il momento di scherzare» rispose Kenshin a capo chino. Si sentiva malissimo, una combinazione dell’assenza di suo figlio, dell’aver saltato la colazione e del ritrovarsi privo di risorse.
Erano in giro da oltre un’ora (il tempo di attraversare Tokyo, a piedi, per arrivare dalla periferia al centro) e non avevano combinato nulla.
«A questo punto, non resta che andare alla vecchia maniera» mormorò, certo che l’amico avrebbe protestato ma pronto a controbattere. «Cioè a piedi. Ci vorrà di più, però non starò con le mani in mano.» Sistemò meglio in spalla la sacca con la sakabato, assicurandosi d’averla ancora. «Che ne pensi?»
Gli sembrava già di sentirlo.
“Sei matto?” avrebbe detto, ruminando il solito filo d’erba. “Sono più di duecento chilometri, e va bene che tredici anni fa me li sono corsi in un giorno, ma ero io ed ero tredici anni più giovane e non c’è verso che ora riusciamo a esserci prima di”― un momento.
Perché Sano stava zitto?
Si voltò, incuriosito.
«Sano?»
Ma Sanosuke era sparito.
Lo ritrovò cinque minuti dopo, accanto a una carrozza che aveva cercato di fermare, già in manette.
Il suo cuore pianse.


***

   
 
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