Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |      
Autore: MissBlinky94    21/08/2008    0 recensioni
Primo racconto :)!!!
Parla di una ragazza con una situazione familiare decisamente critica che un giorno decide di scappare, convinta di potersi lasciare tutto alle spalle ma...
P.S. Ragazzi, commentate perchè ci tengo a migliorare, ma ricordatevi che sono giovane e inesperta =].
Siate clementi, please XD.
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Quella mattina correvo più forte che mai.

Correvo contro l’aria fredda e pungente che sferzava violenta su di me, come a voler spazzare via tutte le tracce della mia angoscia.

Dei miei abusi.

E non avevo sensi di colpa, per una volta.

Niente mi pesava, nè mi dava minimamente fastidio. Nè il freddo, nè le punte di naso e orecchie completamente ghiacciate, nè le scarpe troppo strette, nè il fiato corto.

Niente sembrava potere rovinare lo stato di grazia che si raggiunge nel momento della fuga.

Non c’era motivo di correre così forte. Sarei sicuramente arrivata alla stazione in tempo.

Forse correvo per lasciarmi tutto quanto alle spalle il più presto possibile.

Forse era perchè avevo paura di cambiare idea e di tornare indietro.

Per tenere sgombra la mente, per arrivare al più presto alla stazione, l’Alternativa, dalla quale, se avessi deciso di cogliere l’occasione al volo, avrei iniziato a vivere respirando. Senza più essere obbligata a trattenere il fiato nei momenti di stasi aspettando febbrilmente la sfuriata che prima o poi sarebbe arrivata. Inevitabilmente.

La stazione era l’Alternativa.

L’Alternativa ad una vita frantumata. Stroncata sul nascere. Mai totalmente vissuta.

L’Alternativa rappresentava una sfida con me stessa. L’inizio della rivincita.

Ed eccola che appariva pian piano davanti ai miei occhi. Per me era la salvezza. La guardai come i Re Magi dovrebbero aver guardato la Stella Cometa.

La stazione mi tentava. Non sapevo dove sarei andata, per quanto avrei viaggiato, chi avrei incontrato, ed era questo il bello. E poi, dovunque fossi capitata, Lui non mi avrebbe trovata. Ne ero certa. Era Lui il motivo per cui lasciavo la mia città, mia madre, i miei pochi amici.

Scappare via da lui.

Era la mia ossessione.

Pensavo che non abitando più sotto lo stesso tetto i ricordi legati alla Bestia si sarebbero staccati dalla mia pelle come croste.

A quei tempi non pensavo che sarebbero potute rimanere le cicatrici.

Tutto sarebbe andato per il meglio, mi ripetevo.

E invece le cicatrici sono rimaste.

E invece lui l’ho incontrato. Sotto mentite spoglie, ma l’ho incontrato.

Perchè con me aveva ancora un conto in sospeso.

L’odore della mia debolezza sarebbe riuscito ad attirarlo anche in capo al mondo.

Non avevo lasciato alcun messaggio a mia madre. Nessun biglietto. D’altronde, cosa avrei potuto scriverle? "Cara mamma, scusa se ti lascio a soffrire in questa merda di casa insieme a quella bestia che ti sei scelta per marito, ma io voglio ricominciare da capo e dimenticare tutto."

Ero stufa di prendermi responsabilità che non sarebbero dovute spettare a me.

Gravavano sulle mie spalle da quando ero nata. Ero arrivata fino a lì per sgombrarmi da tutte le colpe che credevo di avere.

Che mi facevano credere di avere.

E così arrivai alla stazione. Senza certezze. Senza conforto. Senza incoraggiamenti. Senza nessuno. Stavo sperimentando sulla mia pelle il significato della parola sola.

Circondata di persone com’ero, avrei potuto rivolgermi a chiunque, ma non avrei trovato quello che mi serviva. Solo sorrisi falsi, premura artefatta e chiamate alla centrale di polizia.

Ma guardandomi attorno incrociai per caso un altro tipo di sorriso. Non era finto, ma neppure rassicurante. Somigliava più ad un ammiccamento.

Un ragazzo stava ammiccando a me.

E che ragazzo! Jeans stracciati, cravatta allentata e Hogan mezze sfondate. Era vestito come un vagabondo, ma solo in apparenza. Se lo si osservava con attenzione, era palese che il suo look da trasandato fosse perfettamente studiato.

Non era bello ma aveva una dose di fascino non indifferente. Non c’era un particolare del suo viso che saltava subito all’occhio. Non aveva una bocca perfetta, nè un paio di occhi di ghiaccio. Quello che mi attirava era il suo insieme, il suo stile, il suo atteggiamento. Il suo modo di ammiccare, di stare seduto, di guardarmi di sbieco, di fumare la sigaretta. In più quel ragazzo rappresentava una terza alternativa, e io non aspettavo altro che sconvolgere il corso solo apparentemente già calcolato della mia vita.

Potevo tornare a casa ( e quello era già escluso per principio), salire sul treno e vagabondare per giorni e giorni oppure andare da quel tizio e chiedergli aiuto, un passaggio, qualsiasi cosa. Nel giro di un minuto scartai rapidamente anche la seconda opzione e mi diressi verso il ragazzo guardandolo dritto negli occhi.

Lui aspirò una boccata e mi salutò.

"Hey!"

"Ciao!"

Siediti. E mi offrì una sigaretta. Era una Marlboro. Io ero abituata solo alle Camel’s Light che sgraffignavo a mia mamma e queste erano davvero troppo forti per me. Il fumo mi bruciava la gola e le narici quando espiravo, ma decisi di resistere e di continuare fino in fondo, giusto per non fare la figura della poppante e bruciarmi subito l’opzione più allettante.

"Sei di qui?" Chiesi. Mi sentivo stupida. I convenevoli non sono mai stati il mio forte.

"No, io vengo da Newcastle. Abito lì ma a casa in pratica non ci sono mai. Sono sempre in giro a vagabondare. E tu che mi dici?"

Dopo una pausa studiata ad arte momorai, come se mi pesasse parlarne

"Bhè, io...Sto scappando."

Buttai lì le ultime due parole guardandolo negli occhi con uno sguardo da cerbiatta smarrita.

"Hey, piccola, che c’è? Da cosa scappi?"

"Senti, non credo sia il momento di parlarne ma...Sapresti consigliarmi un posto dove passare la notte? Lontano da qui?"

"I miei hanno una casa a Warwick. Era dei miei nonni. Non ci va mai un cane. Ti potrei portare lì."

"Davvero? Guarda, se non ti sono d’impaccio accetto più che volentieri!"

Il ragazzo si era già alzato a metà della mia frase, aveva gettato a terra la cicca e stava per raggiungere la sua macchina.

Io mi alzai e feci una breve corsa per raggiungerlo. Quando ci trovammo fianco a fianco rallentai.

"Come ti chiami?"

"Jemma. Tu?"

"Peter. Sei molto carina, sai? Intendo, non mi dispiace per niente doverti ospitare da me!"

Ridemmo tutt’e due, imbarazzati.

Improvvisamente si fece serio e disse, con lo sguardo verso le nuvole.

"Ho un debole per le ragazze nei guai. Mi piace sognare di poterle salvare tutte quante e di proteggerle tra le mie braccia. Mi fa sentire un uomo utile e...potente."

Alzai gli occhi verso di lui.

In quel momento capii che già l’amavo.

Peter non aveva ancora scollato lo sguardo dal cielo. Dalla calma e dalla vaghezza con cui aveva pronunciato quelle parole avevo l’impressione che stesse parlando tra sé e sé, quindi feci finta di niente e continuai a camminare. Camminavamo in silenzio, con i nasi per aria. Arrivammo alla macchina dopo 5 minuti.

"Scusa, lo so, è una merda, fa davvero schifo, ma è tutto quello che mio padre può permettersi, in questo periodo."

"Figurati! Cosa fa tuo padre?"

"È un camionista. È lui che mi ha insegnato a guidare."

Gli si stampò in faccia un’espressione sognante e iniziò ad accarezzare il volante come se fosse un micino.

"Guidare di notte, con i finestrini aperti per fare entrare l’aria autunnale, frizzante, scaracollarmi giù per l’autostrada deserta. Questa è forse la cosa che amo di più al mondo."

Sembrava così immerso nei suoi pensieri che potevo quasi vedere la scena che sfilava davanti ai sui occhi. La BMW mezza scassata e lui a bordo, con un braccio fuori dal finestrino che guidava con espressione adorante. Io con il mio intervento avrei rovinato tutto. Non volevo. Desideravo continuare a vederlo sorridere. Non solo perchè mi piaceva il suo sorriso, ma perchè la sua gioia mi inebriava. Era una sensazione piuttosto morbosa, se pensiamo che lo conoscevo da mezz’ora.

Passammo il resto del viaggio parlando. Lui mi raccontò tanto della sua vita. Io prevalentemente stavo ad ascoltare. E lo osservavo, come a volerne sapere di più sul suo conto, come a voler scovare il significato dei suoi segreti e dei suoi desideri più profondi tramite i suoi gesti, il suo sguardo.

Quando arrivammo a destinazione mi venne da ridere.

La casa era peggio della sua BMW scassinata.

Rise anche lui.

"Sai, non ci viene nessuno, solo io quando voglio stare per conto mio."

"Non ti preoccupare. Basterà dare una ripulita."

Era una parola.

Già io nelle faccende domestiche sono una frana (lui più di me) e poi ogni stanza era veramente un disastro! Sembrava che in ogni angolo si fossero ammassati cumuli e cumuli di capelli aggrovigliati tra loro che svolazzavano ad ogni nostro passo. Le tende erano lercie, quasi la luce non riusciva a trasparire. L’attaccapanni sembrava un albero a fine autunno, con due rametti in croce in cima che difficilmente sarebbero riusciti a reggere un cappotto invernale. Per completare, i mobili erano di legno grezzo, che, ovviamente, era pure ammuffito. Mi chiesi se i suoi nonni risalissero all’epoca Medievale. In caso contrario non sarei davvero riuscita a giustificare le condizioni di quella casa.

Sembra paradossale ma passai le ore più belle della mia vita insieme a Peter, raccattando merda da terra.

Quella notte decidemmo di dormire in due stanze separate. Lui occupò il divano in soggiorno e mi cedette la camera da letto. Era l’una di notte ma ancora non riuscivo ad addormentarmi. Stavo ripassando mentalmente tutto quello che mi era accaduto quel giorno. E fu allora che un flashback mi assalì come una fortissima emicrania. Mi sentii bruciare da quanto i ricordi erano vivi. Non avevo ancora pensato a Lui da quando ero con Peter. Gli incubi stavano per ricominciare e le ferite si stavano riaprendo.

Capii che non gli sarei mai sfuggita, dovunque mi fossi nascosta.

Io avevo 6 o 7 anni. I miei stavano litigando furiosamente. Io facevo finta di niente. Sfogliavo il mio giornalino ostentando indifferenza, mentre il mio stomaco stava salendo talmente che avrei potuto sputarlo fuori. Il mio paparino, colui che si deve onorare, aveva afferrato la mamma per le braccia e l’aveva spinta contro il muro con una violenza tale da farlo tremare.

La follia nei suoi occhi.

Quella non la dimenticherò mai.

Ero ancora piccola, credevo che quelle cose potessero succedere solo nei film.

Mamma piangeva in silenzio. Come io odiavo che lei piangesse. Aveva uno sguardo rassegnato, come se stesse pensando "Ok, ok, starò sitta, basta che la smetti.".

In quel momento, stupidamente, la odiai tanto quanto suo marito.

Intanto la Bestia urlava "Io sono stufo di tutto! Sono stufo di questa vita di merda, di te, di quella puttana di tua figlia, di tutto!" Lui era stufo. Noi dovevamo stare zitte e sopportare. Non avevamo il diritto di esserci rotte i coglioni.

Dopo un istante la Bestia andò a sedersi sulla poltrona, con le mani sulla faccia a mo di "Cos’ho fatto?" E te lo chiedi adesso cos’hai fatto, stronzo? Ricordo che pensai.

Mamma era seduta al tavolo. Piangeva. Rassegnata. Silenziosa. Tirava solo un po’ su col naso ogni tanto.

Io avrei voluto andare da lei, abbracciarla, farle capire che almeno io c’ero, che soffrivo con lei, per quanto potesse essere stato rassicurante.

Mi alzai dal pavimento, raccolsi il mio giornalino da terra e uscii dalla stanza.

Codarda.

Mi ero addormentata subito dopo quell’apparizione. Quando mi svegliai avevo ancora un vago ricordo del sogno. Ma mi trovavo in quella vecchia catapecchia mezza marcita insieme ad un gran figo che dormiva in soggiorno, un ragazzo che sognava di essere un superuomo, e mi sentivo stranamente rassicurata.

Peter però non stava dormando ancora. Era già in cucina che sgranocchiava una fetta biscottata.

"È tutto quello che è rimasto dopo l’assalto alla dispensa di ieri sera."

Il giorno prima avevamo ripulito la casa da cima a fondo e a cena non potemmo fare a meno di ripulire letteralmente anche frigo e scomparti vari, da quanto eravamo sfiancati e affamati.

Per me andava bene. Non ho mai mangiato a colazione. Di fetta biscottata me ne bastava anche mezza. Lui si accese una sigaretta. Io lo guardavo sgranocchiando di malavoglia la mia colazione. Sembravamo una coppia di giovani conviventi. Lui era affacciato alla finestra, assorto nei suoi pensieri, come sempre. Io avevo finito di mangiare e lo guardavo. Fu a quel punto che si girò verso di me e restò ad osservarmi per qualche secondo. Poi si diresse verso di me, mi sollevò dalla sedia afferrandomi per la vita e mi baciò. Io lo lasciai fare. Ci ero cascata di nuovo. Al momento non pensavo che fosse così pericoloso come si sarebbe rivelato da lì a poco. Cadevo in ginocchio davanti a qualsiasi ragazzo mi facesse un minimo di corte.

Così iniziò la nostra storia.

Con un sorriso, una sigaretta e una giornata a giocare alle casalinghe.

E poi quello splendido bacio.

Quel giorno restammo chiusi in casa a parlare. Prima tentammo invano di pulire anche solo approssimativamante tende e finestre, ma dopo mezz’ora ci demmo per vinti e discutemmo per ore dei nostri sogni, delle nostre ambizioni, di quello in cui credevamo. Io cercavo un ragazzo così. Uno con cui parlare di cose profonde. Un ragazzo che in fondo si sentisse già un uomo.

Quella notte facemmo l’amore. Per me era la prima volta. Per lui non ne sono sicura. Scopava già come un ventenne. Almeno per quello che ne sapevo.

Lui mi ammaliava in maniera morbosa. Quello era già un indizio, ma allora non lo colsi. Ero troppo presa da lui e dalla mia nuova vita.

Dopotutto non era poi così strana, la sua megalomania. Lui l’aveva ammesso che ambiva ad essere Superman.

Dopo tre giorni chiusi in quella casa graziosa e confortevole come una petroliera a chiacchierare, penzolare in giro per le stanze e fare l’amore, mi venne una voglia matta di uscire e prendere una boccata d’aria.

Era mezzanotte. Lui giaceva addormentato di fianco a me. Io ero preda della mia solita insonnia. Avevamo iniziato a dormire insieme nel letto matrimoniale dal giorno dopo il nostro incontro.

Scostai le coperte e scesi piano, per non fare rumore. Aprii la porta e la lasciai socchiusa per timore di disturbare il sonno del mio ragazzo.

Chiusi gli occhi. Quel vento era piacevolissimo.

Da piccola uscivo dalla mia finestra quasi ogni notte. Completamente scalza e con solo il pigiama addosso. Anche allora facevo fatica a prendere sonno e la notte mi dava conforto. Decisamente strano, se pensiamo che ogni bambina di 5 anni avrebbe preferito dormire rannicchiata dietro il proprio comodino, piuttosto che passare la notte fuori dalla finestra. Quella sarebbe presto diventata un’abitudine che non ho ancora abbandonato. Da piccolina uscivo di casa e me ne stavo buona buona a guardare le stelle accoccolata vicino al mio pupazzo, da ragazzina iniziavo ad elaborare i miei primi tentativi di poesia e ora che tra lavoro ed impegni vari ho a malapena il tempo di un panino a pranzo, mi limito a fare ordine nella mia testa e a pensare al giorno dopo, che tristemente ed inevitabilmente sarà uguale a quello prima, nonnostante io continui ad illudermi e a fantasticare come un’adolescente.

Ero li da un quarto d’ora quando sentii la porta d’ingresso sbattere e la voce di Peter che gridava "Jemma! Dove cazzo sei, Jemma?" Io lo chiamai. Lui mi corse incontro. Mi abbracciò, mi baciò sul viso e mi sussurrò "Credevo fossi scappata, cazzo. Credevo ti avessero portata via. Ti voglio per sempre con me, Jemma" La sua voce, da piena d’ira, era diventata subito dolce e sensuale appena si era accorto della perplessità e dello stupore sul mio viso. Un altro indizio. Che questa volta mi imposi di non prendere in considerazione. Salimmo in camera da letto e facemmo di nuovo l’amore. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. Mi strappò letteralmente i vestiti di dosso e mi spinse sul letto. Mi penetrò e iniziò a toccarmi dappertutto, ma con più irruenza del solito, e ben presto iniziò a farmi male. Gli dissi di smetterla, ma lui mi mise una mano sulla bocca per farmi tacere e continuò a scoparmi. Mentre stava per venire mi sussurrò "Jemma devi essere per sempre mia, capito? Per sempre."

L’aveva detto con un tono così indifeso e bambinesco che mi fece quasi pena.

L’uomo brutale che poco fa mi aveva quasi stuprata era già svanito, si era lasciato soccombere, facendo spazio ad un ragazzino pazzamente innamorato che si sarebbe ucciso per la sua ragazza.

Era l’inizio del ricatto.

Passarono 2 mesi. Due mesi prigioniera in quella casa. Paradossalmente io non riuscivo a ribellarmi. In un certo senso non provavo neanche il desiderio di andarmene via. Peter mi voleva per se, mi recludeva. E in fondo in fondo a me stava bene. Ero follemente innamorata. E in senso letterale, perchè nessuna ragazza sana di mente si sarebbe lasciata raggirare in quel modo senza intervenire.

Dopo che furono passati altri due mesi, la situazione iniziò a cambiare.

Io iniziavo a sentirmi stupida e capii che Peter intendeva sul serio quello che mi aveva detto quella sera.

"Jemma devi essere per sempre mia, capito? Per sempre."

Mi stavo facendo del male da sola. Capivo che ora che ero caduta nella sua trappola, non mi avrebbe più lasciata andare, ma io lo amavo seriamente e temevo di perderlo.

Avevo la classica sindrome della preda che non può fare a meno della sua larva e la ama perchè una parte di lei ha bisogno disperatamente del suo supporto e la odia perchè l’altra parte vuole essere nuovamente libera di costrizioni.

Amare e odiare contemporaneamente è un’esperienza logorante.

Ero riuscita a scappare da mio padre e ora le mie opinioni, i miei scopi, il mio corpo erano di nuovo copletamente bloccati.

A causa di un altro fottutissimo ragazzo.

Tutta colpa degli uomini.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: MissBlinky94