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Autore: Helena Kanbara    29/06/2014    4 recensioni
Dal Prologo:
‘‘Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio penultimo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla.
[...]
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.
Gli Stilinski.’’
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sceriffo Stilinsky, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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parachute 

 

 
17.  It’s you and me.
 
 
Non so esattamente cosa scattò dentro Derek non appena mi vide svenire di fronte ai suoi occhi. Forse semplici riflessi da licantropo – velocità sovrumana, capite? – o il fatto che quello per lui fosse nient’altro che un déjà vu, una scena già vista. Una cosa alla quale sapeva benissimo come avrebbe dovuto reagire. E il punto è proprio questo: reagì.
Prima ancora che potessi perdere completamente equilibrio e conoscenza, infatti, lo vidi scattare vicino a me e sentii la presa delle sue dita diventare salda sul mio braccio. Fu una presa del tutto improvvisata e me ne resi conto, ma bastò a tenermi in piedi ed evitare che rovinassi sulla moquette nella camera di Stiles. Una cosa del genere non sarebbe stata affatto piacevole.
Continuai a lungo a chiedermi perché l’avesse fatto, perché spesso mostrasse preoccupazione nei miei confronti, perché tenesse a me senza nessun motivo in particolare. Ma non gli posi mai la domanda. Mi limitai a far finta di nulla. Non lo ringraziai nemmeno. Quando Stiles mi raccontò ciò che avvenne durante la mia perdita di coscienza, mi limitai ad assimilare il tutto e basta. Poi scacciai via la brutta sensazione d’inadeguatezza tornata a farmi nuovamente compagnia.
«Lasciala a me», fu la prima cosa che Stiles riuscì a dire, dopo essere scattato in piedi.
Sarebbe stato bello poter sapere cosa avesse smosso lui, invece. Ci pensai spesso e ogni singola volta, giunsi alla stessa stupida conclusione. Mi piaceva più del lecito credere che un interesse simile al mio lo spingesse continuamente nella mia direzione, facendo sì che fosse affezionato a me come se ci conoscessimo da secoli e tenesse al mio star bene più che al suo. Avrei potuto chiederglielo, mettere da parte quel poco d’imbarazzo che ancora faceva di me la sua preda quando si trattava di Stiles, e sperare nelle risposte che desideravo. Ma capii ben presto che sarebbe stato inutile.
«Sei sicuro di farcela?», gli domandò Derek, donandogli uno sguardo indagatore mentre ancora mi stringeva entrambe le mani sulle braccia.
Non mi aveva sollevata dal pavimento: l’estrema velocità con la quale si era svolta la scena non gli aveva permesso di agire perfettamente e al contrario, l’aveva costretto ad improvvisare. Le punte dei miei piedi ancora sfioravano la moquette e le gambe se ne stavano molli quanto le braccia. Ero svenuta e praticamente abbandonata a me stessa.
«Non la lascerò cadere, se è questo ciò che intendi», lo rassicurò subito Stiles, ricambiando lo sguardo di Derek poco prima di muovere un ulteriore passo nella nostra direzione.
Allora si limitò ad allungare le braccia verso di me e Derek l’accontentò subito, capendo che quella volta ci fosse poco da discutere. Lasciò andare le mie braccia piano, tanto quanto bastava per permettere a Stiles di afferrarmi al meglio. Lui mi prese quasi come se fossi la cosa più preziosa che avesse mai stretto tra le braccia e mi sollevò dal pavimento, stringendomi dietro la schiena e nella piega delle ginocchia. Derek non gli tolse gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, preoccupato forse perché credeva che sul serio non sarebbe stato in grado di reggermi, ma Stiles non fallì nemmeno lontanamente. Con una sicurezza che mai gli avrei visto addosso per via del mio essere svenuta, avanzò con me tra le braccia nella direzione del suo letto. La mia testa era riversa all’indietro, il braccio destro era sfuggito alla dolce morsa di Stiles e penzolava nel vuoto, così come i miei piedi nudi. Ma nonostante tutto, anche se non potei vivere sul serio quel momento, non pensai neanche per un attimo di averne sofferto. Al contrario, credetti sempre di non essere mai stata meglio di allora.
«Che cos’ha?», chiese Danny, segnalando agli altri la sua presenza nella stanza dopo essere stato in silenzio per quelli che sarebbero benissimo potuti sembrare secoli.
Stiles mi adagiò piano sul suo letto, ignorandolo per un po’ mentre si sistemava velocemente accanto a me. Poi si voltò a guardarlo, facendo spallucce. Derek seguì il suo sguardo, avanzando nella nostra direzione con le braccia incrociate al petto e la solita – tipica – aria contrita in volto. Era preoccupato. Ancora.
«Nulla di grave», rassicurò Stiles, fingendo un sorriso poco prima di cercare nuovamente il mio viso. Lo osservò per qualche momento, poi continuò a parlare volgendo a Danny la schiena. «Era solo molto stanca».
Il migliore amico di Jackson non parve molto convinto da quella sua giustificazione ma ad ogni modo decise di non insistere ancora. Si limitò a fare spallucce, annuendo lievemente. Poi voltò lo sguardo verso la scrivania di Stiles e raccattò tutti i suoi libri, impilandoli ordinatamente nello zainetto grigio.
«Credo sia meglio che vada», trovò il coraggio di dire quando fu pronto a scappare. «Quando si sveglierà, salutala da parte mia».
Stiles annuì, poi si voltò a guardare Danny – più per gentilezza che per reale interesse. Lo salutò brevemente e quando lui ebbe infilato la porta e abbandonato la stanza, si lasciò andare ad un sospiro di sollievo. Non aveva avuto bisogno di mandarlo via: Danny aveva saputo capire da solo che tipo di situazione fosse quella nella quale si trovavano pur senza saperne nulla, e aveva deciso bene di evadere. Per un attimo, Stiles ringraziò la sua discrezione.
«Stanchezza? Sul serio, Stiles?», domandò dopo qualche minuto Derek, con le sopracciglia aggrottate e una lieve aria di rimprovero. «Cosa credi che abbia veramente?».
Inizialmente Stiles fu tentato dal rispondergli a tono, ma poi decise di evitare. Fece nuovamente spallucce, continuando a tenere gli occhi fissi sul mio viso inespressivo. Se fossi stata sveglia o anche solo capace di avvertire i suoi occhi puntati su di me in quel modo, sarei morta dall’imbarazzo già diversi secoli prima.
«Non è stanca. Ovviamente», rispose poi, iniziando a valutare mentalmente tutte le possibili spiegazioni per giustificare quel mio improvviso svenimento. «Stava bene. Non era agitata né spaventata».
Derek si illuminò immediatamente. Senza che Stiles dicesse ciò che aveva in mente, era già stato in grado di cogliere i suoi pensieri.
«Sta sognando?», chiese, enfatizzando le due parole da lui pronunciate con una nota appena accennata d’incredulità.
Sapeva di cosa avessi dentro me, dei poteri che possedessi seppur non mi piacesse affatto dimostrarlo. Sapeva di cosa ero in grado, di come funzionassero le cose, quale fosse il modus operandi. Le mie visioni, quando le avevo, come e perché. Sapeva ancor di più di quanto ne sapessi io, a momenti. E aveva appena fatto centro. Stavo sognando.
Tuttavia, quella volta le cose furono lievemente diverse dal solito. Quella era la mia terza volta. Il terzo sogno in due mesi, la conferma allo schema del quale mi aveva parlato Stiles tempo addietro. Come aveva detto? “Uno è un incidente, due è una coincidenza, tre è uno schema”. Appunto. Uno schema. Qualcosa di definito. Niente era stato frutto del Caso, da quand’ero arrivata a Beacon Hills. Niente. E allora solo una domanda riempì la mia mente: che cos’ero?
Non ebbi tempo per pensarci o per potermi dare risposte, improvvisamente il buio cadde sulle figure di Allison e Kate Argent che avevano avuto il possesso sulla mia mente per tutto quel tempo, e una forza completamente nuova fece sì che fossi finalmente in grado di aprire le palpebre di scatto. Sgranai gli occhi, soffocai un urlo e strinsi la mia mano attorno a quella di Stiles. Solo quando fui pienamente cosciente me ne resi conto, ma non mi liberai da quel piacevole intreccio.
«Dio, Harriet!», sbottò proprio Stiles, sobbalzando appena a causa del mio brusco risveglio. «Cos’è successo? Cos’hai visto? Stai bene?».
Il suo fiume di domande mi scosse ancor di più. La testa continuava a pulsarmi e, irritata, premetti la mano libera contro le tempie doloranti. La voce di Stiles m’innervosiva. Era una cosa talmente nuova per me che a malapena ci credetti. Sospirai lentamente, cercando di calmarmi mentre provavo a sollevarmi nel letto. Dopo diversi tentativi, anche grazie all’aiuto di Stiles, mi ritrovai comodamente seduta.
«Allison è a casa di Derek», furono le prime parole che pronunciai, sistemandomi alla bell’e meglio contro la testiera del letto di Stiles mentre la mia voce assumeva un’inclinazione a dir poco spaventosa. Sembrava smorta. Quel sogno mi aveva letteralmente sfinita. Era stato molto più confuso degli altri e tentare di decifrarlo mi aveva liberata da tutte le mie forze. «Credo che Kate abbia intenzione di cominciare ad allenarla».
«Dannazione!», sbottò Derek, ricordandomi che fosse presente anche lui.
Gli donai uno sguardo stanco, socchiudendo poi gli occhi subito dopo. Avevo sonno e bisogno di stare a letto per dodici ore filate, come minimo. Dovevo riprendermi al più presto, però. Dovevo capire chi diavolo fossi sul serio.
 
It seems what’s left of my human side is slowly changing in me,
looking at my own reflection when suddenly it changes, violently it changes.
There is no turning back now:
you’ve woken up the demon in me
 
Quando il mio cellulare squillò, il pomeriggio seguente, mi chiesi immediatamente chi mai avrebbe potuto essere tra tutte le persone che avevo lasciato ad Austin – e sperai si trattasse di mia madre Jenette. Quando tuttavia individuai il nome di mia sorella Cassandra lampeggiare sul display, mi limitai a fare spallucce e convenni tra me e me di non essere poi così sfortunata. Avevo bisogno di parlare con Jenny, di chiederle ciò che avevo sempre detto di non voler sapere e provare a capirci qualcosa. Lei era l’unico collegamento che avessi coi Carter, l’unica persona che potesse dire di averci avuto a che fare – seppur per poco tempo e non sapevo in che misura. Ma quando Cass mi spiegò che nostra madre fosse come al solito in giro a fare chissà che, capii di dovermi ancora una volta rimboccare le maniche per trovare da sola ciò che stavo cercando.
Rimasi al telefono con Cassandra poco meno di quindici minuti, assimilando con acuto disinteresse la notizia del suo matrimonio. James Irvine, fidanzato storico della mia sorella maggiore, aveva finalmente trovato chissà dove il coraggio di proporsi e lei ovviamente aveva accettato di buon grado. Se solo la mia mente fosse stata un po’ più sgombra da tutti quei fastidiosi problemi che avevano preso a popolarla, sarei stata in grado di rispondere alla sua notizia con una dose di genuina felicità e un pizzico d’invidia, provocata dal mio considerare che bel rapporto avessero Cassandra e il ragazzo che amava da quando ancora erano due primini al liceo. Al contrario, non potei far altro che reagire con una fastidiosa apatia. E mia sorella, che a momenti mi conosceva meglio delle sue tasche, capì subito che non fosse giornata e mi salutò con la promessa di farmi richiamare da Jenette non appena l’avesse rivista.
Fu solo a quel punto che decisi di fare nuovamente visita alla biblioteca di Beacon Hills, ed evitando le continue domande preoccupate di Stiles mi precipitai fuori da casa nostra con una borsa in spalla. Il mese di ottobre si avvicinava sempre di più alla sua fine e il grande freddo invernale iniziava a fare i riscaldamenti. Sospirai, stringendomi maggiormente nel cappotto rosso ciliegia mentre continuavo a camminare in direzione della biblioteca. Distava da casa mia almeno venti minuti a piedi, e tutti sapevano quanto poco mi piacesse “essere in movimento”. Ma sarei stata pronta a tutto pur di scoprire qualcosa di più sulla mia famiglia.
Quando finalmente fui sul posto, l’aria calda emanata dai riscaldamenti altissimi m’inebriò i sensi e fui costretta a liberarmi dei guanti in pelle nera e del cappotto prima di cominciare paradossalmente a soffrire il caldo. Sorrisi lievemente soddisfatta: quella biblioteca riusciva ad instillare dentro me scariche di positività ed era proprio ciò di cui avevo bisogno. Subito, a passo spedito, controllai velocemente la sezione storica ma – proprio da come avevo immaginato – non vi trovai nulla di nuovo. Niente diari in vista. E allora decisi di aver assolutamente bisogno dell’aiuto di qualcuno.
A passo deciso mi mossi verso il banco informazioni all’entrata, facendo tintinnare fastidiosamente le fibbie dei miei stivali in pelle nera ad ogni passo compiuto. Quando arrivai, mi accolse il vuoto. Non c’era nessun addetto lì dietro e per un attimo mi chiesi come avrei fatto. Chi avrei dovuto chiamare? Ma per fortuna, prima ancora che entrassi in panico una tendina di sonaglini tintinnò e da essa comparve la sagoma di un ragazzo che mai avevo visto prima d’allora. Mh, pensai immediatamente, bel tipo.
Deglutii, prendendo poi a fissarlo senza remore. Chiedergli informazioni o meno? Era o no un dipendente della biblioteca? Il fatto che fosse uscito dall’ufficio dietro il banco informazioni avrebbe dovuto darmi la risposta o semplicemente mi avrebbe provocato una figura di merda colossale? Nel dubbio, non feci altro che limitarmi a squadrare la sua figura. Io sì che sapevo come far gioire i miei occhi.
«Ciao», mi salutò allora lui, quasi sicuramente comprendendo il mio momentaneo sgomento. Altrimenti perché sorridermi in quel modo? «Posso aiutarti?».
Scossi la testa, socchiusi gli occhi e mi imposi la calma. Dovevo smetterla di concentrarmi su inutili dettagli come la giacca di pelle che il ragazzo di fronte a me portava poggiata sull’avambraccio o la semplice maglia bianca che indossava, complice di risaltargli un paio di braccia davvero niente male. Okay, Harry. Time out.
«Se lavori qui, sì», gli feci notare non appena ne fui in grado, dando ascolto finalmente alla saggia voce che dentro di me m’intimava di non perdere più tempo.
«Tecnicamente, il mio turno è appena finito», snocciolò, sorridendo ancora mentre io già mi preparavo a cercare qualche altro addetto. Della serie: una distrazione in meno. «Ma non ho fretta di andare a casa. Dimmi pure».
D’istinto mi immobilizzai. Pura quanto disarmante gentilezza, o c’era qualcos’altro sotto? Lavorare di più per aiutare me? Automaticamente le mie difese si sollevarono ma intimai loro di non esagerare. Non volevo chiudermi nel solito bozzolo da ragazzina diffidente che stavo diventando, non prima di aver analizzato bene la situazione.
«Sto cercando i diari di un mio antenato», esalai dunque, mantenendo un tono di voce piuttosto rilassato. «Il suo nome è Charles Shelby Carter. Mi domandavo se li aveste».
Prima ancora che potessi chiedergli di fare qualche ricerca veloce e ringraziarlo, gli occhi del ragazzo di fronte a me si sgranarono, e per un attimo me ne rimasi fossilizzata a fissare le sue iridi ambrate. Wow. Poi lui avanzò nella mia direzione, posando la giacca in pelle chissà dove e le mani a palmi aperti sul bancone in legno chiaro che ci separava. Trattenni a malapena l’impulso di indietreggiare.
«Come hai detto che ti chiami?», mi domandò, con un’aria a dir poco spiritata.
«N-Non l’ho detto».
Forse fu il mio balbettare a suggerirgli qualcosa, non lo so, fatto sta che sembrò tranquillizzarsi appena e mosse un passo indietro. Mi chiesi cosa avrebbe fatto a quel punto ed ebbi la mia risposta nel momento in cui superò il bancone per posizionarsi di fronte a me. Mi tese una mano, che strinsi senza troppa convinzione.
«Walter Edwards», mormorò, obbligandomi a fare le dovute presentazioni.
«Harriet Carter», snocciolai, vagamente sconfitta.
I suoi occhi si illuminarono ancora e mi rivolse un grande sorriso. Mi chiesi perché all’improvviso fosse così felice e combattei contro me stessa in modo da evitare che le sopracciglia svettassero verso l’alto. Sarebbe stato piuttosto rude prendere a guardarlo come se fosse un fenomeno da baraccone.
«Ho sempre voluto conoscerti», furono le nuove parole che mi sentii rivolgere, mentre un brivido di paura mi faceva accapponare la pelle. Cosa diavolo stava dicendo? «Sapevo che saresti tornata ma non pensavo sarebbe successo proprio oggi. Non ho avuto nessuna visione su di te. Ma sei vagamente come ti immaginavo!».
A quel punto, qualcosa dentro di me scattò. Indietreggiai, piena di domande e vagamente all’erta. Chi era davvero quel ragazzo sconosciuto? E soprattutto, perché sentivo che non lo fosse affatto?
«Come hai detto che ti chiami?», pigolai allora, formulando la domanda che poco tempo prima lui stesso aveva rivolto a me.
«Non sono esattamente un Carter, se è questo ciò che vuoi sapere», mi rassicurò Walter, sorridendo ancora. «In famiglia è mia madre a portare questo cognome. Io ho preso quello di mio padre».
Mia madre. Riflettei sul senso di quelle parole. Sua madre chi era? Una Carter, sì okay, ma chi? Che grado di parentela ci legava? E quel ragazzo stava sul serio dicendo la verità? Avrei dovuto fidarmi? Ma a che pro mentire?
«Sei mia cugina, Harriet», continuò all’improvviso, facendomi sobbalzare.
Ecco svelato l’arcano.
«Non ci credo», sbottai, senza nemmeno pensarci su.
«Te lo giuro! Sei la figlia di Philip, fratello di mia madre. Hai una sorella più grande di te e vivi in Texas. Ti trovi qui a Beacon Hills perché gli Stilinski hanno deciso di ospitarti in casa loro», cercò di giustificarsi, ma non mi convinse affatto perché chiunque avrebbe potuto essere a conoscenza di quelle informazioni. Capendo, andò sul pesante. «Sei una chiaroveggente. Come me».
Boom. Colpita e affondata.
 
I can see inside you: the sickness is rising.
Don’t try to deny what you feel,
it seems that all that was good has died
and is decaying in me
 
«Devi essere piuttosto scossa. Mi dispiace».
Sollevai gli occhi dal liquido ambrato nella tazza di ceramica che reggevo con entrambe le mani per evitare che cadesse sul pavimento, rompendosi. Non sarebbe stato bello né educato, e inoltre trovavo di gran lunga più interessante il tremolare del tè nella tazza piuttosto che i visi delle persone di fronte a me.
Ero a casa Edwards. A casa di Walter. A casa di “mio cugino” Walter. Chiedermi come ci fossi finita sarebbe stato inutile. Non ce l’avevo una risposta, né una spiegazione, motivo che mi aveva spinta ad ignorare i continui messaggi di Stiles e le sue chiamate. Cos’avrei potuto dirgli? “Ehi, tranquillo, è arrivato il momento che io conosca la famiglia Carter”? Direi che non avrebbe funzionato e inoltre, avrei fatto venire un colpo anche a lui.
«Cercavo nient’altro che una lettura interessante e invece eccomi qua, riunita a dei parenti dei quali nemmeno sapevo l’esistenza», osservai con sarcasmo dopo minuti, quando già la donna dai corti capelli dorati seduta di fronte a me – mia zia – sembrava aver perso ogni speranza in una mia possibile risposta.
Maila Carter aveva quarantotto anni, una sorella gemella e due figli. Uno di questi era Walter, che di anni ne aveva ventidue e possedeva – al contrario mio – una sorella minore di nome Natalie. Quel giorno non ebbi occasione di conoscere anche lei, ma incontrai per la prima volta in vita mia il signor Edwards e un’altra cugina: Oriesta Osbourne, ventidue anni e legatissima a Walter, da quanto avevo potuto capire. Figlia di Erin Carter, sorella gemella di Maila. Mio padre Philip aveva una famiglia piuttosto grande e lo capii solo quel pomeriggio di ottobre, all’alba dei miei sedici anni. Quante persone non avevo avuto la possibilità di conoscere a causa della separazione dei miei? Troppe.
«Oh, giusto. Cosa ti ha spinta a cercare i diari del tuo bisnonno?», mi domandò mio zio Roman, padre di Walter e Natalie.
Era un bell’uomo sulla quarantina, con indomabili capelli castani e occhi scuri. Aveva qualcosa che mi ricordava profondamente suo figlio, ma non avrei saputo dire cosa. Distogliendo lo sguardo dal suo viso per un attimo mi concentrai nuovamente sul tè: ne presi un sorso, godendomi il sapore dolciastro del limone mescolato allo zucchero nella speranza che riuscisse a calmarmi almeno un po’. Fortunatamente, le mie preghiere furono accolte e un vago senso di pace arrivò a fare di me la sua preda.
«Una semplice coincidenza», mormorai dunque, visibilmente più tranquilla.
Poi abbandonai la tazza vuota per metà sul tavolino da caffè di fronte a me, attenta a non farla tintinnare troppo contro il costoso vetro che faceva da base. Tutto nella casa degli Edwards sembrava uscito da una rivista d’arredamento di quelli costosi: era tutto raffinato e chic e per quanto non fossi cresciuta in cattive condizioni, non potei fare a meno di sentirmi fuori luogo. Tutto quel lusso non faceva per me.
«La mia professoressa di storia ci ha assegnato una relazione sulla storia delle nostre famiglie e a me è toccato mettermi a… indagare», continuai a spiegare, rivolgendo a mio zio Roman un nuovo sguardo. «Mia madre non mi ha mai parlato di voi».
Lui se ne stava comodamente appollaiato sul bracciolo della poltrona in tessuto rosso che occupava sua moglie Maila: aveva atteso con una ben celata trepidazione la mia risposta, senza mai scollarmi gli occhi attenti di dosso. Walter, invece, se ne stava seduto di fianco a me sul divano a due posti situato esattamente di fronte alla poltrona dei suoi genitori, mentre Oriesta ciondolava di qua e di là, prestando poca attenzione alle mie parole e ben più agli spuntini che riusciva a racimolare viaggiando tra la cucina e il salotto.
«Be’, immagino fosse risentita», prese parola mia zia, parlando con un tono di voce tranquillo e posato. «Non ce l’abbiamo con lei. L’errore è stato compiuto da entrambe le parti. Avremmo potuto cercarti, e invece sono passati sedici anni».
«Avrebbe potuto cercarmi anche mio padre», feci notare, indurendo la voce. Era vero. Avrebbe potuto. «Ma non l’ha fatto, né mai lo farà».
Oriesta rimise piede in salotto giusto in tempo per sentirmi parlare con un astio davvero malcelato di mio padre Philip, o per meglio dire dell’uomo che aveva contribuito alla mia procreazione e che aveva poi deciso di abbandonare mia madre e Cassandra pochi mesi dopo la mia nascita senza nessun apparente motivo. Non appena ebbi finito di parlare il silenzio la fece da padrone nell’enorme stanza nella quale ci trovavamo tutti insieme, ma mia cugina decise ben presto di rimediare e camminò a passo non troppo svelto nella mia direzione. Non mi staccò gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, e anch’io la tenni d’occhio mentre la guardavo accomodarsi in una poltrona accanto al divano che occupavamo io e Walter.
«Meglio che tu non parli troppo presto», mi redarguì una volta seduta, accavallando le gambe coperte da un semplice paio di collant scuri con immensa nonchalance, mentre si rigirava una ciocca di capelli biondicci intorno all’indice. «Fidati: non appena Phil vedrà che ci hai conosciuti, si catapulterà qui per difenderti dai cattivi».
Mi stupì sentirla parlare di “Phil” e non di uno “zio”, ma tenni per me quei dubbi e decisi di concentrarmi su qualcosa di più utile e interessante. Aveva parlato di “vedere” cose, no? Ed io ero bisognosa di conferme.
«Ha poteri anche lui?», chiesi infatti a mia zia Maila, riportando gli occhi scuri sulla sua figura. «E tu? Cioè: voi?».
«Sì, Philip ha poteri. Molto forti, a dire il vero, dal momento che è il prossimo in linea di successione», fu la sua immediata risposta, e presa dal decifrare ciò che mi aveva appena detto quasi non mi resi conto del fatto che avesse ignorato la mia domanda. Per caso non voleva parlarmi dei suoi poteri?, mi chiesi più tardi. «Ma non appena sarai pronta la gran parte dei poteri di tuo padre confluiranno dentro te e potrai portare avanti la dinastia».
«N-Non… non è proprio nei miei programmi. Mi dispiace», decisi di balbettare a quel punto, indietreggiando contro il morbido schienale del divano, desiderando di potermi fondere con esso e scappare da quella complicata situazione.
Io a capo di una famiglia di chiaroveggenti? Anche no. E poi: per fare cosa? Di che si occupava la gente come noi?
«Lo sarà, fidati», mi rassicurò Roman, sorridendomi mentre io decidevo bene di ignorarlo e mi voltavo a cercare lo sguardo di mio cugino.
«Tu hai poteri?».
«Sì. Anche Oriesta ne ha», rispose lui con un sorriso, che notai essere precisamente uguale a quello di Roman. Ecco cosa li accomunava! «Così come ne hanno mia sorella Natalie e Niall».
Niall era il fratello minore di Oriesta, aveva un anno più di me e non era presente a quella stramba riunione di famiglia. Non che avessi poi così tanta voglia di conoscerlo – meglio fare le cose con calma – ma nel profondo sentivo che qualcosa non quadrasse. Cosa mi stavano nascondendo? Cercai nuovamente gli occhi di mia zia. Lei capì subito cosa intendessi sapere e ancor prima di domandarglielo, mi rispose.
«Io non ho poteri, Harriet. Ma mio padre e la mia gemella sì».
Suo padre era Thomas. “Mio nonno” Thomas. Il famoso Thomas Carter, secondogenito di Charles Shelby. Quello di cui si parlava in internet, capace di predire l’avvenimento di ben tre fatti storici a soli dieci anni. Incredibile.
Fu proprio pensando a lui che mi resi conto nella grossa falla in tutto ciò che Roman, Maila, Walter e Oriesta mi avevano raccontato fino ad allora. Thomas era un secondogenito e sapevo che solo loro potessero ricevere poteri di chiaroveggenza, dunque com’era possibile che anche Walter, Oriesta e la gemella di Maila ne fossero provvisti?
«Aspettate. Che ne è della teoria secondo la quale solo i secondogeniti ereditano questa croce?», domandai dunque con parecchia foga.
La paura che mi stessero mentendo, ancora, era così forte da farmi tremare le ginocchia.
«Non è corretta. Molte delle cose che sai non lo sono. Ma non tocca a noi spiegarti tutto», furono le uniche parole che mi rivolse Walter, provando inutilmente a tranquillizzarmi.
«E allora a chi?».
«A nonno Thomas, mi sembra ovvio».
Oriesta si mise in piedi, alzando gli occhi al cielo forse per la stupidità della mia ultima domanda mentre si sistemava la gonna nera lungo i fianchi. Recuperò una borsetta del medesimo colore dal pavimento e poi restò immobile nei pressi del divano che ancora occupavamo io e Walter. Cosa succede adesso? Non potei fare a meno di chiedermelo.
«Walt può darti un passaggio», mi informò Maila, alzandosi in piedi mentre si scompigliava annoiata i corti capelli biondi. «A tuo nonno farà piacere conoscerti».
Era già tutto scritto e programmato: nessuno si preoccupò nemmeno un attimo di cosa avrei voluto o potuto fare io, di quanto fossi scossa dall’averli conosciuti tutti insieme e preferissi evitare altri spiacevoli incontri. Avrei potuto rifiutarmi, questo è vero, ma la verità è che non lo feci perché in fondo ci tenevo a conoscere mio nonno. Era l’unica persona sulla quale potessi contare per ottenere tutte le risposte che meritavo, e in quel momento mi resi conto di non desiderare altro.  
Seguendo le orme di sua cugina e sua madre, Walter si mise in piedi battendo i palmi delle mani sui jeans ed io lo seguii a ruota, indossando velocemente il cappotto rosso che avevo tolto per poter essere più comoda e recuperando la mia borsetta in pelle. Ci avviammo insieme verso l’ingresso della mansione Edwards e zio Roman ci raggiunse quando ormai eravamo arrivati alla porta.
«È stato bello averti qui. Torna pure quando e quanto vuoi», mi disse, donandomi l’ennesimo sorriso di quel pomeriggio.
«Mi casa es tu casa, no?», aggiunse Oriesta, con un finto accento spagnolo che mi provocò una sonora risata.
Già sapevo che l’avrei adorata.
«Questa non è casa tua, Ori», la rimbeccò Walter, avvicinandosi a lei quanto bastava per scompigliarle i capelli.
«Sì ma il messaggio è quello», borbottò lei in risposta, mentre io mi godevo il loro teatrino, divertita. Non avevo più dubbi: erano legatissimi. «Ti inviterò anche da me, Harry. Devi conoscere i miei, e quella bestiolina di mio fratello Niall!».
«Senz’altro», la rassicurai, annuendo poco prima di abbandonare casa Edwards insieme a mio cugino.
In fondo, com’è che si dice? “Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno”. 
 
It seems you’re having some trouble in dealing with these changes,
living with these changes.
The world is a scary place now that
you’ve woken up the demon in me
 
«Come ti senti?».
Ero stufa di domande del genere: me ne resi conto sul serio solo in quel momento. Ero stanca della quasi falsa preoccupazione di tutti nei miei confronti: nessuno dei Carter che avessi incontrato poteva davvero capire come mi sentissi, dunque perché continuare a chiedere e mostrarsi interessati?
«Confusa», mi limitai a dire allora, facendo spallucce mentre donavo un ennesimo sguardo nella direzione di mio nonno.
Thomas Carter era un bell’uomo dai capelli d’argento e gli occhi azzurri. Era ricco e pieno di sé: era sicuramente piuttosto anziano ma non dimostrava affatto tutti gli anni che aveva. Casa sua era una magione di gran lunga più grande di quella degli Edwards: signore con completi neri da domestica passeggiavano lungo i corridoi spogli e scuri, preoccupandosi di tanto in tanto di chiedermi se mi andasse di mangiare o bere qualcosa.
«Lo immagino», fu la risposta di “mio nonno”, e lo osservai attentamente mentre infilava entrambe le mani nelle tasche del pantalone in raso grigio. «Walt ti ha portata qui perché potessi darti tutte le risposte che meriti. Quindi domanda e ti sarà detto».
Se avessi sul serio dovuto chiedere tutto ciò che avevo intenzione di scoprire – sulla mia famiglia e non – una giornata di trentasei ore non mi sarebbe bastata. Scrollai ancora le spalle, decidendo di limitarmi alle cose più importanti mentre scacciavo via dalla mente la prima immagine che mi era stata donata di Thomas Carter: lui, in piedi sulla soglia della sua casa, che mi salutava con un: «Ciao, nipotina» accompagnato da un sorriso vagamente arrogante.
«Non sono qui a Beacon Hills per puro caso, vero?».
«No. Sospetto te ne fossi resa conto già da un po’».
Certo che me n’ero resa conto. Non ero stupida e sembravano averlo capito tutti, per fortuna. Annuii nella sua direzione, mentre Walter – seduto accanto a me – tratteneva il respiro per un attimo. Prima di rispondere a mio nonno mi voltai a cercare il suo sguardo, riservandogli un sorriso che lui ricambiò subito. Lo conoscevo né più né meno degli altri Carter ma riuscivo a fidarmi di lui come di nessuno: sapevo che c’entrasse poco e niente con tutta quella situazione.
«Non c’ho mai voluto credere sul serio. Nemmeno dopo aver letto la storia di tuo padre su internet», snocciolai, ritornando a fronteggiare Thomas con un tono di voce privo d’incrinature. «Quando mi hanno presa per l’intercultura mi sono sentita fortunata. Avrebbero potuto scegliere chiunque e invece qualcosa ha spinto Stephen e Stiles nella mia direzione. Mi sono sentita speciale. Che stupida».
Distolsi lo sguardo dal suo viso segnato dal tempo, mordendomi un labbro. Il mio intento di mostrarmi nient’affatto sconvolta stava fallendo miseramente e me ne resi conto sul serio nel momento in cui gli occhi mi si riempirono di lacrime per l’ennesima volta in quella giornata. Ripensare ai miei primi tempi a Beacon Hills era più che doloroso: mi trovavo lì da meno di tre mesi, eppure sembravano già passati secoli.
«Lo sei, Harriet. Gli Stilinski ti hanno scelta di loro spontanea volontà. Ma quello fortunato sono stato io», mi rassicurò mio nonno, sorridendomi beffardo mentre prendeva posto a tavola di fronte a me e Walter. «Non so cosa li abbia spinti ad ospitare proprio te. Siamo sicuri che non abbiano qualche sorta di potere anche loro? Magari sentivano qualcosa: sapevano quanto importante saresti diventata. Non lo so. Fatto sta che hanno evitato il mio ricorrere a metodi poco piacevoli per portarti qui».
Aggrottai le sopracciglia. Dunque né Stephen né Stiles erano in combutta coi miei parenti? Non avevano collaborato con loro di modo da riportarmi a Beacon Hills con la scusa dell’intercultura? Feci per sorridere ma la mia smorfia felice non raggiunse il volto. Avevo davvero dubitato di loro? Mi fidavo così poco? Be’, non l’avrei fatto di nuovo. Poco importavano le insinuazioni di Thomas.
«Perché qui? Perché io?», domandai dunque, ignorandole.
«Per ciò che sei. Per ciò che è questo posto. Sei una Carter, e i Carter appartengono a Beacon Hills fin dal 1919. Questa è casa tua».
«Casa mia è Austin. E sappiamo bene entrambi che c’è qualcosa di molto più importante sotto. Nessuno è davvero interessato a familiarizzare con me e regalarmi il suo amore. Avete bisogno di me a Beacon Hills. Perché?».
Thomas sospirò, annuendo. Ero troppo intelligente perché potesse intenerirmi con tutti quei discorsi sull’importanza della famiglia e altre cazzate simili. Se davvero i Carter avessero tenuto a me mi avrebbero cercata molto tempo prima, ma non l’avevano fatto. Avevano lasciato che crescessi in Texas con Jenette e Cassandra – e badate, non avevo intenzione di prendere a lamentarmi della cosa, anzi – ricordandosi di me solo all’alba dei miei sedici anni. Coincidenza? Anche no.
«Successione. Scommetto che qualcuno degli Edwards te ne avrà già parlato. I nostri poteri di chiaroveggenza si tramandano di generazione in generazione di modo che col tempo diventino sempre più forti, senza esaurirsi. Tu e i tuoi cugini avete più potenzialità di me e dei miei figli: siete giovani. E tocca a voi portare avanti la famiglia. Più precisamente, a te».
A me? Perché a me? A rigor di logica la linea di successione avrebbe dovuto essere più o meno così: Charles, il mio bisnonno; Thomas, il suo secondogenito; mio padre Philip – anch’egli secondogenito; e poi io. Ma di Phil Carter a capo della famiglia non c’era l’ombra, e gli Edwards avevano negato la veridicità dei poteri posseduti solo dai secondogeniti, quindi tecnicamente anche qualcuno che non lo era avrebbe potuto prendere il potere dell’intera famiglia nelle sue mani.
Quindi: «Perché io?», chiesi, confusa. «Perché non mio padre o chiunque altro?».
«Tuo padre ha rinunciato da tempo ai suoi diritti sulla famiglia. Quando è giunta la sua ora di prendere il comando non ha fatto altro che scappare come un codardo, lasciandoci nei guai. Non lo perdonerò mai per questo, proprio come non perdonerei mai te se rinunciassi a portare avanti la dinastia. Come ha fatto Philip».
«Perché l’ha fatto?», domandai, ignorando come al solito quelle parti di discorso da me reputate troppo spinose per essere affrontate in quell’esatto momento.
«Era giovane e spaventato. Non si è mai sentito all’altezza dei suoi poteri, né di questa famiglia. Immagino fosse nel giusto», spiegò subito Thomas, gesticolando proprio come facevo sempre io.
Come dubitare ancora del nostro legame di sangue? Sarebbe stato impossibile.
«E credi che io sia all’altezza, invece?».
«Non lo so. Ma con un po’ di impegno potresti diventarlo. Ti aiuteremmo tutti insieme ad allenare i tuoi poteri ed accettarli. Ma non devi scappare, Harriet».
Non dovevo scappare. Certo che no. Lo sapevo anche senza che me lo dicesse, e glielo feci notare con un’occhiataccia.
«Io non sono mio padre», aggiunsi poi, quasi sputando veleno.
Odiavo che la mia immagine fosse accostata alla sua: a quella di un codardo che nemmeno conoscevo, incapace da sempre di farsi carico dei suoi doveri. Io e Philip Carter condividevamo solo sangue e patrimonio genetico, ed era già molto di più di quanto potessi sopportare. 
«Lo so benissimo», mi appoggiò mio nonno, sorridendo, forse vagamente divertito dal mio bel caratterino.
«Ma provo le sue stesse paure. E sono molto giovane».
Era vero. Come negarlo? Come prenderli in giro? Avevo soli sedici anni e nessuna idea di ciò che mi aspettava. Gli unici contatti che avessi avuto coi miei mirabolanti poteri da chiaroveggente erano stati scarsi e del tutto innaturali. Non sapevo niente di cosa ci fosse sul serio dentro di me: non avevo avuto modo di conviverci per tutta la vita come i miei cugini né di abituarmici. E ancora una volta mi chiesi perché io? Perché non Walt: il più grande? Il più affidabile?
«Come volete che mi comporti?», continuai ancora, sollevando lo sguardo dalle mie mani intrecciate mentre mi rivolgevo a nessuno in particolare.
«Come una normale teenager».
«Con qualcosa di speciale», osservò a quel punto mio cugino, evadendo finalmente dal silenzio nel quale s’era rinchiuso per tutto quel tempo.
Mi sorrise anche e a me venne spontaneo ricambiarlo, vagamente rilassata. Poi Thomas riprese a parlare ed io cercai il suo sguardo azzurro, donandogli di nuovo la mia più completa attenzione.
«Tu non hai idea delle cose che potresti fare con la giusta pratica. La chiaroveggenza è da sempre dentro noi Carter e non è legata ai sogni come credi. Quella è la fase iniziale, l’incipit, causato dal passato di mio padre. Ma possiamo fare molto di più. Addirittura leggere i pensieri della gente, se ci impegniamo. Hai idea di quanto ti renderebbe forte una cosa del genere?».
Leggere i pensieri? Sgranai gli occhi, immobilizzandomi. Loro… potevano farlo? Avevano sentito chiaramente tutto ciò che mi era passato per la mente? Quando sia Thomas che Walter annuirono in sincrono, aprendosi in un sorriso, mi sentii sbiancare. Merda. Merda, merda, merda. Quella era violazione della privacy. Altroché.
«Non ho bisogno di essere forte», soffiai a quel punto, evitando di mettere su scenate inutili ed ignorando come al solito l’ennesimo argomento spinoso della giornata.
«A Beacon Hills? Ne avrai bisogno eccome, bambina», mi fece notare mio nonno, sicuro di sé forse fin troppo. «Non hai la minima idea di ciò che ti aspetta dietro l’angolo. E se vuoi essere in grado di proteggere le persone a cui vuoi bene, faresti meglio a darmi ascolto».
«Non resterò qui per sempre».
Ed era vero. In quel momento, forse per una delle prime volte da quand’ero arrivata lì, mi ritrovai addirittura a pensare per fortuna. Infatti, non vedevo l’ora di tornare in Texas.
«Credo che invece faresti meglio a considerare quest’opportunità».
«D’accordo, un passo alla volta», sospirai, sconfitta, guadagnandomi un sorriso da parte di Thomas. «Voglio che mi spieghi esattamente come funziona. Sono debole. Non a livello di premonizioni, intendo proprio fisicamente. È una cosa che non sopporto. Svengo di continuo e non riesco a controllare i miei sogni, né a capire quando sto per averne uno. Sono tutti diversi e alcuni così confusi che decifrarli è come provare a completare un rebus. Una volta mi è capitato addirittura di dimenticare un giorno intero. È pericoloso, e non voglio rischiare».
Ero davvero pronta ad imbarcarmi in una storia del genere? Be’, mi dissi, volente o nolente lo sarei stata. Se anche solo la metà delle cose che mio nonno mi aveva detto erano vere, avrei senz’altro fatto meglio ad acquistare un po’ di forza in più. D’altronde, cos’avevo da perdere?
Tuttavia volevo mettere in chiaro fin da subito le condizioni di quell’alleanza. E Thomas non si dimostrò in disaccordo.
«È per questo che ti stiamo offrendo tutto il nostro aiuto, Harriet», mi rassicurò infatti, tranquillo. «Siamo qui per te, tutti. Potrai allenarti quanto vuoi: con me, Walt, Niall, le tue zie o Oriesta. Con chi ti pare, dove e quando ti pare. Vuoi riuscire ad avere tutto sotto controllo, no?».
Sì. Lo volevo. Proprio come volevo capire bene cosa diavolo mi stesse succedendo, leggere i diari di Charles Carter, conoscere mio padre ed evitare altri svenimenti in pubblico. Quelli sarebbe stato un po’ difficile spiegarli. Annuii, poi ripetei a mio nonno ciò che di sicuro aveva già sentito leggendo i miei pensieri.
«Voglio che mi parli di Philip».
«Se è questo ciò che vuoi, lo farò. Tutto ciò che vuoi, Harriet».  
Perfetto.
 
Quando finalmente raggiunsi casa Stilinski quella sera, erano oramai le dieci e mezzo. Le strade di Beacon Hills erano buie, deserte e spaventose e come se non bastasse faceva così freddo che non riuscivo proprio a smettere di tremare, nonostante il cappotto e i guanti. Incapace di fermare il movimento delle mie dita intorpidite, cercai d’infilare le chiavi di casa nella porta d’ingresso e dopo vari tentativi, le feci ruotare nella toppa e mi ritrovai all’interno.
Il cambio repentino di temperatura mi colpì immediatamente, proprio come mi era successo quello stesso pomeriggio in biblioteca, lasciandomi lievemente intontita. Mi liberai dai capelli lunghi che un vento dispettoso mi aveva spinto davanti agli occhi e cercai immediatamente l’interruttore della luce per illuminare il corridoio d’ingresso. La casa era buia e silenziosa e subito mi chiesi perché.
Sperai che sia Stephen che Stiles stessero già dormendo mentre senza fare alcun rumore mi liberavo del cappotto, dei guanti e della borsa, lasciando tutto nell’ingresso e avanzando in punta di piedi verso il salotto – anch’esso completamente buio – ma capii subito di sbagliarmi non appena una fioca luce proveniente dalla cucina mi colpì gli occhi con violenza.
«Harriet! Si può sapere dov’eri finita?».
Merda. Forse non ero stata così silenziosa come credevo, perché ancor prima che superassi il salotto Stiles mi raggiunse. Non appena fui di fronte ai suoi occhi dimostrò la preoccupazione che per tutto il pomeriggio non aveva nascosto e Stephen lo raggiunse subito, scoccandomi un’occhiata che non compresi. Anche lui era preoccupato e questo era chiaro: mi aveva dato conferma della cosa il fatto che verso le dieci mi avesse scritto “Dove sei?”. Io gli avevo risposto con un semplice “Sto tornando a casa” e poi mi ero incamminata. Peccato non fossi molto veloce.
«Ero da Allison. Scusate il ritardo», m’inventai su due piedi, sparendo poi in direzione della mia camera da letto con un finto sorriso a deformarmi il viso.
Stephen come al solito si lasciò bastare quella spiegazione frettolosa e non mi chiese nient’altro, lasciando perdere mentre ritornava in cucina. Stiles, purtroppo, non dimostrò essere del suo stesso avviso e velocemente mi seguì lungo il corridoio buio della zona notte finché non mi ebbe raggiunto.
«Cos’hai?», lo sentii chiedermi, per nulla convinto dalla mia bugia.
«Sto bene», dissi, voltandomi a guardarlo sulla soglia della mia stanza. «Cos’è successo a tuo padre?».
Come non notare il suo malessere? Chiunque se ne sarebbe accorto.
«È un po’ giù», confermò infatti Stiles, facendo spallucce. «Non riesce a trovare Derek e si sente impotente perché non può risolvere il caso. Ovvio, gli mancano interi tasselli del puzzle completo. Io in compenso ho capito cosa vuole l’alpha».
«Vendetta, no?».
«Sì, giusto. Ho capito contro chi». Gli rivolsi uno sguardo d’incitamento affinché continuasse a parlare. E Stiles lo fece. «Tutte le persone che ha ucciso e alle quali ha dato la caccia sono responsabili dell’incendio in casa Hale. Quello che ha sterminato la sua famiglia. Peter sta cercando il principale colpevole».
«Sappiamo chi è?», domandai.
Con un nome sarebbe stato più semplice decidere se la persona in questione meritava o meno di essere aiutata e magari anche salvata.
«Non ancora. Ma lui mi sembra piuttosto vicino a scoprirlo», osservò Stiles, poco prima di ritornare al fulcro principale di tutta la conversazione. «Adesso vuoi dirmi per favore cos’hai? Dove sei stata tutto il giorno? Ero preoccupatissimo».
Sospirai, comprendendo bene che mai avrei potuto evitare di parlargliene. Misi piede nella mia camera, massaggiandomi le spalle doloranti mentre convenivo tra me e me che quella di confidarmi con Stiles era una cosa che volevo profondamente. Dunque, cosa aspettavo?
«Sono tornata in biblioteca», esordii, non prima però di aver cercato nuovamente il suo sguardo. Stiles mi seguì all’interno della camera e mi ascoltò attentamente mentre si chiudeva la porta alle spalle. Io ripresi a parlare. «Ho chiesto ad un addetto dei diari di Charles, e viene fuori che questo tizio è mio cugino. Che voleva conoscermi già da tempo, così come tutti i suoi famigliari. Mi ha portata a casa sua».
La voce mi venne fuori atona e priva di emozioni. Non che non ne avessi da mostrare, ma continuavo da fin troppo tempo a tenerle tutte dentro me e stavo imparando ad essere piuttosto brava nel farlo. Tuttavia, sapevo che prima o poi sarebbero straripate fuori tutte insieme e a me non sarebbe rimasto altro da fare che scoppiare. Se non altro, non sarei stata sola. Stiles era lì con me, come sempre.
«Tu sei pazza», mi fece notare allora, mentre io sbuffavo divertita. «Perché ci sei andata da sola? Avresti potuto chiamarmi ed evitare di affrontare tutto questo…».
«Da sola», completai per lui, prima che ripetesse ancora quelle due paroline fastidiose. Annuii. «Lo so. Ma sentivo il bisogno di farlo».
«Senza di me?». Mi guardò con le sopracciglia alzate. Io aspettai in silenzio che continuasse a parlare. «D’accordo. Però lo sai che ti avrei accompagnata senza nemmeno pensarci su, vero?».
«Sì».
Lo raggiunsi, annuendo. Certo che lo sapevo. E in fondo, era proprio per quel motivo che non gli avevo chiesto di farlo. Avevo bisogno di imparare ad affrontare i problemi da sola, per diventare più forte e capace di proteggere le persone alle quali tenevo. Inutile dire che Stiles fosse la prima di queste.
«Siamo io e te, Harry, hai capito? Sempre», mi fece notare dopo qualche tempo, attirando di nuovo la mia attenzione sul suo viso.
Presa dai miei pensieri com’ero non mi ero accorta minimamente di essere intenta ad avanzare nella sua direzione e fu solo quando rialzai gli occhi sul suo viso che mi ritrovai Stiles irrimediabilmente vicino – così tanto che i nostri corpi addirittura si sfioravano. Avrei seriamente potuto baciarlo, in quel momento. Ma qualcosa come al solito mi trattenne, e mi limitai a tenere gli occhi fissi nei suoi.
«Siamo io e te», ripetei, imitandolo appena mentre m’imponevo di non fissargli più le labbra ed evitare distrazioni di quel genere.
«Ora dimmi: com’è andata? Che gente sono?».
Ed ecco di nuovo tornare la curiosità morbosa. Ecco che mi distoglieva completamente dai miei dolorosi pensieri e mi strappava come al solito un sorriso. Facendo spallucce, indietreggiai e rivolsi uno sguardo disinteressato alla stanza intorno a me. Mi parve di sentire la testa girare, forse come effetto collaterale del trattenere tutto ciò che volevo fare e dire dentro me e capii che l’unica soluzione fosse quella di sfogarsi finalmente del tutto.
«L’unica cosa che so è che sono terrorizzata, Stiles», mormorai allora, abbassando tutte le mie difese mentre sentivo gli occhi già umidi e la voce tremante. «Tutti questi cambiamenti all’improvviso… non so se riuscirò ad affrontarli, e viverci. Che si fa se non ne sono all’altezza? Se non riesco a controllare quello che ho dentro me?».
Non credevo sarei scoppiata a piangere, e invece successe. Proprio come se fosse un’altra delle tante cose sulle quali non riuscivo più ad esercitare controllo in quell’ultima fase della mia vita, lacrime calde sgorgarono dai miei occhi senza che quasi me ne accorgessi, rigandomi le guance e facendomi anche sobbalzare lievemente per la sorpresa. La figura di Stiles di fronte a me divenne subito fastidiosamente offuscata, ma anche se non potevo vederlo bene lo sentii perfettamente mormorare un: «Oh…» vagamente dispiaciuto prima che mi attirasse contro il suo corpo.
«Cosa ti fa credere che non ce la farai?», mi domandò non appena mi fui stretta a lui, con le braccia intorno al suo petto mentre cercavo di fermare lacrime e singhiozzi. «Sei una bellissima persona e sei forte, Harry. Da quando sei qui hai sopportato tante di quelle cose… Quello che hai dentro è comunque parte di te e non c’è niente di pericoloso o cattivo da temere. L’unica cosa che devi fare è imparare a conoscerlo. Poi lo sai, io sarò con te ad ogni passo. E credo che d’ora in poi nemmeno la tua famiglia ti lascerà più andare. Una volta conosciuta te, nessuna persona sana di mente lo farebbe».
Piegai le labbra all’insù in quello che avrebbe dovuto essere un abbozzo di sorriso e tirai su col naso, posando il mento sulla spalla di Stiles mentre le lacrime continuavano a scendere giù incontrollate.
«Mio padre lo ha fatto», gli feci notare non appena capii di essere in grado di parlare. «Lui mi ha abbandonata».
«Tuo padre è pazzo».
Bel tentativo, Stiles. Sorrisi appena.
«Non mi conosce nemmeno…».
«È un pazzo che non ti conosce nemmeno».
D’accordo, vittoria a lui. Mi arresi, stremata dalle lacrime e dalla stanchezza di quella pesantissima giornata. Allungai le dita quel tanto che bastava ad asciugarmi il viso alla bell’e meglio e poi mi godetti il silenzio pacifico calato nella stanza. Mancava qualcosa, però, me ne resi conto quasi subito.
«Ti voglio bene, Stiles», sussurrai, in imbarazzo senza nemmeno sapere perché.
Non gli avevo mai detto una cosa del genere da quando lo conoscevo.
«Ti voglio bene anch’io, piccola».
Ecco. A quel punto non mancava più nulla. Ero completa.
 
I don’t need a parachute,
baby, if I’ve got you – baby, if I’ve got you,
I don’t need a parachute.
You’re gonna catch me – you’re gonna catch – if I fall down, down, down.









 
Be', chi l'avrebbe mai detto? Credevo ci avrei messo secoli per scrivere questo capitolo e invece ho fatto relativamente presto, che cosa beeeella. Okay, uhm, passando ad argomenti seri (?), che ne dite? Mi piacerebbe moltissimo sapere cosa ne pensate di questo capitolo perché a giudicare dalle cose che vi sono dentro è uno dei più importanti della storia e anche se io ne sono soddisfatta (non lo nasconderò ahahah) il vostro parere è senz'altro più importante del mio, e ci tengo a conoscerlo.
So che molte domande sono ancora in sospeso ma vi assicuro che col tempo scoprirete più cose e nel frattempo, se qualcosa non è chiaro, potete comunque chiedere a me. A patto che non sia una cosa troppo spoiler vi darò tuuuutte le spiegazioni che vorrete. Sono a vostra più completa disposizione. Poi: innanzitutto tempo fa (?) mi sono iscritta a Spotify per creare playlist delle mie fanfiction e indovinate? C'è anche quella di parachute. Che è quasi vuota e in continuo aggiornamento, ma c'è. Dunque, se volete seguirla vi basterà cercare Helena Kanbara (il mio profilo) o parachute (la playlist). Se invece vi volete semplificare la vita, aggiungetemi su fb e la troverete lì.
Restando sempre in argomento musica: il titolo del capitolo è ripreso vagamente dalla canzone dei Lifehouse - You and me, ed è praticamente il motto (?) degli Starriet. La canzone citata a fine di prima/seconda/terza scena è Down with the sickness dei Disturbed, e la finale è ovviamente Parachute di Cheryl Cole. Non credo di avere altre precisazioni da fare, ma... che ne pensate dei nuovi personaggi? Walt non è un amore? Se siete interessate a conoscerne i prestavolto vi basta aggiungermi su fb e curiosare nell'album Welcome to Beacon Hills. E dello Starriet che mi dite? Vi prego, fatemi sapere. Ahahaha. Non credo di essere mai stata così in ansia per un capitolo che tra l'altro mi piace pure.
Uhm. Okay. Adesso levo le tende. Vi ho angosciate abbastanza con quest'angolo autrice più lungo del capitolo, a momenti. Alla prossima, girlZ. Non dirò che il diciottesimo capitolo arriverà tardi, ma se dovesse succedere, non è colpa mia. Per come l'ho plottato io l'angst (?) si taglierà a fette e potrei avere problemi a scrivere. Scusatemi. Nel frattempo godetevi questo, no? Alla prossima,
hell
   
 
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