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Autore: Jultine    30/06/2014    4 recensioni
In realtà non sento nulla, il mio corpo è muto. Tremo. E stringo il fucile.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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INFERNO

 

Sono rimasta da sola, al buio di una baracca qualsiasi, in questa terra rossastra che ormai non appartiene a nessuno. Non riesco a staccare gli occhi dal pavimento e tremo di adrenalina, osservando incantata i nastri di sangue che si allungano dal suo cranio.

Non fa ancora molto freddo poiché la notte tarda ad arrivare, incastrata nel crepuscolo che filtra molle da una delle assi schiantate della casupola. Il pulviscolo aleggia leggero nell'aria, immergendomi in una dimensione onirica. A malapena riesco a percepire il mio fiato, e, quando accade, una strana preoccupazione mi prende il petto, facendomi rallentare i battiti cardiaci e appesantendomi il respiro. Credo di non aver paura. Credo di non provare proprio un bel niente, a dire il vero. Ho solo molto, molto sonno. Mi sento le membra pesanti come l'aria di queste quattro mura maledette. Perché lo so, sono maledette. Hanno fuorviato la mia mente, mi hanno fatto impazzire... E mi hanno portato a fare questo.

Lui non si muove; è così bello, pare dormire. L'armatura metallica non ha preservato la sua testa, così fiduciosamente espostami. Io non sono un cecchino, non lo sono. Io...non volevo ucciderlo, volevo solo farlo smettere di soffrire. Il suo equipaggiamento non andava più bene. Glielo avevo detto durante il cammino, e lui aveva risposto che non era grave, che nessuno ci avrebbe attaccati. E' stata colpa mia, è stata colpa mia. Era venuto per me, rintracciandomi tramite la radio che mi portavo dietro. Aveva fatto tutti quei kilometri solo per assicurarmi che stessi bene, per donarmi delle munizioni. Lo avevano seguito, ma come? Come? Lui ch'era tanto accorto...

Dovevo restare con la Compagnia. Lui non era come gli altri. Mi avrebbe aiutata. Mi manca.

Non riesco a piangere, però vorrei tanto riuscire a farlo. La solitudine non mi lascia comprendere come mi sento e non riesco a lasciar esprimere il mio corpo, immobile ma friabile nella sostanza come una statua di sale. Io non sono un cecchino.

Stringo il fucile, ma è freddo. Non è caldo come lo era lui. Il suo sangue è arrivato sino ai miei calzoni stinti, una volta marroni, e sento che il suo piacevole tepore mi è accanto.

La sua anima tuttavia non c'è. Non più. L'ho portata via con quel dannato proiettile, quello che io gli ho conficcato in testa. Chi è stato l'artefice della sua morte? Egli stesso, il nemico oppure... io?

Chi ha deciso affinché lasciasse la landa putrida che ci circonda?

Comincia a far freddo, mentre il suo bel viso sfiorisce nel pallore della vita che ormai l'ha abbandonato. Che sia questa la vera esistenza? Che sia questo il momento in cui un uomo vive? Il momento in cui compie il proprio ciclo e ne completa le stagioni?

L'avevo visto far ritorno poco dopo essermi rifugiata in questo capanno. Respirava velocemente e in modo superficiale, frenetico.

“Ho un polmone maciullato.”, aveva rantolato sorridendo appena. “Permettimi di stare ancora un po' con te, parlami di quello che hai fatto lontano dalla Compagnia.”

Si era espresso con la tranquilla compostezza di un uomo che ha compreso la morte.

“Non voglio.”, avevo piagnucolato, “Sei forte, riposa un po' e poi parleremo, va bene?”
Mi prendo in giro ancora adesso, mentre abbraccio il fucile e penso che lui si stia ancora riposando.

Mentre il suo petto fischiava, sorrideva serafico e mi osservava.

Adesso mi sento chiudere la gola, mi vien voglia d'annaspare. Sto annegando nelle lacrime che non riescono ad uscirmi dagli occhi. Ripenso a quello che ho fatto e mi sento piccola piccola nell'immenso mistero dell'esistenza. Nell'infinita spianata di terra di fuoco che mi macchia i vestiti e che si estende fino a che il mio sguardo si perde. Sono angosciata, riavvolgo i minuti.

“Vado a prenderti da bere. Nell'altra stanza. Vado. Arrivo subito, okay?”

Respiravo a malapena, senza farmi sentire. Imbracciavo il fucile, prendevo la mira. Vedevo la sua testa bruna oscillare piano. Facevo fuoco.

L'avevo privato dell'elemento che avrebbe completato la sua vita, cioè l'agonia. L'incontro con la morte, l'onore di ogni anima stanca e sofferente.

Io non sono un cecchino. Non lo sono, è stato un colpo fortuito, ho avuto culo. Non volevo centrarlo. L'ho fatto per lui. E dovrò farlo ancora, molte volte, fino a che Qualcuno non deciderà che è l'ora di smetterla. Ho paura di addormentarmi, perché domani dovrò farlo di nuovo.

“Lucien?”, lo chiamo con un fil di voce, tremando. “Non farti sparare, domattina.”

Mi sollevo da terra, osservando il sangue del mio compagno gocciolarmi dai pantaloni ormai pesanti, imbibiti dall'umore scuro. Prendo il gessetto bianco che si consuma ogni giorno di meno, e faccio un altro segno sulle assi scheggiate della catapecchia. Mi fermo a contarli tutti, come ogni sera. Uno, due, tre, quattro, cinque. A voce piatta e cantilenante.

Domani lo ucciderò per la novecentomilacinquecentoquarantanovesima volta.

 

JULTINE

   
 
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