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Autore: emotjon    01/07/2014    6 recensioni
Piccola raccolta di one shot.
Racconti brevi della vita di Niall ed Eileen.
Dai cereali al miele, agli anelli di diamante.
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- "Cereali nel latte e altalene che cigolano"
- "Cartoni animati e compiti mai finiti"
- "Mascara colato, magliette bianche e primi baci"
- "Fiocchi di seta rosa"
- "Rose rosse e anelli di diamante"
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Cereali nel latte e altalene che cigolano.


 
 
Curiosità
[cu-rio-si-tà]
s. f. inv.
1. desiderio di sapere per amore di conoscenza o, più spesso, per interesse superficiale, spec. indiscreto e pettegolo: avere c. di vedere, di conoscere di imparare; una c. giustificata, legittima, riprovevole, pettegola; destare, muovere, stuzzicare la c. di qualcuno; soddisfare la c. di qualcuno; fare qualcosa per c., per pura c.; togliersi una c.
 

Siamo stati tutti bambini. Non importa che lo ricordiamo o meno, ma tutti – chi più chi meno – abbiamo sgranato gli occhi e proteso le braccia paffute verso l’oggetto vittima della nostra brama. Abbiamo tutti imparato a ridere, o a riconoscere i colori. O ci siamo stupiti di fronte al mare, o alla potenza straordinaria dei lampi durante un temporale. Abbiamo provato a toccare il fuoco sulla punta di una candela, scottandoci e piangendo. O abbiamo riso allo scoppio naturale delle bolle di sapone.
 Meraviglia, curiosità. Sono le caratteristiche principali di ogni bambino o bambina sulla faccia della Terra. Da quando un bambino nasce, e per tutta la propria infanzia, lui o lei sviluppa a poco a poco le caratteristiche che lo faranno crescere.
Meraviglia e curiosità comprese.
Curiosità è quando cerchi di prendere la coda del gatto, o quando vorresti infilare le dita in qualsiasi buco per cercare di capire a cosa serva. Curiosità è la prima volta che vedi qualcosa e non faresti altro se non chiedere cosa sia, da dove venga, come funzioni e chissà cos’altro.
La curiosità di sposa bene coi perché, a quanto pare.
In particolare, la curiosità sembrava essere il passatempo preferito per una bambina nello specifico, in un paesino del quale non si ricordava nessuno che non ci fosse già stato, nel cuore della campagna irlandese. Era un piccolo centro cittadino come tutti gli altri, con tante casette a schiera tutte apparentemente identiche, coi giardinetti curati e i tetti spioventi. Una staccionata di legno bianco – un po’ da film – a dividere ogni casa da quella subito successiva. Magari un cane, il vialetto cosparso di sassolini beige, e gli gnomi da giardino senza più traccia alcuna di Biancaneve.
Il nastro di seta verdemare legato al polso della bambina si muoveva ininterrotto col vento, mentre saltellava per il vialetto, avanti e indietro, in attesa che la madre recuperasse l’attrezzatura fotografica e uscisse. Lo facevano un paio di volte a settimana, come un rito, soprattutto in estate. Svegliarsi presto e andare al parco era uno dei loro momenti preferiti.
La madre fotografava qualsiasi particolare le saltasse agli occhi, più per passatempo che per lavoro, in quel caso. E la piccola passava quelle due ore – in cui non faceva troppo caldo e la luce era perfetta per le foto – dondolandosi sull’altalena, giocando sullo scivolo o componendo coroncine di fiori.
«Eileen, andiamo piccola?», la chiamò la venticinquenne gettando le chiavi nei meandri della borsa, tra un pacchetto di biscotti e uno di salviette per le mani. Interruppe così l’andare avanti e indietro della figlia, proprio mentre i primi raggi del sole correvano a intrecciarsi coi suoi capelli biondo fragola. Più arancioni che altro, col sole.
E “raggio di sole” in effetti era proprio il significato del suo nome. Non datole per caso, ovviamente. Quel piccolo grande uragano di quattro anni era letteralmente il raggio di sole entrato con prepotenza nella vita di quella giovane mamma dal momento in cui era nata, in un pomeriggio nuvoloso di fine maggio. Il suo nome era una piccola presa in giro al cielo grigio piombo che l’aveva vista nascere. Ed era anche un piccolo motivo di orgoglio per la bambina, dato che le piaceva da morire raccontare il perché, di quel nome tanto bello e aggraziato.
Aggraziata, mentre prendeva obbediente la mano della mamma e iniziavano a camminare lungo il marciapiede, dirette verso il parco. I capelli liscissimi della piccola le ondeggiavano sulla schiena ad ogni passo che i suoi piccoli piedi muovevano in avanti. Quasi saltellando. Quasi stesse passeggiando a mezzo metro da terra, nell’aria, portata dal vento.
La giovane donna al suo fianco sorrise, al vederla indicare uno scoiattolo dalla pelliccia a metà tra il rosso e il marrone che si arrampicava correndo su per il tronco di un vecchio albero. Ed Eileen non riuscì a trattenersi dal chiedere cosa fosse, dove stesse andando e perché, con gli occhi del colore del mare sgranati dallo stupore.
E si fermarono perché potesse scattare delle fotografie, con quell’animaletto che teneva una nocciola tra le zampe e la rosicchiava. Un po’ come nei cartoni animati. «Coiattolo», esclamò la bambina mentre la madre scattava, spiegandole cosa fosse e cosa stesse facendo.
«Scoiattolo», la corresse riprendendola per mano e sistemandosi la macchina fotografica al collo. E più si avvicinavano al parco più Eileen diventava impaziente e tirava la madre per la mano, non vedendo l’ora di arrivare e di dondolarsi su quelle altalene che cigolavano un po’. «Piano, terremoto», la richiamò ridacchiando, vedendo quanto fosse intenzionata a staccarle un braccio.
Per quanto le piacesse uscire all’alba per fotografare, e per quanto Eileen fosse senza dubbio uno dei suoi soggetti preferiti, sapeva essere impaziente come poche bambine. Soprattutto, a quell’ora del mattino, la giovane non credeva di avere la forza necessaria per farla stare ferma abbastanza da non perderla per la strada.
Strada deserta. Ma la paura di perderla di vista rimaneva.
In più, nonostante fossero già un paio di mesi che uscivano quelle due volte a settimana, sempre a quell’ora, la bambina continuava ad essere impaziente di arrivare al parco. Sempre come fosse la prima volta. Sempre come se avesse paura che qualcuno le rubasse l’altalena, come se ce ne fosse stata solo una, come se in un certo senso fosse un po’ sua. «Leen, rallenta», riprovò, chiamandola col suo diminutivo preferito. Chiamandola col diminutivo che usava solo il nonno per farla stare buona.
Per tutta risposta lei sbuffò, indicando alla mamma le altalene, col braccino coperto dal leggero cardigan color panna che puntava teso all’oggetto del suo interesse. Erano appena all’entrata del parco, eppure i suoi vispi occhi verdemare riuscivano tranquillamente a vedere il bambino dalla carnagione chiara e i capelli castano chiaro che si dondolava su una delle tre altalene, spinto dolcemente da quella che doveva essere la mamma.
Quella in mezzo.
Quella sulla quale si metteva sempre lei.
«Chi è, mamma?», domandò con calma, dischiudendo appena le labbra, tanto quanto bastava a formare una piccola “o”, e continuando ad indicare sorpresa l’altro bambino. Sorpresa, perché era la prima volta che incontravano qualcuno nel parco al sorgere del sole. Ma anche arrabbiata, perché quello sconosciuto che sembrava avere circa la sua età le aveva rubato l’altalena.
«Un bambino con la sua mamma, piccola…».
«Ma… mi ha rubato l’altalena», mugugnò lasciando la mano della mamma e incrociando la braccia al petto. Sapeva essere capricciosa, quando voleva, come qualsiasi altra bambina di quattro anni. «Mamma…». Era sul punto di piangere per una simile sciocchezza, quando la ragazza si inginocchiò alla sua altezza e le spostò una ciocca di capelli dal viso, accennando un sorriso.
«Puoi giocare sullo scivolo, o sull’altalena accanto a lui… non ti ha rubato niente, nemmeno ti conosce, no? Magari è la prima volta che viene qui con la sua mamma e quell’altalena gli piaceva più delle altre due».
La piccola tirò su col naso. «Le altre due cigolano», ammise lasciando che la mamma la prendesse in braccio, lasciandosi poi scappare una risatina mentre la stringeva a sé facendole una piccola pernacchia sul collo. «Posso giocare con lui, forse…», mormorò nascondendo il viso nell’incavo del collo della madre mentre si avvicinavano all’area giochi.
«Certo che puoi, e se ti fa del male mi chiami e io corro da te».
«Okay», esclamò, ritrovando l’allegria e la curiosità di quando poco prima erano uscite di casa, correndo poi verso lo scivolo.
La ragazza scosse la testa con un sorriso, prima di preparare la macchina fotografica e scattare qualche foto, allontanandosi appena dalla figlia, ma a portata di orecchio, tanto da sentirla ridere mentre scivolava coi capelli che le svolazzavano tutto intorno. O tanto da sentirla canticchiare mentre inseguiva qualcosa, forse una farfalla, o una coccinella.
Ed Eileen stava raccogliendo una manciata di margherite per farne una coroncina, quando si accorse che il bambino era sceso dall’altalena e le stava poco lontano, mordicchiandosi un’unghia, come se fosse terrorizzato da lei, come non avesse il coraggio necessario per avvicinarsi.
E dire che all’inizio era stata lei ad avere paura di lui, quando lo aveva visto sulla sua altalena. In fondo, forse non c’era nulla di cui avere paura. Di sicuro, mentre la guardava spaesato non faceva paura, per niente. Né le facevano paura i capelli castani scompigliati dal vento, o la fronte corrucciata mentre cercava di dire qualcosa, qualsiasi cosa.
«Ciao», lo precedette lei con un sorriso allegro e luminoso quanto il sole, facendogli finalmente spostare lo sguardo dalle sue scarpe ai propri occhi.
Occhi appena sgranati, che fecero sgranare i suoi di rimando. Erano celesti. Forse color mare. Forse troppo azzurri per capirlo. E si guardarono, azzurro nel verdemare, senza che lui riuscisse a rispondere al saluto di quella bambina che gli sembrava essere una principessa, come di quelle delle favole che gli raccontava sua madre prima di addormentarsi.
«Ciao», riuscì a rispondere lui, più timido che mai. Certo, magari timido lo era sempre, soprattutto con chi non conosceva. Ma era come se lei gli mettesse addosso una soggezione e una timidezza mai provate prima. La guardava, mentre i suoi occhi verdi gli sorridevano, e in automatico gli veniva da fidarsi, ma anche da chiederle da dove venisse, cosa ci facesse lì a quell’ora. Magari le avrebbe chiesto perché. Perché se Eileen era curiosa e si sorprendeva per un nonnulla, lui non era da meno. «Come ti chiami?», riuscì ad aggiungere, guardandola sedersi sul prato umido di rugiada a gambe incrociate, come una piccola indiana dai capelli biondo fragola e le lentiggini a sporcarle il viso.
«Eileen, e tu?», gli chiese iniziando a intrecciare le prime due margherite che teneva tra le dita sottili.
«Niall».
«Perché?», ribattè la bionda seguendolo con lo sguardo mentre si sedeva sull’erba davanti a lei e giocava con le dita tra i fili d’erba, verdi sicuramente di più dei suoi occhi. Lo vide storcere il naso, mentre lei continuava a guardarlo più curiosa che altro.
«Mamma dice che significa “campione”… tu perché?», aggiunse dopo un attimo, nel momento in cui scrollando leggermente la testa si rese conto che non poteva né doveva aver paura di lei. Poteva essere curioso nei suoi confronti come lo era con chiunque, perché non c’era da aver paura.
E quando Eileen sorrise Niall automaticamente si sentì arrossire, quasi come se il suo viso stesse prendendo fuoco, senza che riuscisse a capirne il motivo, nemmeno lontanamente. Prese due margherite tra le dita leggermente paffute, abbassando lo sguardo e cercando di tenersi occupato solo per non guardarla in faccia.
Era una paura decisamente diversa. La paura di non piacerle, magari. O la paura di sentire cose che un bambino di quattro anni non conosce. Per una volta, la paura di provare cose nuove sovrastava di gran lunga la curiosità, qualsiasi tipo di curiosità. Era la paura di stare con quella bambina tanto bella e non sentirsi abbastanza, perché lei era tanto splendida da fargli mancare il fiato.
«Significa “raggio di sole”», gli spiegò sorridendo apertamente, mentre lui continuava a guardare in basso, con le dita che torturavano gli steli della margheritine. Uccideva quei poveri fiori pur di non guardarla, oppresso dal terrore, in un certo senso. Sensazioni da adolescenti, nel corpo di un bambino di quattro anni. «Mamma dice che sono nata col cielo grigio, il mio nome è una presa in giro al cielo», aggiunse, spingendo finalmente Niall a guardarla.
C’erano momenti di coraggio, in cui l’avrebbe guardata per sempre. E momenti in cui la paura di fare qualcosa di terribilmente sbagliato vinceva su qualsiasi altra cosa. Momenti in cui le avrebbe voluto chiedere un milione di perché, perché lo incuriosiva; e momenti in avrebbe solo voluto tenere lo sguardo sulle proprie scarpine un po’ consunte dall’uso ma che gli piacevano tanto.
Ecco, lei gli piaceva quasi quanto gli piacevano le scarpe che indossava.
Forse di più, ma ancora non lo sapeva.
Gli piaceva il colore dei suoi capelli, che viravano dal biondo al rosso, al colore delle carote. Lui le carote non le mangiava per principio, ma ora avrebbe avuto una scusa, dato che gli avrebbero ricordato per sempre il colore dei suoi capelli. E gli piaceva il colore tanto strano delle sue iridi, che tendevano all’azzurro ma in realtà erano più verdi che altro.
Gli piacevano le lentiggini che le sporcavano leggermente il naso e gli zigomi. Gli piaceva il colore della sua pelle, tanto chiara da sembrare quasi trasparente, tanto da far intravedere il reticolo azzurrognolo delle arterie, appena sotto la superficie. Ma no, non era pallida come se fosse malata. Era un pallido bello, bello davvero.
Gli piaceva il modo in cui si aggiustava le pieghe della gonna a ruota che indossava, o il modo in cui anche lei abbassava appena lo sguardo quando incrociava i suoi occhi celesti. E gli piaceva il suo naso, che si arricciava quando rideva, o le sue labbra che si schiudevano a formare una “o” quando si sorprendeva per qualcosa, non importava cosa fosse. Importava l’espressione che prendevano le sue labbra, per lui. Importava solo quello.
Gli piaceva la sua espressione concentrata, mentre continuava a intrecciare sapientemente una margherita dopo l’altra, fino a chiudere la coroncina. E parlava, a ruota libera. Forse non aveva mai parlato così tanto con un bambino della sua stessa età. Forse non aveva mai parlato così tanto e basta.
Quella mattina con Niall, Eileen parlò tanto da essere costretta a rimanere senza fiato, quando si sporse verso il bimbo davanti a sé per posargli delicatamente la coroncina finita sul capo.
Quel bambino le piaceva, più di quanto avrebbe potuto pensare.
Le piaceva il modo in cui diventava tutto rosso in viso guardandola, o i suoi capelli che sembravano non avere un senso. Le piacevano i suoi occhi, che le ricordavano il mare anche se lei il mare non l’aveva mai visto. Le piaceva la rughetta che gli si formava tra le sopracciglia non appena distoglieva lo sguardo da lei. Le piaceva… tutto. Forse troppo.
E scoppiò a ridere, davanti alla sua espressione contrariata, perché era davvero troppo carino per non farlo. E perché le fossette non le mostrava a nessuno che non fosse la mamma, o il nonno. La rossa vide l’espressione dell’altro mutare fino a sorriderle di rimando, davanti a quelle fossette in cui avrebbe volentieri infilato una delle sue dita paffute, senza nemmeno il timore di sembrare il più sfacciato dei ragazzini.
Non gli importava, quando si sporse verso di lei per farlo, quel gesto. Quell’infilare un dito nella sua guancia, fino a colmarne il vuoto. Arrossì appena, ma non si fermò, né si allontanò se non quando la vide e la sentì ridere di gusto, rossa in viso quasi quanto lo erano i suoi capelli.
Ma ad Eileen non importava di quel gesto, o forse le importava più di quanto volesse far credere. La cosa veramente importante, però, era che Niall avesse trovato il coraggio di toccarla, dimostrando che non c’era assolutamente nulla di cui spaventarsi, come aveva capito anche lei quando si erano presentati, un paio di ore prima.
«Quanti anni hai?», le chiese all’improvviso il bambino, con gli occhi azzurri che gli brillavano.
Non sapeva perché, né lo capiva. Solo, era curioso, come sempre. Curioso di capire quella bambina, curioso semplicemente di sentire ancora il suono della sua voce. O curioso della sue stesse reazioni, perché era tutta una sorpresa e l’aveva capito dal momento in cui l’aveva vista mettere piede nel parco ed essere presa in braccio dalla mamma per consolarla.
«Quattro». E gli mostrò la mano con le quattro dita sollevate e un piccolo sorriso a riempirle il viso.
«Io quasi cinque», esclamò lui ricambiando il sorriso e mostrandole a sua volta le dita della propria mano, completamente aperta e leggermente più grande di quella della bambina. Ed Eileen non ci mise che qualche secondo, quanto bastava per posare la propria mano su quella di lui e farle combaciare quasi perfettamente.
La mano del maggiore era più grande, e forse la sua pelle era leggermente più scura di quella della bambina. Ma era incredibile come le loro mai combaciassero. Incredibile, come la sottile differenza di temperatura non desse loro fastidio. E incredibile quanto si sentissero bene in quella posizione, semplicemente con due mezzi sorrisi a colorare l’aria, i loro sguardi incrociati e le loro dita che si sfioravano.
Dita che continuarono a sfiorarsi mentre la collisione dell’azzurro nel verdemare si faceva ancora più intensa di quanto non fosse, o mentre Niall si alzava e tirava su anche Eileen, trascinandola ridendo e correndo verso le altalene, sempre con la coroncina che gli aveva fatto lei a decorargli i capelli scompigliati e forse un po’ troppo lunghi.
La bambina aprì la bocca senza sapere che dire, quando lui le lasciò l’altalena al centro, sotto la sguardo divertito delle due mamme. Era l’unica che non cigolava per il peso seppur minimo di un bambino o di una bambina. L’unica altalena con i sostegni di plastica per non far gelare le mani contro la catena di metallo. E l’unica sollevata da terra quanto bastava – né troppo né troppo poco – per dondolare in modo decente e senza fatica.
E Niall le sorrise appena, sedendosi sull’altalena accanto, facendola cigolare mentre iniziava a dondolarsi come fosse la cosa più naturale e facile del mondo. Gli si spense il sorriso solo al vedere le lacrime capricciose di Eileen fare capolino in quegli occhi che gli piacevano tanto.
Lei non si sapeva dondolare.
Non aveva mai imparato, per paura. Se fosse caduta non l’avrebbe potuta raccogliere nessuno, perché se era da sola a spingersi significava che la mamma era lontana, e aveva paura che per quanto avrebbe potuto urlare una volta caduta, nessuno l’avrebbe sentita.
«Non so come…».
«E’ facile, guarda», ribattè il castano senza darle il tempo di finire la frase. Era sul punto di piangere, e lui non voleva che lo facesse. Sapeva che le lacrime significavano dolore. Quando lui piangeva era perché si faceva male, o perché non otteneva quel che voleva, o perché non riusciva a fare o capire qualcosa, proprio come stava accadendo in quel momento a lei.
E le mostrò come muovere le gambe in modo che l’altalena rispondesse ai suoi movimenti. In modo da potersi dondolare, prima piano, poi più veloce, fino a che gli sembrò di toccare il cielo con un dito e di respirare direttamente dalle nuvole.
Mentre dondolava – rallentando di tanto in tanto per paura di cadere – la vide iniziare a muoversi, e vide sua madre fermarsi a pochi metri con un enorme sorriso sul volto, sorpresa e felice che la figlia si fosse fidata di quel bambino che conosceva a malapena.
Risero entrambi, volando sempre più in alto e guardando il cielo riempirsi di nuvolette bianche che somigliavano agli animaletti di peluche coi quali entrambi erano soliti dormire, forse per paura del buio, forse solo per essere meno soli nel letto che sembrava tanto grande quando loro erano tanto piccoli.
«Mamma, guarda! Niall mi ha insegnato a volare!», urlò la bambina, più felice che mai.
Continuarono a ridere fino a non poterne più, fino ad essere costretti a rallentare e dondolarsi piano, con meno impeto. Risero finché la mamma del castano non gli si avvicinò reprimendo l’accenno di uno sbadiglio e passandosi una mano tra i capelli, non senza sorridere. Solo, era ora di tornare a casa. Di fare colazione o di recuperare il sonno perduto.
La trentenne lo vide sbuffare, mentre scendeva dall’altalena con un saltello, sotto lo sguardo un po’ deluso della bambina. Lei non voleva che lui se ne andasse. Lui, del resto, non voleva andarsene. Sarebbe voluto rimanere lì in eterno, a giocare e ridere e parlare e scherzare con lei. Sarebbe voluto restare nonostante sapesse che la mamma doveva lavorare, nel pomeriggio. Sarebbe voluto restare nonostante avesse tanta fame da riuscire a mangiare per tre.
«Andiamo, campione… sei grande per fare tutte queste storie», gli disse la mamma inarcando appena un sopracciglio e sistemandosi la borsa sulla spalla. E per quanto adorasse vedere suo figlio giocare così bene con qualcuno che non fossero lei o suo fratello maggiore… non potevano rimanere lì tutta la giornata. «Torniamo settimana prossima e vi rivedete, magari».
«Ma certo», intervenne la mamma di Eileen con un sorriso, per poi legarsi i capelli in uno chignon disordinato e sistemare la macchina fotografica che ancora teneva al collo, nella borsa. Vide la figlia sporgere il labbro inferiore in fuori, come contrariata da qualcosa. E le venne da ridere, a pensare al motivo di quell’espressione.
Niall si stava allontanando mano nella mano con la mamma.
Senza salutarla.
Così le sussurrò di salutarlo lei, mentre le si metteva dietro per spingerla un po’, nonostante avesse imparato a farlo da sola. La rilassava, stare in quel modo solo con la figlia, senza nessun altro intorno.
«Ciao Niall!». Quasi lo urlò, pur di farsi sentire da lui.
E si fece sentire, dato che lo vide voltarsi dopo qualche secondo con un sorriso incerto sul viso e gli occhi sgranati. Sorpreso che lei lo avesse salutato, perché non legava mai abbastanza con qualcuno perché lo facessero. Sorpreso di sentire la sua voce pronunciare il suo nome. Sorpreso di sentirsi insieme bene e male, dopo quella frase.
Bene, perché lei l’aveva salutato. Perché forse si sarebbe ricordata di lui. E perché forse si sarebbero rivisti. Male, perché magari sarebbe arrivata a casa e si sarebbe dimenticata dei suoi capelli tanto anonimi e dei suoi occhi semplicemente azzurri, quando quelli di lei erano l’ottava meraviglia. Male, perché era più probabile che non si sarebbero più rivisti che altro.
«Ciao Eileen».
***
«Mamma, voglio andare da Eileen».
I genitori di Niall si erano svegliati che non era nemmeno l’alba, col minore dei loro figli seduto con le ginocchia al petto in mezzo a loro nel letto matrimoniale, mentre sussurrava il nome di quella bambina che aveva visto una volta ma della quale sentiva una mancanza irrazionale e evidentemente non troppo normale, per essere un bambino di nemmeno cinque anni.
Il castano aveva pensato per tutta la settimana ai capelli biondo fragola e agli occhi verdemare di Eileen. Mentre giocava col fratello maggiore, o mentre faceva colazione con latte e cereali al miele, o mentre di dondolava sull’altalena che avevano nel piccolo giardino sul retro.
E quella mattina, vedendo gli occhi celesti del figlio brillare per le lacrime trattenute, la giovane donna aveva represso uno sbadiglio e si era sollevata a sedere per lasciargli un bacio sulla testa, per poi annuire e districarsi dall’intreccio delle lenzuola di cotone bianco che l’avevano coperta tutta la notte.
L’aveva fermato dal mettersi a urlare o ridere o battere le mani, e le era scappato un sorriso al vederlo tanto felice per così poco. Non che fosse poco essere svegliata a quell’ora per un capriccio. Piuttosto, il “poco” era che Niall fosse felice di rivedere Eileen, sempre che si fossero rivisti, ovviamente. E si aspettava che le mettesse fretta, si aspettava qualsiasi reazione possibile e immaginabile.
Il figlio fece esattamente l’unica cosa che non si aspettava potesse fare.
Continuò a sorridere mentre lei lo lavava e lo vestiva. E sorrise mentre gli pettinava alla meglio i capelli, in modo che non sembrasse un senzatetto. Ci teneva che suo figlio fosse sempre al meglio delle proprie possibilità, e quella mattina Niall era particolarmente disponibile, in tal proposito.
Il che, preso da solo, era già strano.
Ma più strano fu vederlo infilarsi da solo le scarpe mentre lei si preparava il caffè. Lo guardò con un sopracciglio inarcato, mentre saltava volontariamente la colazione e si sedeva sul divano aspettando pazientemente che finisse di prepararsi. Niall non era il genere di bambino che rifiutava qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa fosse. E non aveva mai – mai e poi mai – saltato una colazione.
«Vuoi i cereali?», provò la donna sedendoglisi accanto con la tazza di caffè tra le mani e i capelli legati malamente in una coda, passandogli dolcemente la mano libera tra i capelli e fermandosi a fargli un leggero solletico sulla nuca. «Ci sono i cereali al miele, quelli che ti piacciono tanto…».
«Possiamo portarli al parco?».
«I cereali?», gli chiese di rimando, non senza trattenere una risatina.
Giusto per essere sicura di aver capito bene quel che intendeva. Lo vide annuire, reprimendo poi uno sbadiglio, allora si abbassò per posargli un bacio sui capelli, annuì appena e finì il proprio caffè. Niall la guardò finire di prepararsi, prendere la sua tazza preferita – bianca, coi quadrifoglio verde scuro stampigliati ovunque – la scatola di cereali e una bottiglia di latte.
Sinceramente non ci sperava più. Nessuno dei due ci sperava più. Erano al parco da poco più di mezz’ora e era da poco passata l’alba, e Niall iniziava a sentirsi in colpa per aver svegliato la madre e averla costretta a portarlo al parco.
Si era seduto sulla stessa altalena della settimana precedente, ancora su quella di centro. E aveva iniziato a dondolarsi leggermente, godendosi il venticello fresco sul viso. Ma erano stati i minuti più lunghi del mondo, e a quanto pareva Eileen non aveva intenzione di esserci.
Protruse il labbro inferiore in fuori, prima di emettere un leggero sbuffo di frustrazione. Allora la mamma ne approfittò per tirar fuori dalla borsa la sua tazza e riempirla di latte e cereali, per poi passargliela nell’esatto momento in cui la bambina dai capelli rossi rimaneva impietrita all’ingresso del parco, con la mano libera dalla presa della mamma premuta sulle labbra a forma di cuore.
«Mamma, c’è Niall!».
E lo disse talmente a voce alta da far quasi cadere di mano la tazza al castano. Quasi urlando, tanto da far ridere la mamma di Niall, e la propria, nello stesso momento. All’unisono, come avevano riso nello stesso modo anche loro due, solo una settimana prima.
«Mamma, è venuta!», gridò di rimando il piccolo, con gli occhi che gli brillavano dalla gioia e la tazza tenuta salda tra le dita. Tanto salda da rischiare di romperla. E tanto felice da farlo iniziare a mangiare con una voracità inaudita. La voracità di sempre, o forse addirittura qualcosa in più.
Tanto felice anche Eileen, tanto da tirare la mamma dalla mano. Quasi fino a staccargliela. Ma quella volta dalla felicità, non dalla rabbia. Tanto felice da correre saltellando, con la mamma subito dietro, attenta a non perderla. Tanto felice da ignorare quanto velocemente stesse mangiando i suoi cereali e ridere.
Tanto felici da mettersi a ridere nello stesso momento.
«Ciao», esclamò la bambina sedendosi di slancio sull’altalena a destra, anche se cigolava. Ignorando i capelli davanti alla faccia o le lacrime agli occhi dal ridere. Quelle era probabile che ci sarebbero state anche senza il bisogno di mettersi a ridere. Fosse stata un po’ più grande si sarebbe messa a piangere solo perché lui c’era.
Perché le era mancato più di quanto potesse capire. Le era mancato quanto le mancava la mamma quando partiva per lavorare, non la vedeva per giorni e lei doveva rimanere a casa con la babysitter che, per quanto potesse piacerle, non era la sua mamma. Non era la stessa cosa.
Con Niall invece sentiva come una specie di senso di familiarità strano, come non sentiva con nessuno che non fosse la sua famiglia, appunto. Era strano quanto bello. Un sentimento diverso, ma una delle cose più incredibili che avesse mai sentito. Forse la più incredibile in assoluto.
«Ciao», bofonchiò Niall cercando di non farsi andare di traverso i cereali e facendo ridere piano la mamma, mentre si allontanava per farli giocare in pace. «Mi sei mancata», le confessa, arrossendo abbastanza perché si noti, nonostante la luce del sole tenda al colore delle sue guance.
«Ciao… anche tu», aggiunse Eileen abbassando lo sguardo sul prato sotto i propri piedi, sollevati di parecchi centimetri da terra per via dell’altalena. Arrossì sperando che lui non se ne accorgesse. Sperando forse che fosse troppo piccolo o troppo stupido per capire cosa volesse dire arrossire.
Ma per fortuna l’imbarazzo svanì e lei rialzò lo sguardo appena in tempo per vederlo bere dalla tazza e sporcarsi di latte tutto intorno alle labbra. La fece ridere. Con la bocca aperta, la testa buttata appena all’indietro e le fossette bene in vista. Rise di gusto, guardandolo pulirsi con la manica del giacchetto di jeans e passarsi poi la mano dietro la nuca, come in imbarazzo, di nuovo.
«Se avessi anche tu i cereali e la tazza faremmo colazione insieme».
«Prossima volta?».
«D’accordo».
E mentre si erano imbarazzati terribilmente nel ridere l’una dell’altro o nel guardarsi negli occhi o nel dirsi quanto si fossero mancati, il silenzio tra di loro era la cosa meno imbarazzante che ci fosse.
Era un silenzio riempito dal vento, dal frusciare leggero dei fili d’erba, dai loro respiri o dal rumore del sorriso di lei mentre si dondolava e lo guardava mangiare, o dal rumore di lui che cercava di masticare piano ma che finiva quasi per strozzarsi. Era un silenzio tenero, quasi acerbo, ma che li faceva stare bene, in pace con sé stessi e l’uno con l’altra.
Si dondolarono su quelle altalene per minuti interi, ignorando i cigolii e concentrandosi sui respiri. Si dondolarono cercando di toccare il cielo, ridendo di come si sentissero fluttuare o di come sembrasse loro di volare.
Ma quando Eileen scese dalla propria altalena con un saltello e iniziò a correre continuando a ridere, a Niall non restò altro da fare se non andarle dietro. Niente se non seguirla giù per la piccola collinetta che dalle altalene portava al prato colmo di margherite, appena in tempo per vederle schiudersi una ad una.
Eileen voleva semplicemente ricambiare il favore.
Come Niall le aveva insegnato a volare, anche lei voleva insegnargli qualcosa. Anche se di certo non si aspettava fosse tanto complicato spiegargli come intrecciare una margherita con l’altra fino a formare una coroncina. «Devi trattarle bene, come tratteresti la tua migliore amica», sussurrò continuando a intrecciare, con Niall che guardava le sue dita muoversi, come incantato.
E forse quella frase smosse qualcosa in lui. O forse aveva quel pensiero che gli frullava per la mente dalla settimana prima quando le aveva lasciato il posto sull’altalena o quando lei l’aveva salutato.
«Vuoi essere mia amica?», le chiese arrossendo appena, ma senza troppi giri di parole.
Le dita della bambina si fermarono, come dotate di propria volontà. E lasciando uno di quei piccoli fiori libero di fluttuare fino al suolo senza troppi problemi. Alzò lo sguardo, catturando l’attenzione del maggiore e facendo incrociare i loro sguardi.
Senza timore. Senza la minima paura.
Solo verdemare nell’azzurro del cielo più limpido.
Eileen si accorge appena di sua madre che si sta avvicinando loro con un mezzo sorriso ad incresparle le labbra. Forse è successo qualcosa. Forse l’hanno chiamata dal lavoro e deve partire per un viaggio chissà dove. O forse devono semplicemente tornare a casa. Se ne accorge appena, troppo impegnata ad avvicinarsi al bambino di fronte a lei e a lasciargli un bacio sullo zigomo.
Non importa nemmeno se gli stia facendo il solletico sul viso coi capelli lunghissimi che si ritrova. Non importa arrossire, e non importa che sia arrossito anche lui. Non importa che ci sia lo sguardo della mamma che le perfora la schiena. Non importa niente.
Importa solo il “sì” che per qualche strano motivo riesce a sussurrargli mentre si allontana senza nemmeno un pizzico di vergogna. Sì, voleva essere sua amica. Sì, magari la sua migliore amica. Sì, magari voleva che la trattasse come una piccola margherita. Sì, qualsiasi cosa lui volesse fare di lei.
Importa solo quel che accadde dopo.
Una settimana passò in fretta, e quei sette giorni sembrarono passare in un lampo, quasi più veloce di un battito di ciglia o del battito repentino delle ali di un colibrì. Eileen e Niall aveva iniziato a vedersi quasi tutti i giorni, impegni delle mamme permettendo.
Ed era sempre lo stesso parco, ma sempre più spesso ad orari meno improponibili.
Il prima dell’alba divenne pomeriggio. E dalle colazioni erano passati a fare merenda insieme. O a saltare quella merenda solo per non staccarsi l’una dall’altro o per non smettere di giocare. Ma a parte il fatto che gli orari improponibili fossero diventati più normali, per il resto tra loro non era cambiato assolutamente nulla.
C’erano comunque le risate, le ore passate a dondolarsi su quelle altalene che cigolavano un po’, le coroncine di fiori leggermente sfatti perché il castano li toccava troppo. C’era comunque la curiosità qualsiasi minuscolo particolare di qualsiasi sciocchezza venisse loro in mente.
Si erano chiesti perché soffiasse il vento, perché il sole sembrasse tanto giallo o perché i grilli frinissero. Si domandavano perché gli occhi di Niall fossero dello stesso colore del terso cielo estivo, o perché i capelli di Eileen avessero rubato il colore alle carote che Niall nemmeno si azzardava più a toccare, da quando la conosceva.
Si facevano domande su domande, senza però ricevere risposta alcuna.
«Che cereali vuoi, raggio di sole?», le chiese la mamma – anche se leggermente assonnata – quella mattina. Con le occhiaie leggermente accentuate sotto gli occhi, spettinata e col sorriso più spento del solito. Forse sarebbe stato meglio non portare la macchina fotografica. Era semplicemente troppo stanca per riuscire a fare qualcosa.
«Quelli al cioccolato». La voce allegra della figlia sembrò spazzare via la stanchezza e le fece addirittura far spuntare un sorriso abbastanza allegro da sembrare totalmente reale agli occhi della piccola. Era un sorriso stanco mascherato di allegria, tutto qui. «E la tazza celeste», aggiunse facendo comparire una delle due fossette.
Vederla tanto allegra era la migliore delle cure alla stanchezza.
Osservarla dalla finestra saltellare per il vialetto mentre lei si legava un vecchio foulard di seta al collo era un toccasana per i suoi nervi a pezzi. Sentirla provare a fischiettare era il più bel modo in assoluto per iniziare una giornata nella quale non si sarebbe nemmeno voluta svegliare. E avere la sua mano nella propria era una sicurezza, nonostante la sentisse tirare per rincorrere chissà quale animaletto o per arrivare prima al parco. Per arrivare prima da Niall, era tutto quel che voleva, a dire il vero.
In dieci minuti erano per la terza settimana di fila al solito posto, nel solito parco. Con i soliti fili d’erba bagnati di rugiada, le solite farfalle che facevano fatica a volare e le solite margherite non ancora schiuse. Con il solito scivolo dal tetto rosso, i dondoli con le molle ormai da buttare e quelle altalene che cigolavano senza che nessuno si prendesse la briga di aggiustarle.
In quei dieci minuti lo stomaco di Eileen fece un trilione di capriole. Vorticò fin quasi a farle venire la nausea, nonostante non avesse mangiato ancora nulla. Era una sensazione strana. Come dicevano gli adulti? Le farfalle nello stomaco. Forse aveva tanti insetti che le svolazzavano dentro senza il suo permesso, fregandosene di come stesse. Sensazione strana e fastidiosa, che però se pensava a lui le piaceva. Non era tanto male. Non abbastanza da vomitare quel che non aveva mangiato.
In quei dieci minuti Niall stava tirando la mamma per la manica del cardigan grigio, chiedendole in silenzio di fare più in fretta, o sarebbero arrivati in ritardo. Eileen ci sarebbe rimasta sicuramente male, se lui non ci fosse stato. O almeno, era quel che in fondo sperava.
Anche il suo stomaco faceva le capriole. Anche a lui veniva da vomitare.
E forse c’erano più farfalle variopinte nei loro stomaci che in quel parco ancora mezzo addormentato.
Intanto la bambina dai capelli rossi era arrivata alle altalene, sedendosi impaziente su quella che cigolava di più. Quasi una presa in giro a tutto e tutti, stava lasciando di nuovo l’altalena sana al suo migliore amico. La mamma la vide dondolare i piedi uno per volta, apposta per non far partire quel gioco che le piaceva tanto, e iniziò a tirare fuori dalla borsa la tazza della piccola, la busta coi cereali e la bottiglia di latte.
Quasi non aveva senso dondolarsi, se con lei non c’era Niall.
Quasi nulla sembrava avere senso, se con lei non c’era Niall.
E lo sentirono prima ancora di vederlo. Lo sentirono dire alla mamma di camminare più veloce, perché ormai stava albeggiando e lui era in ritardo e non vedeva l’ora di vedere la sua migliore amica e compagna di giochi preferita. Sentirono la mamma ridere, stranamente sveglia e particolarmente incline all’entusiasmo del figlio. Sentirono il piccolo sbuffare, proprio mentre arrivava coi capelli particolarmente spettinati e gli occhi lucidi all’ingresso del piccolo parco.
Eileen iniziò a battere le mani non appena lo vide, con la mamma accanto che sorridendo le preparava la colazione. Come fossero tranquillamente a casa loro, e non all’aperto col sole che faceva capolino all’orizzonte. Come se quella fosse una normale colazione, nella più normale delle situazioni.
Niall lasciò andare la mano della mamma non appena lo vide, e quasi senza rendersene conto. La sentì riprenderlo e dirgli di non correre, di andare piano perché lei non sarebbe scappata. La ignorò apertamente, facendo ridere la bambina proprio mentre la mamma le metteva la tazza colma di cereali sulle ginocchia.
Cercò di non far trapelare la sorpresa, quando si accorse dell’altalena di mezzo lasciata libera. Per lui. Era al settimo cielo, anche se sapeva che la mamma l’avrebbe rimproverato di lì a poco. Al settimo cielo perché Eileen era lì, e perché aveva portato la colazione, come si erano promessi la settimana precedente.
«Ciao».
«Ciao», esclamò la bambina, non senza arrossire.
«Hai i cereali!», le disse, battendo le mani mentre la mamma li raggiungeva. Non riusciva a trattenere un sorriso, seppur avrebbe solo voluto rimproverarlo per essere scappato in quel modo. Ignorò il tutto preparandogli la colazione e passandogli la tazza e il cucchiaino. «Mamma, visto? Anche Leen ha i cereali!», le fece notare, facendo arrossire più violentemente la bimba al suo fianco.
L’aveva chiamata Leen. Stentava a crederci.
Ma svanito l’imbarazzo non restò loro che sorridersi, mentre mangiavano i loro cereali come se fossero stati nella quiete delle loro cucine, in una mattina normale. Come se fossero stati due normali bambini di quattro anni – quasi cinque, per Niall. Come se si conoscessero dalla nascita, quando invece non era vero.
E in fondo che c’era di male? Erano solo un bambino e una bambina che facevano colazione con latte e cereali dondolandosi su quelle altalene che non facevano altro se non cigolare.
Che c’era di strano?



 



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