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Autore: ElenCelebrindal    01/07/2014    2 recensioni
Questa è la storia della vita di Legolas. Da quando era un bambino fino alla sua partenza per le Terre Immortali. Bambino, ragazzo e adulto, tutto quello che ha passato assieme a suo padre Thranduil, le sue amicizie e i suoi scontri, tutto riunito in questa fan fiction.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Legolas, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DIVERGENZE APPIANATE

Un altro fendente, ancora una parata.
Legolas si era ritrovato a combattere contro un consistente gruppo di orchi che l’avevano sorpreso sulla via della Montagna, mentre inseguiva quello che aveva avuto l’ardire di far scorrere il proprio sangue.
La lama dei lunghi coltelli si era tinta del sangue nero degli orchi, e le frecce erano ormai quasi finite, ma il principe non demorse e continuò a combattere, facendo cadere uno dopo l’altro tutti i nemici che si ritrovava di fronte e non fermandosi mai.
Quando una di quelle creature uccise il suo cavallo, capì che, anche se avesse sconfitto tutti i nemici, non avrebbe mai avuto la possibilità di raggiungere un orco a cavallo di un mannaro.
Quella distrazione per poco non costò caro al principe, che vide solo all'’ultimo momento una lama scendere su di lui e si scansò di lato, sentendo però un acuto dolore al braccio destro.
Lasciò di scatto il pugnale, che si conficcò nel terreno, e utilizzando l’altro uccise l’ultimo orco rimasto, quello che l’aveva ferito.
Quando fu certo di essere rimasto solo, fece cadere anche l’altro pugnale e portò la mano sinistra al braccio, cadendo in ginocchio a causa del dolore lancinante che gli attraversava la ferita: Legolas capì subito che era una ferita grave, un lungo e profondo taglio che partiva dalla spalla per arrivare fino al polso, e che stillava il denso e rosso fluido della vita.
Il sangue scendeva copioso, e gli inzuppò in poco tempo la manica della tunica.
Stringendo i denti, Legolas si rimise in piedi, cercando di ignorare le fitte al braccio, e si sforzò di mettere un piede davanti all'’altro, intenzionato a tornare al Reame Boscoso.
La notte, ormai scesa completamente, stava facendo sentire i suoi freddi artigli, e il principe rabbrividì: in circostanze normali, il freddo non l’avrebbe infastidito, ma l’elfo si stava lentamente indebolendo e anche i suoi passi cominciavano a farsi più deboli e lenti.
Quando la luna era ormai alta nel cielo, Legolas si arrese e di accasciò a terra, pronunciando solo due flebili parole: “Perdonami, ada”.
Poi chiuse gli occhi e tutto fu buio.
 

Thranduil picchiettava con le unghie sul bracciolo del suo trono, intenzionato a non muoversi da quel seggio fino al ritorno di Elros al palazzo, e aveva già congedato tutte le guardie della sua scorta personale, desiderando stare solo con i suoi pensieri, la sua rabbia e le sue preoccupazioni.
Se avrebbe dovuto aspettare ancora un giorno intero, prima di conoscere le notizie che quel’elfo incompetente gli avrebbe portato, allora avrebbe aspettato.
Ma nulla lo stupì maggiormente del vedere proprio Elros dirigersi a passi veloci verso di lui, nonostante i suoi ordini fossero stati di non tornare prima del calar del sole del giorno seguente: “Cosa ci fai qui? Avevi degli ordini da eseguire”, disse, tentando di mantenere un tono calmo, ma stringendo il braccio del trono fino a farsi sbiancare le nocche.
L’elfo si fermò e, dopo essersi inchinato, disse: “Aran nîn, ho tentato di eseguire, ma sono riuscito ad arrivare a stento a Esgaroth, perché orchi sono presenti in queste terre. Il loro numero era troppo soverchiante per me, e non ho potuto far altro che tornare indietro”.
Ma la guardia si ritrovò a parlare da sola: Thranduil scattò in piedi e scese dal trono quasi saltando gli scalini: “Ne sei sicuro?”, domandò a Elros.
“Na, aran nn, ho tentato di eseguire, ma sono riuscito ad arrivare a stento a Esgaroth, perché orchi sono presenti in queste terre. Il loro numero era troppo soverchiante per me, e non ho potuto far altro che tornare indietro”.
 “Legolas”, mormorò allora Thranduil, togliendosi la lunga veste argentea e restando così in tunica e pantaloni, prima di correre via senza quell’impedimento, prima di correre da suo figlio che, lo sentiva, ora si trovava in pericolo.
La rabbia sbollì all'’istante, facendo spazio alla paura e alla preoccupazione: quanti orchi potevano esserci ancora?
“Portatemi la mia cavalcatura. Subito!”, ordinò secco ad uno degli elfi di guardia all'’esterno, che in pochi minuti condusse al re la sua enorme alce.
Thranduil montò il groppa e ordinò di tenere chiusi i cancelli fino al suo ritorno, prima di spronare l’animale a cavalcare, seguendo la pista che aveva intrapreso Legolas.
Cavalcò a lungo, facendo il giro del lago a velocità forsennata, e quando arrivò a Esgaroth capì subito che suo figlio aveva intrapreso la via della Montagna, e la prese senza rallentare mai.
Si fermò solamente quando, a terra, vide un’ombra più scura delle altre.
Non ebbe bisogno di conferma dalla luce: smontò e, con il cuore che mancava i battiti, si avvicinò al corpo esanime del figlio, cercando di trattenere le lacrime alla vista della ferita che gli attraversava il braccio e del sangue che ancora ne colava copioso.
Lo prese tra le braccia e gli accarezzò il volto: “Legolas, iôn nîn, edro i chîn lîn. Eglerio” (Legolas, figlio io, apri gli occhi. Ti prego).
 

Legolas, nel suo stato di torpore mentale, pensò di sentire la voce del padre che lo chiamava, che gli diceva di aprire gli occhi.
Ma non ci riusciva.
“Lasto beth lammen, tolo dan nan galad. Legolas, tolo dan nan galad, edro i chîn lîn. Eglerio, iôn nîn, eglerio” (Ascolta le mie parole, torna alla luce. Legolas, torna alla luce, apri gli occhi. Ti prego, apri gli occhi, ti prego).
La voce di Thranduil si faceva più disperata ad ogni frase, e allora Legolas riuscì a sollevare le palpebre, sentendole pesanti e ritrovandosi con la vista appannata.
Ma riconobbe all'’istante il viso del padre, i lunghi capelli biondi che lo incorniciavano e le lacrime che spesso gli aveva visto versare per il padre scendere dai suoi occhi per lui: “A… adar”, disse solo, prima di chiudere di nuovo gli occhi e sentirsi sollevare da terra.
 
 
Il principe di Bosco Atro si risvegliò dopo un tempo che non sapeva definire: poche ore? Giorni? Non lo sapeva.
Aprì gli occhi e una luce inaspettata glieli ferì, ma non troppo da sembrare fastidiosa.
Quando la vista gli si snebbiò, riconobbe il soffitto decorato della sua stanza del palazzo, e si accorse di essere nel proprio letto, sotto due strati di coperte di lana fine e morbida e la testa poggiata su di un morbido cuscino.
Si mise a sedere e non riuscì a trattenere un gemito di dolore quando per sbaglio fece forza sul braccio ferito, ora fasciato da delle candide bende: “Mani… mani marte?” (Cosa… cosa è successo?).
“Questo dovrai dirmelo tu, Legolas”.
L’elfo si irrigidì nel sentire la voce del padre, certo che lo avrebbe sgridato o anche peggio, ma si rilassò quando Thranduil si sedette sul letto, accanto a sé, e lo strinse in un abbraccio: “Tu, incosciente che non sei altro, mi hai fatto preoccupare da morire”.
“Mi dispiace, adar. Non avrei dovuto ignorare i tuoi ordini. Non sarei dovuto uscire solo per seguire Tauriel”.
Il padre sciolse l’abbraccio e lo fissò negli occhi: “Tu non sei partito solo per seguire Tauriel. Tu sei partito perché hai compreso meglio di me cosa fare, hai fatto quello che io, chiuso qui dentro, non avrei mai fatto. Tu mi consideri un grande guerriero, Legolas, ma la realtà è che io ho paura. Ho paura da quando ho perso mio padre nella Dagor Dagorlad, ho paura da quando ho affrontato i serpenti del nord. Ho paura, quando vedo te uscire da quei portali. Sono solo un codardo”.
“Ci sono molti tipi di paura, adar. Ma solo poche di queste non sono giustificabili. La tua paura è delle più nobili, perché la guerra fa paura. Le battaglie incutono timore, per quanto tu sia addestrato a combattere. La solitudine e l’inquietudine di non sapere se qualcuno che ami tornerà a casa ti fanno terrorizzare. Non sei un codardo, non lo sei mai stato. Non dire mai più una cosa del genere”.
Thranduil sorrise e scosse la testa: “E pensare che io, nella rabbia, ero intenzionato a non vederti mai più”.
Poi tornò serio: “Kwentra i’narn, Legolas. Mani marte?” (Racconta la storia, Legolas. Cosa è successo?).
Il principe abbassò gli occhi, e narrò tutto quanto a voce bassa, quasi temesse uno scatto di collera del padre, ma quando questo non avvenne, la sua voce acquistò più sicurezza, e arrivò alla fine della storia con solo un lieve tremore: “L’ultima cosa che ricordo è il tuo viso, le tue braccia che mi stringevano. Poi il buio e il risveglio qui. Quanto tempo è passato?”.
“Sei stato svenuto per due giorni. Sta calando la sera”.
Legolas recuperò quasi all'’istante le forze: “E Tauriel? Tauriel dov’è?”, domandò.
Restava pur sempre la sua migliore amica, ora che aveva scoperto di non interessargli.
Thranduil sembrò esitare: “Non è ancora tornata”, rispose poi.
“Legolas, cosa fai?”, esclamò il re, quando il principe cercò di alzarsi dal letto.
“Vado a cercarla. Potrebbe essere in pericolo, là fuori”, rispose Legolas, ma venne sospinto indietro dalle mani del padre: “Tu non vai da nessuna parte. Sei ancora debole e potrebbe essere pericoloso anche per te uscire, specialmente nelle condizioni in cui sei ora”.
Ma non fece in tempo a finire la frase che l’intero palazzo parve tremare, e il principe non ci mise molto a capire cosa era accaduto: “Smaug… è il drago. Il drago è uscito dalla Montagna. Gli abitanti di Esgaroth sono in pericolo!”.
A quel punto, l’elfo si alzò davvero in piedi, ignorando la voce del padre: “Legolas! Fermati, Legolas!”, corse via, raggiungendo velocemente una delle uscite nascoste del palazzo e scrutando all'’orizzonte.
“Legolas, hai perso la ragione? Non puoi uscire ora”, cercò di farlo ragionare Thranduil, che lo aveva seguito, ma il principe si mostrò irremovibile: “Quella povera gente si trova in pericolo, adesso. Non posso restare con le mani in mano, devo aiutarli!”.
“Dobbiamo aiutarli”, lo corresse il padre, avvicinandosi: “Ma non arriveremo mai prima di Smaug, nemmeno partendo in questo istante”.
“E allora cosa facciamo?”.
Thranduil sospirò: “Andiamo alla Montagna. Anche quei Nani saranno morti, ormai; la furia dei draghi non conosce limiti, iôn nîn. E poi non sappiamo se Tauriel sia rimasta a Pontelagolungo o se si sia diretta anch’ella a Erebor al seguito di quei Nani a cui ha prestato aiuto”.
Legolas guardò sconcertato il padre: “Allora non miri solamente alle ricchezze che troverai all'’interno della Montagna. Perché?”, gli chiese.
Il re si voltò a guardarlo: “Forse perché mi ricordi quello che sono e che dovrei fare. Coraggio, dobbiamo andare in armeria. Se non erro, i tuoi coltelli sono ormai smarriti e dobbiamo sostituirli. Orcrist non può sostituire tutto, e potremmo dover combattere”.
“Ho sentito bene? Potrò tenere Orcrist?”.
“Si, iôn nîn, hai sentito bene. Ora sbrighiamoci”.
Il principe non riusciva quasi a credere alle proprie orecchie, ma si riebbe presto dalla sorpresa e seguì il padre di nuovo all'’interno, fino all'’armeria.
Lì, Thranduil disse: “Aspettami qui, Legolas”, ed entrò, lasciando Legolas fuori dalla porta a domandarsi il motivo per cui era stato lasciato lì.
L’attesa non durò a lungo, però, perché Thranduil uscì in fretta dall’armeria, tenendo tra le mani un involto di stoffe: “Avevo pensato di regalartelo più in là, durante la prossima Mereth-en-Gilith, ma le circostanze hanno deciso diversamente, perciò…”.
Lasciò la frase in sospeso, alzando le spalle, e porse l’involto a Legolas, che tese le mani e lo prese: “Cos’è?”, chiese, ma non ricevette risposta se non un cenno a scoprirlo.
Svolse le stoffe che avvolgevano l’oggetto misterioso e rimase a bocca aperta dallo stupore: tra le mani aveva uno splendido pugnale.
Il fodero era d’argento, decorato da incisioni e intarsi di rampicanti, fiori stilizzati e linee intricate, la lunga cinta legata a esso di un cuoio bianco resistente e leggero, chiusa con una fibbia di metallo lucido.
Lentamente, il principe chiuse la mano sull’impugnatura, bianca con minuscoli decori color argento, e sguainò il pugnale: la lama, leggermente ricurva, era talmente chiara da sembrare anch’essa bianca, e sul piatto, su entrambi i lati, c’era inciso un disegno intricato e probabilmente molto complicato da realizzare, in argento e oro bianco a prima occhiata.
Legolas era sempre stato eccellente nel riconoscere i vari tipi di metalli, grazie all'’insegnamento di Oropher, e sentì salire le lacrime agli occhi quando suo padre parlò di nuovo: “Spero che ti piaccia. L’ho forgiato molto tempo fa, ma non ho mai deciso con certezza quando donartelo. Avevo optato per la Festa, ma…”.
Non lo lasciò finire: rinfoderò il pugnale e lo abbracciò: “Non dire nulla, adar. Tutto ciò che proviene dalle tue mani mi piace, perché so che ci infondi l’amore che provi per me. Melin le, ada”.
“Melin le, Legolas”, rincarò il re: “Ma ora dobbiamo avvertire l’esercito”, aggiunse, sciogliendo l’abbraccio.
Legolas sospirò: “Hai intenzione di riunirlo tutto?”.
“No, avevo pensato di portare con me al massimo un migliaio di elfi. Senza il drago a disturbarci, non avremo troppi problemi”, rispose Thranduil, cominciando ad avviarsi.
“Vai a cambiarti, Legolas. I tuoi abiti sono strappati e macchiati di sangue, e desidero controllare la tua ferita prima di uscire da qui”.
Il principe obbedì alla richiesta del padre e tornò alla sua stanza.
Chiuse la porta a chiave e, dopo aver tratto un profondo respiro, osservò di nuovo il dono che suo padre gli aveva fatto, un dono più prezioso di tutte le stelle del cielo a suo parere.
Si diresse all'’armadio e recuperò degli abiti più comodi e adatti alla battaglia: una tunica lunga fin quasi al ginocchio, una camicia leggera e un paio di pantaloni, tutti dei colori della foresta.
Stringendo i denti,si sfilò la tunica che già portava e indossò la camicia e la tunica nuove, gettando la vecchia, ormai inutilizzabile, in un angolo della stanza.
Poi si cambiò i pantaloni e rimise gli stivali di pelle chiara, prima di soppesare con lo sguardo l’armatura leggera che aveva sempre portato nelle missioni della guardia.
Allungò una mano per prenderla, ma cambiò idea all'’ultimo momento e recuperò una delle armature più pesanti e più utili in una battaglia, la stessa utilizzata dai membri più importanti della guardia, e indossò quella.
Stava ancora stringendo le cinghie, quando sentì bussare alla porta: “Legolas? Posso entrare?”.
“Certo, adar, entra pure”.
Thranduil entrò nella stanza e disse: “Come mai la tua scelta è caduta su quell’armatura? Non ricordo di avertela mai vista indosso, credevo non fosse adatta a te”.
“Ho pensato che dopo quello che è successo, una protezione in più non può farmi che bene. dopotutto, come hai detto tu sono ancora ferito, ed è meglio limitare eventuali altri danni”.
Il re si avvicinò: “Vieni, ti aiuto”, disse, tendendo le mani per chiudere le cinghie a cui il principe non arrivava.
Quando l’armatura fu al suo posto aggiunse: “Ma ora fammi controllare il tuo braccio”.
Legolas porse l’arto ferito al padre e strinse i denti quando Thranduil svolse le bende per esaminarlo meglio: il taglio era profondo e slabbrato, ma non dava segni di infezione e non sanguinava più.
“Ti fa ancora male?”, domandò Thranduil, mentre spalmava sul taglio un unguento fresco e profumato, che gli elfi usavano solo per curare le ferite più gravi.
Poi prese le bende pulite che aveva portato con sé per sostituire le altre e cominciò ad avvolgere con quelle il braccio del figlio.
“Solo un po’. Nulla di così terribile da non poter combattere, ma ho la fortuna di saper maneggiare un’arma anche con la mano sinistra”.
Thranduil finì di fare il bendaggio e sfiorò con tocchi leggeri quella stoffa candida che ricopriva la ferita del figlio, un’offesa alla creatura splendida a cui voleva un bene dell’anima, per poi abbassare la manica della tunica e prendere una delle protezioni per le braccia di cui era corredata l’armatura.
Chiuse le cinghie di cuoio lasciandole abbastanza lente per non causare dolore al figlio, ma stringendole quello che bastava perché costituisse una protezione efficace.
“Adar”, lo chiamò Legolas.
Thranduil sollevò la testa, e il principe gli diede un bacio sulla guancia: “Hannon le”.
 
 
L’esercito era già pronto a marciare: un migliaio di elfi, tra i migliori arcieri e guerrieri, erano stati selezionati per quella missione, e Thranduil era in testa, in groppa alla sua possente alce.
Legolas, al suo fianco, scrutava davanti a sé e, quando fu dato l’ordine di avanzare, spronò il suo cavallo a muoversi con dolci parole sussurrate.
Erano in viaggio da nemmeno un giorno, quando un messaggero raggiunse il re.
Questi fece fermare il suo esercito, e disse: “Ebbene?”.
Il messaggero riprese fiato: “Sire Thranduil, sono stato inviato a chiedere soccorso a voi da Bard di Esgaroth, mio signore, l’uccisore del drago!”.
Legolas restò sorpreso: “L’uccisore del drago?”.
“Si, principe. Smaug è morto, ucciso dalla freccia di Bard l’Arciere. Purtroppo, però, anche se questa è stata fonte di gioia per tutti noi, è stata anche una sventura perché il drago si è avventato sulla nostra città e l’ha rasa al suolo. Cerchiamo il tuo aiuto, re Thranduil. Molti di noi stanno morendo per il freddo e la malattia, e il cibo non basterà a lungo. Senza la nostra città, siamo perduti”.
L’uomo aveva un tono di voce così disperato che Legolas non poté fare a meno di provare pietà per quei poveri abitanti, e sperò con tutto il cuore che il padre decidesse di aiutarli: era un buon re, dopotutto, non avrebbe messo davanti alla salvezza delle persone il suo desiderio di giungere alla Montagna.
Anche se significava, probabilmente, dover ritardare i soccorsi a Tauriel.
E a tal proposito, prima che suo padre potesse dire qualcosa, chiese: “Qui c’erano anche dei Nani e un’Elfa. Dove sono ora?”.
Il messaggero sollevò lo sguardo su di lui: “Non so nemmeno se siano ancora vivi, mio principe. Sono andati via, diretti alla Montagna, prima che Smaug facesse crollare la sua ira su di noi”.
Legolas chinò la testa, ma non disse nulla.
Thranduil lo guardò di sottecchi, mentre rispondeva all'’uomo: “Avrete il nostro aiuto. Siete sempre stati un popolo buono e generoso”.
Fece preparare alcune zattere e le caricò dei beni di prima necessità, dando ordine di inviarle sulle rive del Lago Lungo assieme ad un gruppo di elfi.
“Grazie, mio signore, grazie! Ti saremo per sempre riconoscenti”.
L’uomo non finiva più di inchinarsi e ringraziarlo, e Thranduil lo interruppe: “Si, certo, ho compreso. Noi continueremo a piedi, perciò arriveremo fra qualche giorno al vostro accampamento. Attendete il nostro arrivo, non vi abbandoneremo. Puoi salire sulle zattere assieme ai miei elfi”.
Detto questo, spronò di nuovo il suo esercito a marciare, stavolta non alla volta della Montagna ma in direzione delle sponde del Lago.
Legolas si sentì felice, perché suo padre aveva deciso di aiutare quegli Uomini, ma la sua felicità era offuscata dalla preoccupazione per la sorte di Tauriel: era viva oppure il drago l’aveva uccisa?
Solo cinque giorni dalla morte del drago trascorsero per giungere a destinazione, e trovarono gli abitanti rincuorati dell’intervento tempestivo del re degli Elfi.
Vennero accolti con esclamazioni di giubilo e con canti e ringraziamenti, e molti si inchinarono al cospetto del principe e del re del Reame Boscoso.
Gli Uomini e il Governatore sembravano pronti a stringere qualsiasi patto in cambio del soccorso prestato dal re elfico, e così fu fatto: il Governatore rimase assieme alle donne, ai bambini e agli anziani, e alcuni artigiani ingegnosi gli si affiancarono, occupatissimi ad abbattere alberi e riunire il legname inviato dalla foresta, per costruire delle capanne atte a difendersi dal gelo dell’imminente inverno.
Thranduil e Bard riunirono tutti gli Uomini d’arme ancora vigorosi e gli Elfi, preparandosi a marciare alla volta della Montagna.
Legolas rimase sempre accanto a suo padre, ascoltando con orecchio attento le conversazioni che volavano da una bocca all'’altra e i piani messi in atto da Thranduil e Bard: e così il viaggio andò avanti per undici giorni, quando l’avanguardia delle loro schiere giunse nelle Terre Desolate.
Arrivarono alla Montagna Solitaria in breve tempo, da quel punto, risalendo le rive del fiume, e il principe si stupì non poco di vedere un enorme muro fatto di pietre squadrate di recente coprire l’immensa porta principale di Erebor.
L’avanguardia degli elfi andò avanti e Legolas la seguì, scrutando il muro che bloccava l’accesso: questo significava che i Nani erano ancora vivi, ma di Tauriel ancora nessuna traccia.
Mentre restavano fermi ad indicare la porta e a decidere sul da farsi, una voce dall’interno li apostrofò: “Chi siete voi che venite in assetto da guerra alle porte di Thorin, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna, e cosa volete?”.
Legolas riconobbe all'’istante la voce di Thorin, anche prima che il Nano esclamasse il suo nome, ma si trattenne dall’impulso di rispondere.
Anzi, nessuno degli elfi si prese la briga di rispondere, in quel momento.
Molti tornarono subito indietro, altri, compreso il principe, li seguirono dopo aver squadrato ancora per un po’ la porta e le sue difese.
L’accampamento venne spostato a est del fiume, in mezzo ai bracci della Montagna, e le rocce echeggiavano delle voci e dei canti che si erano levati, accompagnati dal dolce suono delle arpe elfiche.
Uomini ed Elfi cercavano di rallegrarsi e di tenere alto il morale, ma Legolas rimase per molto tempo a discutere con suo padre e con Bard di ciò che sarebbe accaduto il giorno seguente: “Dobbiamo inviare qualcuno a parlamentare, Adar. È impossibile abbattere quel muro ed entrare con la forza, lo sai”.
Thranduil sembrò riflettere in silenzio su quelle parole, e Bard di intromise: “Legolas ha ragione, sire. Io ho già pronti alcuni soldati, devi solamente dirci se vorrai mandare anche i tuoi elfi a cercare di ottenere un accordo”.
Il re sospirò: “Molto bene. Invierò un gruppo di Elfi assieme ai tuoi Uomini, Bard”.
Poi si rivolse a Legolas: “Ci sarai anche tu, assieme agli elfi. Te la senti, iôn nîn?”.
Legolas alzò la testa, fiero e determinato: “Certo, adar. Mi sento molto meglio, ora, e la ferita si è quasi rimarginata quindi non avrò problemi”, rispose.
Thranduil annuì: “Allora è deciso. Domattina di buon’ora troverai i miei elfi ad attenderti, Bard”.
L’Arciere accennò un inchino, alzandosi: “Ti ringrazio. Con permesso”, disse, uscendo dalla tenda.
“Bard è preoccupato per qualcosa”, osservò Legolas.
Thranduil sollevò lo sguardo sul lembo della tenda che l’Uomo aveva scostato per uscire: “I suoi figli sono rimasti sulle sponde del Lago. Sono certo che sia preoccupato per la loro sorte. Ma ora non parliamo di questo, è tardi e domani sarà una lunga giornata. Dovresti riposare, tutti noi dovremmo”.
Il principe annuì: “Quel du, adar” (Buonanotte, padre), disse, prima di uscire dalla tenda e di dirigersi a quella che gli era stata assegnata.
 
Il mattino seguente, di buon’ora, una compagnia di soldati, sia elfi che Uomini, armati di lance, attraversò il fiume e marciò su per la valle.
Legolas e Bard erano tra questi, e portavano il grande stendardo del Reame Boscoso e quello azzurro del lago.
Avanzarono fino a fermarsi proprio davanti al muro della Porta.
Di nuovo Thorin parlò: “Chi siete voi che venite armati per far guerra alle porte di Thorin, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna?”.
Questa volta la risposta arrivò: Bard consegnò lo stendardo del lago ad uno dei suoi uomini e si fece avanti, gridando alla volta del Nano: “Salute a te, Thorin! Perché ti barrichi come un ladro nel suo covo? Ancora non siamo nemici, e ci rallegriamo che siate vivi, al di là di ogni nostra speranza. Siamo venuti credendo di non trovare nessuno qui; tuttavia, ora che ci siamo incontrati, abbiano alcune questioni su cui parlamentare e metterci d’accordo”.
A Legolas sembrò un discorso ben fatto, ma Thorin replicò secco, per nulla impressionato dall’abilità di Bard con le parole: “Chi sei tu, e di che vorresti parlamentare?”.
Bard, senza batter ciglio, rispose: “Io sono Bard, e per mano mia il drago fu ucciso e il vostro tesoro salvato. Non è questa forse una questione che ti riguarda? Inoltre io sono per diritto ereditario il successore di Girion di Dale, e in mezzo al suo tesoro c’è gran parte delle ricchezze della sua città e del suo palazzo, che Smaug rubò in passato. Non è forse una quesione su cui potremo parlare? Inoltre, nella sua ultima battaglia Smaug distrusse le dimore degli uomini di Esgaroth, e io sono ancora al servizio del loro Governatore. Vorrei parlare in vece sua e chiedere se non sei sfiorato dal  pensiero del dolore e della miseria del suo popolo.  Ti soccorsero quando eri in pericolo, e per tutta ricompensa finora ci hai portato solo rovina, anche se indubbiamente non l’hai fatto apposta”.
Erano parole veritiere, constatò il principe, ma era sicuro che Thorin non avrebbe ceduto: i Nani cedevano facilmente al potere che l’oro e le ricchezze esercitavano si di loro, e il loro cuore veniva offuscato dalla brama di possederne sempre di più.
Perciò non si sorprese affatto nell’udire la replica del Nano: “Presenti la parte peggiore della tua causa per ultima, e nella posizione di maggior rilievo. Sul tesoro del mio popolo nessun uomo può vantare dei diritti, per il fatto che Smaug, il quale lo rubò a noi, ha privato anche lui della vita e della casa. Il tesoro non era di Smaug, e le sue azioni malvagie non debbono quindi essere indennizzate con una parte del tesoro stesso. Il prezzo delle merci e dell’assistenza che ricevemmo dagli Uomini del Lago verrà generosamente ripagato, a tempo debito. Ma non daremo niente, neanche il valore di una pagnotta, sotto la minaccia della forza. Fin tanto che una schiera armata sta davanti alle nostre porte, noi vi riguardiamo come ladri e nemici”.
 Forse Thorin aveva ragione, a non volere una schiera armata davanti alle sue porte, ma Legolas sapeva bene che nessuno dei due eserciti si sarebbe mai tirato indietro, così rimase in ascolto.
“Vorrei inoltre chiedere quale parte della loro eredità avreste pagato ai nostri consanguinei, se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi”, continuò Thorin.
“Una domanda appropriata”, replicò Bard: “Ma voi non siete morti e noi non siamo banditi. Inoltre, i ricchi possono provare pietà maggiore del loro senso di giustizia, verso i bisognosi che li hanno trattati da amici quando essi erano i miseria. E le mie altre richieste non hanno ancora avuto risposta”.
Il Nano non si scompose: “Non parlamenterò, come ho detto, con uomini armati alla mia porta. E non parlamenterò affatto con il popolo del re elfico, di cui conservo un ricordo poco gentile. In questa discussione loro non c’entrano affatto. Vattene ora, prima che fischino le nostre frecce. E se vorrai parlarmi di nuovo, rimanda la schiera degli elfi nei boschi, dov’è il loro posto, e poi ritorna, ma deponendo le armi prima di avvicinarti alla mia soglia”.
Questo per il principe fu troppo; lanciò una veloce occhiata a Bard, che afferrò il messaggio e fece un passo indietro, e avanzò: “Il re degli Elfi è m padre, e ha soccorso gli Uomini del Lago nel momento del bisogno, sebbene essi non abbiano alcun diritto su di lui, tranne quelli che dà l’amicizia”, disse.
“Ti daremo tempo per pentirti delle tue parole. Fa’ appello al tuo buonsenso prima del nostro ritorno, Thorin Scudodiquercia”.
Prima di voltarsi e seguire i soldati all'’accampamento, aggiunse: “E se la mia amica Tauriel è morta a causa vostra, per aver aiutato tuo nipote a guarire, Thorin, ve la vedrete con me”.
Poi fece ritorno, raggiungendo tutti gli altri.
Prima della fine del giorno, gli ambasciatori, meno Bard, tornarono, e facendosi avanti, uno degli Uomini disse: “In nome di Esgaroth e della foresta, parliamo a Thorin Scudodiquercia figlio di Thrain, che chiama se stesso Re sotto la Montagna, e gli intimiamo di considerare seriamente le richieste che sono state avanzate, sotto pena di essere altrimenti dichiarato nostro nemico. come minimo egli dovrà consegnare un dodicesimo del tesoro a Bard, in quanto uccisore del drago, ed erede di Girion. Con quella porzione Bard stesso contribuirà ad aiutare Esgaroth; ma se Thorin vorrà avere l’amicizia e il rispetto delle terre qui intorno, come l’avevano nel passato i suoi antenati, allora dovrà aggiungere qualcosa di suo per soccorrere gli Uomini del Lago”.
Per tutta risposta, Thorin scoccò una freccia, che andò a piantarsi vibrando nello scudo di colui che aveva parlato.
Egli gridò di rimando: “Poiché questa è la tua risposta dichiaro la Montagna assediata. Non ve ne andrete di qui finché non ci chiederete una tregua e un parlamento. Non prenderemo le armi contro di voi, ma vi lasciamo al vostro oro. Mangiate quello, se volete!”.
Così dicendo, i messaggeri partirono velocemente, ma una voce giunse alle orecchie di Legolas mentre scendeva all’accampamento, una voce giovane: “La tua amica è viva, elfo”.
Legolas si sentì rincuorato, e decise di informare il padre che sarebbe andato a cercarla: l’assedio, secondo le stime del principe, sarebbe durato a lungo, ed aveva tutto il tempo che gli serviva.

Angolo dell'autrice

Fantastico, ennesimo ritardo di Elen. Anche ora che la scuola è finita e che sono in vacanza gli impegni non si sono certo impegnati a lasciarmi in pace, uff. Maaaaaaa ora sono qui, con il nuovo capitolo, e spero sia piaciuto. Vi anticipo da ora che il prossimo parlerà della Battaglia dei Cinque eserciti e vi spiego una cosetta: i dialoghi della prte finale, quelli tra Bard e Thorin, sono presi direttamente dal libro "Lo Hobbit" di Tolkien, quindi il merito va principalmente a lui. Quando è Legolas a parlare a Thorin, in realtà nel libro è sempre Bard (ma l'avrete compreso, dato che Leggy nel libro non compare). Per concludere, ringrazio tutti/e quelli/e che hanno letto, e mando un abbraccio enorme a tutti i miei lettori silenziosi.


Meneg suilad, mellon nîn. Al prossimo incontro dalla vostra elfa come sempre ritardataria

Hannon le

ElenCelebrindal
 
   
 
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